In questi anni e per tutta la prima metà del Cinquecento – o quantomeno fino alla rappresentazione fiorentina del Commodo di Antonio Landi con le scene di Aristotile da San Gallo, che prevedevano una dilatazione degli intermedi e un sole mobile che marcava il trascorrere
13 Insiste invece sulla verosimiglianza della scena propriamente “fiorentina” Rinaldo Rinaldi, curatore dell’edizione da cui si cita (MACHIAVELLI 2010, ad locum).
14 Altri esempi si trovano nei prologhi del Negromante di Ariosto e della Moscheta di Ruzante. Cfr. ZORZI 1977 (p. 30) e Fanelli 2016.
del tempo – la scena è fissa.15 È certamente importante anche in questo caso tenere in considerazione le differenze tra una scena bidimensionale come quella della “città ferrarese”
(peraltro forse non prospettica), una tridimensionale che al fondale prospettico dipinto affianca elementi lignei in rilievo anch’essi disposti prospetticamente (come accadde per la scena della Calandria descritta da Castiglione e per la cosiddetta scena “peruzziana”) o infine una prospettica ottenuta con un sistema di quinte scalari, come nel modello proposto da Serlio.16 Tuttavia è altrettanto decisivo sottolineare la fissità della scena, e soprattutto il fatto che la scena prospettica e con essa la possibilità di illudere lo spettatore intervengono su questa unità del luogo causata dalla necessità materiale di non poter cambiare la scenografia durante la rappresentazione. Che rapporto c’è tra questa condizione di unità del luogo scenico in accezione materiale e l’unità di luogo che sarebbe stata teorizzata qualche decennio più tardi estraendola – contro la lettera del testo, secondo un’opinione già maggioritaria nel Cinquecento – dalla Poetica di Aristotele?
Condizionata dalla separazione tra un approccio testuale al teatro e uno che si rivolge invece alla scenografia – tra chi segue la gerarchia aristotelica, potremmo dire, e chi la respinge –, la questione è stata tradizionalmente impostata in termini oppositivi: a chi ha visto l’origine del dibattito sulle unità in Aristotele, individuando quindi in una errata interpretazione della Poetica la formalizzazione dell’unità di tempo e ancora di più dell’unità di luogo e in un fraintendimento del trattato la loro preminenza rispetto all’unità di azione (BRAY 1927; WEINBERG 1961; YOUNG
2013), ha replicato chi ha voluto insistere esclusivamente sulle condizioni materiali della
15 Oltre agli studi citati finora e di seguito, sulla scenografia nel Rinascimento cfr. MAGAGNATO 1954(con un utile repertorio di immagini), la raccolta curata da JACQUOT 1964; MOLINARI 1964, 1974 e 1985, MAROTTI 1974 e ATTOLINI 1988,oltre che le sezioni rilevanti all’interno di NICOLL 1971,PERRELLI 2002e SURGERS 2002.Aquesti contributi bisogna aggiungere gli inquadramento di ZORZI 1981 (sulla scena) e di CRUCIANI 1992 (sullo spazio del teatro) nonché, rivolto al Rinascimento, CRUCIANI 1972.
16 Cfr. DAMISCH 1987: 198-199.
rappresentazione come causa della rilettura spazio-temporale dell’unità di azione aristotelica (KERNODLE 1944; VÉDIER 1955).
Nel suo studio Ut pictura theatrum, Emmanuelle Hénin ha reagito a questo reciproco
“aveuglement de la critique” – una situazione per cui “les études sur la dramaturgie classique ignorent massivement l’origine picturale du ‘dogme’ des unités, tandis que l’historiens d’art ne repèrent que sporadiquement le phénomène sans voir sa continuité” (HÉNIN 2003: 277) – sostenendo che occorra ripensare l’influenza tra la teoria e la pratica senza privilegiare né l’una né l’altra: “les unités de lieu et de temps ne dépendent ni d’une lecture myope d’Aristote, ni des conditions matérielles de la représentation” (ibid.: 276).17 Guardando all’“échange constant” (ibid.:
277) tra pittura e teatro, Hénin ha proposto una soluzione in quattro fasi “à la fois successives et simultanées” (ibid.: 277) in cui si declina il rapporto tra le due arti. Senza discutere la prospettiva teleologica con la quale Hénin ricostruisce un problema la cui piena maturazione considera francese malgrado ne riconosca l’origine italiana (ibid.: 276), è possibile rifarsi a queste quattro fasi per rilanciare la questione dei rapporti tra teoria e pratica, tra ricezione della Poetica e condizioni materiali della scena.
La prima fase sarebbe tutta teorica: “les premiers exégètes d’Aristote”, sostiene Hénin,
“tentent de définir l’unité d’illusion à partir d’un schéma visuel abstrait” (ibid.: 277). In questo modo la Poetica di Aristotele conterrebbe già gli elementi teorici non solo per concettualizzare l’unità di azione, “seule explicitement formulée”, ma anche quella di tempo, che “se fonde sur une allusion obscure (et probablement non normative) au ‘tour de soleil’”, e, più problematicamente, quella di luogo, che sarebbe ricavabile dalla “comparaison avec la ‘juste grandeur’ d’un animal”
(ibidem). Nella seconda fase, documentata da opere come il Dialogo della pittura di Paolo Pino
17 Su quest’ultimo punto si veda già DEIERKAUF-HOLSBOER 1960.
(1548) e il Dialogo di pittura di Ludovico Dolce (1557), l’unità di azione in pittura risentirebbe della formulazione del concetto in ambito teatrale. Nella terza, che arriva nel Seicento e prevede il passaggio dall’Italia alla Francia, si verificherebbe un confronto tra le esigenze dell’aristotelismo e l’esperienza pittorica tale per cui “le paradigme visuel et pictural fonde une réflexion sur l’illusion s’exprimant à travers les unités” (ibidem). L’ultima fase, quella dei “traités maniéristes” che inizia dalle Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini e si perfeziona nel Seicento ancora una volta in Francia, comporta un nuovo ritorno dalla teoria delle unità alla teoria della pittura, e approda alla possibilità di leggere il quadro in senso narrativo (ibid.: 277-278).
Come si vede, è questa una ricostruzione che conferma la fluidità dei discorsi di cui si era parlato nel capitolo precedente. Pur essendo metodologicamente condivisibile, però, l’ipotesi di Hénin ha almeno due punti che vorrei discutere, due aspetti corrispondenti alla prima e alla terza delle quattro fasi appena riassunte.
Non è sicuro, infatti, che nella Poetica di Aristotele si trovino tutti gli elementi per l’elaborazione teorica delle tre unità e che si debba perciò partire dalla ricezione della Poetica: se così fosse, ne uscirebbe riaffermata l’idea della linea teorico-testualista, quella che nega alle condizioni materiali della messinscena un ruolo nella determinazione dei concetti di poetica. Ciò non significa peraltro che l’idea di una interpretazione spaziale della giusta dimensione di un’opera – che appunto deve avere grandezza conveniente, come un animale – sia da scartare: anche in quel caso, però, resta da capire che cosa venga prima, se il testo di Aristotele o se, come ho suggerito in precedenza, la spazializzazione della metafora organica che coinvolge la ricezione di Vitruvio e l’utilizzo del corpo in architettura e in urbanistica prima che la Poetica venisse letta e commentata (i primi commenti, vale la pena di ricordarlo, escono alla fine degli anni Quaranta del Cinquecento). Anche se non lo scrive esplicitamente, la data di partenza a cui pensa Hénin per la
sua periodizzazione sembra da collocare non molto prima del commento di Robortello – non si vede altrimenti a chi si starebbe pensando quando ci si riferisce a “les premiers exégètes d’Aristote” (ibid.: 277), dato che il commento di Robortello, a stampa nel 1548, fu il primo a essere pubblicato –, e ciò significa sia trascurare l’eventuale influenza sulla teoria di quello che accadde prima dal lato della pratica sia non tener conto del fatto che in quegli stessi anni, oltre che della Poetica, si discuteva anche di testi tragici, con la polemica sulla Canace che coinvolse Sperone Speroni e Giovambattista Giraldi Cinzio. L’elaborazione teorica, insomma, comprende da subito un’analisi dei testi, e non si ferma all’esegesi del trattato di Aristotele. Sono questi i motivi per cui anche la terza fase di Hénin non è del tutto convincente, perché l’idea che la riflessione sull’illusione del reale si esprima attraverso la formalizzazione delle unità, per quanto da sottoscrivere, si può retrodatare: come si è visto ricordando alcuni dei testi che documentano le reazioni degli spettatori delle prime rappresentazioni con scene prospettiche, il motivo dell’illusione entra fin da subito nel dibattito sul teatro.