Castelvetro non si era in realtà limitato a fissare nel luogo della rappresentazione un’ideale con cui il luogo della finzione doveva tendere a coincidere, ma aveva proposto la semplice identità tra i due poli, ricavando l’unità di azione nel testo tragico – è questa la più grande novità dell’interpretazione di Castelvetro, non l’estensione dell’unità di azione allo spazio e al tempo – dal luogo in cui gli spettatori si trovano ad assistere allo spettacolo e dal tempo che passa durante la rappresentazione. Questo principio, rivelatore della “Caselvetro’s determination to remove the principal emphasis from the poem to the audience” (WEINBERG 1961: 504), è sempre stato attaccato come una delle più forti incomprensioni di cui l’esegesi aristotelica cinquecentesca si sia resa protagonista. Poco importa che esso faccia parte di un sistema teorico ormai del tutto diverso,
che per quanto si presenti nella forma del commento rivendica la propria autonomia in maniera sconosciuta ai precedenti interpreti di Aristotele, anche rispetto a coloro che avevano sostenuto – ma vale la pena di ribadirlo, non di rado “dietro la maschera dell’aristotelismo” – posizioni innovative. Basti il caso, legato alla questione delle unità e delle condizioni del palco, del primato del testo sulla rappresentazione, un principio che Castelvetro non aveva esitato a giudicare errato:
Pare che Aristotele voglia insegnare a conoscere quando la constituzione della favola per sé, e non per mezzo o con aiuto o in compagnia della vista, muove spavento e compassione, e doni questo insegnamento: che noi dobbiamo leggere la tragedia senza tirarla in palco, e se ci sentiamo commuovere a spavento e a compassione, dobbiamo credere che la cosa passi bene e che lo spavento e la compassione procedano donde deono procedere, ma se non vi ci sentiamo commuovere, dobbiamo credere che la cosa non passi bene. Aristotele qui e altrove è di questa opinione, che quello diletto si tragga della tragedia in leggendola che si fa in vedendola e in udendola recitare in atto; la qual cosa io reputo falsa […]. (CASTELVETRO 1978: 388-389)
Proprio questa proclamata centralità della rappresentazione avrebbe potuto guidare la critica verso una valutazione alternativa del presunto fraintendimento di Castelvetro e portare non a misurare la distanza, certo grandissima, della Poetica vulgarizzata e sposta dalla Poetica di Aristotele, ma a formulare un’ipotesi sulle origini di un paradigma di lettura così diverso. Che ci sia stato per così dire un fraintendimento del fraintendimento,30 e che quindi la novità di Castelvetro sia stata criticata prima di essere presa seriamente, lo si vede dall’affermazione secondo cui Castelvetro metterebbe al bando dalla propria idea di teatro l’illusione (FUSCO 1904: 178). Ecco il passo che di solito si cita a testimonianza di questa ipotesi:
[…] l’epopea, narrando con parole sole, può raccontare una azzione avenuta in molti anni e in diversi luoghi, senza sconvenevolezza niuna, prestando le parole allo ’ntelletto nostro le cose distanti di luogo e di tempo; la qual cosa non può fare la tragedia, la quale conviene avere per soggetto un’azione avenuta in picciolo spazio di luogo e in picciolo spazio di tempo, cioè in quel luogo e in quel tempo e quando i rappresentatori dimorano occupati in operazione, e non altrove né in altro tempo. Ma così come il luogo stretto è il palco, così il tempo stretto è quello che i veditori possono a suo agio dimorare sedendo in teatro; il quale io non veggo che possa passare il giro del sole, sì come
30 Una recente presentazione della teoria di Castelvetro nel quadro delle traduzioni cinquecentesche della Poetica di Aristotele è offerta da SIEKERA 2008.
dice Aristotele, cioè ore dodici, conciosia cosa che per la necessità del corpo, come è mangiare, bere, diporre i superflui pesi del ventre e della vesica, dormire e per altre necessità, non possa il popolo continuare oltre il predetto termino così fatta dimora in teatro. Né è possibile a dargli ad intendere che sieno passati più dì e notti, quando essi sensibilmente sanno che non sono passate se non poche ore, non potendo lo ’nganno in loro avere luogo, il quale è tuttavia riconosciuto dal senso.
(CASTELVETRO 1978: 148-149)
Castelvetro istituisce certamente un legame tra i sensi e l’immaginazione del pubblico, ma il fatto che sia impossibile affrancare l’immaginazione dal senso non significa tanto mettere al bando l’illusione, quanto piuttosto farla coincidere pienamente con la realtà del luogo e del tempo in cui gli spettatori si trovano. L’obiettivo, cioè, non consiste nell’escludere l’illusione dal teatro, ma nell’impedire che l’illusione si riveli in quanto tale attraverso la contraddizione tra l’esperienza sensoriale del pubblico e ciò che avviene sulla scena. Più che subordinata al senso, l’immaginazione è vincolata a esso; questo non comporta che l’“inganno” non possa avere luogo, anzi, esso deve realizzarsi: concepire un’azione limitata al luogo e al tempo in cui gli spettatori si trovano – un obiettivo di cui Castelvetro riconosce la “gran difficultà”, e che è una delle ragioni per cui la tragedia deve essere apprezzata – soddisfa genericamente un’esigenza di ‘realismo’, per usare un termine moderno, ma lo fa dando realtà all’illusione che l’azione si svolga interamente davanti agli occhi di chi la guarda. Che il pubblico non possa immaginare di essere altrove rispetto al luogo in cui avviene l’azione vuol dire sì che gli spettatori non possono abbandonare lo spazio e il tempo della loro percezione, ma precisamente perché il senso riconoscerebbe l’inganno di un’illusione che deve essere totale: quella di trovarsi davvero nel luogo dove si svolge l’azione.31
31 A proposito di consonanze tra Castelvetro e Giraldi – tanto più significative per il fatto di trovarsi in testi di genere e funzione diversa, in un caso in un commento alla Poetica, nell’altro nel prologo di una tragedia – si possono citare i versi che introducono la Selene, dove Giraldi invita il pubblico a lasciarsi condurre sul luogo dei fatti: “E benché ’n Alessandria, ch’è ’n Egitto, / Vegna questo soccesso, & sia lontana / Questa città da la cittade vostra, / Il Poeta, per men vostro disagio, / Insensibilemente, con nova arte, / Vi ha tutti insieme a lei fatti condurre. / E se nol mi credete, alzate gli occhi / A questo almo paese, ch’io v’addito, / Et vi vedrete, senza muover piede, / Giunti tutti in un punto in Alessandria”. Questo passo è stato di recente accostato a quello con cui, nel prologo della Giocasta, Ludovico Dolce invita gli spettatori a pensare di trovarsi in Tebe (FANELLI 2016:12): che Dolce dica “e, se non sete in lei con la persona, / Siatevi con la mente e col pensiero” è tuttavia una grossa differenza rispetto a Giraldi, perché in questo caso
Nella sua lettura del dibattito sulla Canace che coinvolse Giraldi e Speroni, Stefano Jossa ha notato alcune “vistose sintonie” (JOSSA 1996: 102) tra certe posizioni di Giraldi e la lezione di Castelvetro, “dalla proiezione verso il pubblico alla priorità della vista sull’udito […] che li avvicinano nella comune protesta contro la separazione di poesia e natura” (ibidem). Sarebbe stato inutile chiedere a Giraldi la stessa libertà di giudizio con cui Castelvetro si permetteva di contraddire Aristotele, ma resta il fatto che è un’analoga idea del primato della rappresentazione rispetto al testo – non aristotelica, eppure da Giraldi ancora legittimata con l’autorità di Aristotele – a condurre da un lato alla necessità di una “azione che abbia somiglianza col vero”, cioè a una recitazione che non svela la finzione della scena, e dall’altro a ricavare dal luogo e dal tempo della scena l’unità dell’azione che vi si svolge. Per collegare Giraldi a Castelvetro, Jossa si è basato soprattutto sulla lezione di Maggi (maestro di Giraldi a Ferrara, come si è detto, e autore di un commento sicuramente tenuto presente da Castelvetro nella redazione del suo) e in particolare sulla funzione che la componente spettacolare della poesia prenderebbe una volta che alla poesia è assegnato un fine morale – decisiva è l’interpretazione del concetto aristotelico di catarsi – che appunto richiede un’enfasi su tutto ciò che può impressionare, e quindi dilettare ed educare insieme, lo spettatore. Nell’idea giraldiana di tragedia e più in generale di letteratura, Maggi e Castelvetro “possono convivere sotto il minimo comune denominatore della letteratura per il pubblico, comunicazione e spettacolo” (ibid.: 53).
Questo modo di procedere che individua ‘somiglianze di famiglia’ tra teorie che non condividono necessariamente tutto – è l’idea del “minimo comune denominatore” – è utile, ma nel caso specifico merita di essere integrato perché, così com’è formulata, ricalca la gerarchia stabilita da Aristotele per cui allo spettacolo tocca una posizione ancillare: è il diverso modo di
non si riconosce alla scenografia alcun ruolo esplicito per il realizzarsi dell’illusione. Su questo aspetto piuttosto ricorrente nei prologhi di Giraldi si tornerà più avanti, ma intanto cfr. CREMANTE 1988: 269.
intendere il fine della poesia, e dunque un problema teorico-filosofico, che determina la posizione da tenere nei confronti dello spettacolo. Si tratta di una spiegazione possibile, certo, ma nell’ultimo paragrafo di questo capitolo vorrei suggerire un’ipotesi alternativa: ricapitolando il percorso compiuto fino a qui, proporrò infatti di attribuire allo spettacolo un valore di causa per l’elaborazione delle teorie di poetica.