La nascita del teatro moderno è un fenomeno pratico e teorico, fatto di sperimentazioni con la messinscena e di riscoperte testuali, tanto di testi drammaturgici classici quanto di opere teoriche.
All’interno di questo articolato processo, che convenzionalmente si fa iniziare nelle corti italiane del secondo Quattrocento e che prosegue per tutto il secolo successivo fino a prendere una dimensione europea, si individuano di solito due fuochi che vanno da un massimo a un minimo di teorizzazione: dalla parte del primo si dispongono i generi più intellettualistici, dalla parte del secondo quelli più vicini a una fruizione immediata, se non popolare quantomeno non gravata da un approccio normativo alla letteratura. È un modello che non vale soltanto per il teatro, e che risulta particolarmente adatto per parlare di un’epoca che, con la stampa, conosce possibilità di
4 Proprio trascurando la genealogia che dalla prima edizione della Sofonisba passa alla seconda e infine approda al risultato della Quinta divisione della Poetica, Maria Luisa Doglio può permettersi di sottolineare la coincidenza tra Aristotele e Trissino e di affermare che l’idea secondo cui il testo tragico ha valore assoluto, indipendente dalla messinscena, è “autorevolmente ribadita” (così in INGEGNERI 1989: XIII) da Trissino in accordo con Aristotele:
l’excusatio non petita e il confronto tra le prese di posizione successive di Trissino – fattori né l’uno né considerati da Doglio – attenuano invece questa certezza.
diffusione e di regolamentazione senza precedenti: l’applauso della moltitudine non è mai stato così importante, così come non lo sono mai state le regole di un sistema dei generi letterari alla cui definizione contribuisce ormai il mercato editoriale.
La sintesi migliore di un panorama letterario che si estende dall’apprezzamento del pubblico senza l’approvazione dei dotti al rispetto degli esperti di poesia privo di successo presso i lettori è offerta ancora una volta da una pagina dei Discorsi dell’arte poetica di Tasso, dove il contrasto è esemplificato dai casi di Ariosto e di Trissino, nella fattispecie poeta epico dell’Italia liberata dai Goti:
l’Ariosto, che, partendo dalle vestigie de gli antichi scrittori e dalle regole d’Aristotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l’età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovanisce sempre nella sua fama, e vola glorioso per le lingue de’ mortali; ove il Trissino, d’altra parte, che i poemi d’Omero religiosamente si propose d’imitare e dentro i precetti d’Aristotele si ristrinse, mentovato da pochi, letto da pochissimi, prezzato quasi da nissuno, muto nel teatro del mondo e morto alla luce de gli uomini, sepolto a pena nelle librarie e nello studio d’alcun letterato se ne rimane. (TASSO 1964: 22-23)
Un discorso analogo, come si diceva, si potrebbe fare per il teatro, mettendo in contrasto i generi non teorizzati dalla Poetica (come la commedia, materia del presunto secondo libro del trattato) o addirittura non previsti (come la tragicommedia, forma mista che sfuggiva alla griglia aristotelica), con un genere come la tragedia, non solo dettagliatamente discusso, ma anche ritenuto la più nobile tra le forme letterarie da Aristotele. Come nel caso dell’epica affrontato da Tasso, Trissino starebbe ancora dal lato dell’insuccesso di pubblico, anche se in realtà la sua Sofonisba ebbe numerose edizioni (sedici nel Cinquecento). È vero però che la tragedia come genere conobbe una fortuna molto limitata, per ragioni tanto estetiche – ancora di recente si è riproposta un’idea che era già stata di Croce, suggerendo che il problema principale sia stato la mancanza di un capolavoro, di un equivalente di ciò che fu la Gerusalemme liberata per la poesia epica (JAVITCH 2001b) –, quanto politiche, visto che “le fragili signorie” italiane, a differenza di ciò che sarebbe
accaduto in Inghilterra e in Francia, “non sopportavano di veder messe a nudo le contraddizioni del principe” (PIERI 2006: 169), che non ultimo per motivi economici, dato che per la messinscena della tragedia, inevitabilmente sfarzosa per essere imitazione “d’azzioni reali e di regie persone”, serviva “borsa reale”, come avrebbe detto Angelo Ingegneri con ottica oramai retrospettiva nel 1598 (INGEGNERI 1598:10).
Le ultime due cause di ‘sfortuna’ della tragedia sono importanti anche per un’altra polarizzazione, questa volta interna al genere tragico, tra una riscoperta della tragedia in senso filologico – come studio, commento e riscrittura dei testi e dei trattati – e una in accezione propriamente teatrale, come tentativo di riportare sulla scena i testi tragici. Torniamo così all’individuazione delle sei parti della tragedia secondo Aristotele e alla gerarchia per cui alla
“favola” spetta il primo posto e alla rappresentazione l’ultimo, esclusa dall’arte di comporre tragedie per come deve intenderla il poeta. Per quanto riguarda questa nuova alternativa – tragedia testuale da una parte, tragedia teatrale dall’altra –, Trissino è solitamente considerato uno dei rappresentanti del primo gruppo, mentre Giovambattista Giraldi Cinzio fu colui che iniziò a concepire la questione della tragedia in termini teatrali, rivelando anche in questo ambito, come per il romanzo, un’attitudine a superare le regole aristoteliche sulla base della convinzione che a tempi moderni dovessero corrispondere regole moderne.5
Ricostruire lo scenario complessivo della tragedia italiana del Cinquecento imporrebbe di valutare la specificità di ogni singola corte, seguendo un modello di storia letteraria sempre metodologicamente ricondotto all’influente studio di Dionisotti Geografia e storia della letteratura italiana (1967) e per la tragedia applicato di recente da Marzia Pieri (2006). A guardare la situazione dal punto di vista teorico, però, ci si può limitare a segnalare le due direzioni sopra
5 Rinvio su questo a CONFALONIERI 2014con ulteriori rinvii bibliografici e una discussione dei maggiori studi dedicati al problema della legittimazione teorica del romanzo nel Cinquecento (HEMPFER 1987, JAVITCH 1991,SBERLATI
2001).
indicate, sottolineando che, a fronte delle difficoltà pratiche della messinscena, progressivamente
“ci si arrese del tutto” (PIERI 2006: 194): la tragedia declamata, cioè, prevalse, allontanando il genere dal palcoscenico e favorendone una concezione aristotelica, quella che prevedeva la centralità del testo e la corrispondente svalutazione della messinscena – l’idea, insomma, che ha fatto parlare di Aristotele come del “vampiro” del teatro occidentale (DUPONT 2007).
L’inferiorità della rappresentazione rispetto all’azione (alla “favola”, col termine in uso nelle traduzioni cinquecentesche della Poetica) significa che la messinscena non deve avere un ruolo nella concezione del testo, che infatti, secondo un famoso principio di Aristotele, dovrebbe riuscire a esercitare la sua potenza anche senza la rappresentazione e senza gli attori. Da questa prospettiva, la discussione sulla tragedia che si svolse sul testo di Aristotele tradotto e commentato nel Cinquecento sembrerebbe non aver niente a che fare con la dimensione della rappresentazione. Eppure nel “dibattito serrato e […] pedantissimo sui grandi temi del verosimile, della funzione civile del teatro, delle unità, del concetto di imitazione” (PIERI 1989: 123) è riconoscibile una presenza della rappresentazione che non si può spiegare con il solo riferimento alla Poetica. Ciò vale sia per la scelta dei temi del dibattito che per il modo di affrontarli: pur discussi col testo di Aristotele alla mano, i problemi teorici appena elencati non sono interamente provocati dalla Poetica né sono del tutto risolti sfruttando i principi che si potevano ricavare dal trattato. Ma c’è ancora un’altra questione che è importante sollevare: il fatto che non tutto il dibattito fosse ‘aristotelico’ ma che per ‘aristotelico’ sia stato sempre considerato – e ciò fin dal Cinquecento, quando “dietro la maschera dell’aristotelismo” (JAVITCH 1999a) si cercano talvolta di far passare idee che non erano in realtà riconducibili ad Aristotele – apre un problema nell’interpretazione dei testi e nella valutazione delle categorie utilizzate per spiegarli. Ne darò un
esempio concentrandomi su due delle questioni poc’anzi elencate e sul loro rapporto reciproco, quella della verosimiglianza e quella dell’unità.