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Galeotto del Carretto: tragedia di Sofonisba, romanzo di Massinissa

Poco dopo aver iniziato a riassumere la trama della Sofonisba di Galeotto Del Carretto, uno studioso ottocentesco oramai dimenticato sentiva la necessità di chiosare i numerosi cambi di scena – nel giro di qualche riga soltanto, la sinossi aveva già dovuto dar conto dell’ambasciata presso Scipione dei tre numidi mandati da Massinissa e della contemporanea missione di Lelio presso Siface voluta da Scipione in cerca di un alleato contro Cartagine – notando tempestivamente che “niun pensiero si dà il poeta delle unità di luogo e di tempo” (LANZA 1879:

197), e che tale inosservanza delle regole di cui “timorati seguaci […] furono gli altri” spiega

“perché fu così poco pregiato il lavoro di questo poeta in quella età” (ibidem). L’osservazione era corretta e parziale insieme: corretta, perché la pubblicazione posticipata dell’opera la espose a un contesto diverso da quello in cui era stata scritta, certamente meno favorevole a un testo oramai percepito come irregolare (di qui le critiche di qualche decennio dopo di Angelo Ingegneri);

parziale, perché il mancato rispetto delle norme a cui gli altri testi tragici si adeguavano non basta a spiegare l’insuccesso del testo, che invece Lanza si impegnava fin troppo a riabilitare contro la Sofonisba di Trissino. L’affermazione più sicura che si può fare riguardo all’opera di Galeotto è quella, già ricordata sopra, secondo cui “fra le rappresentazioni profane” si tratta del testo che

“meglio conserva l’impronta del teatro sacro popolare” (NERI 1904: 9).5 Ciò non deve comunque far pensare che la Sofonisba fosse destinata alla rappresentazione, come vollero invece credere Mauda Bregoli Russo, curatrice dell’ultima edizione a stampa – sfortunatamente imprecisa nella riproduzione del testo6 e confusa nell’introduzione critica – e molto tempo prima di lei Giuseppe Manacorda (1898-1899: 92). L’errore di questi ultimi studiosi consisteva nel dare la rappresentazione per scontata e nel misurare poi le differenze dell’opera rispetto alle tragedie successive come se vi si potesse leggere un “esperimento teatrale” (così in DEL CARRETTO 1982:

39) alternativo alla forma dominante dell’unità di azione: un anacronismo che nel caso di Bregoli Russo portava a una spericolata legittimazione della tragedia di Galeotto alla luce di ciò che scrisse Giraldi Cinzio nei Discorsi intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, e più in generale a fraintendimenti come quello con cui, dal ruolo del coro, che nella Sofonisba ha “l’ufficio di avvertire lo spettatore di tutti i cambiamenti di scena” (ibid.: 36), si derivava il “bisogno assoluto di un apparato scenico” (ibidem). Nel quadro di questo equivoco, la pagina più volte menzionata di Ingegneri poteva essere addirittura distorta fino a diventare la prova in base alla quale “sarebbe

5 A questo proposito Lanza sembrava disposto a riconoscere al dramma di Galeotto una funzione di “trapasso dal modo, che tenevasi nelle rappresentazioni sacre, alla forma, che poi assunse la tragedia nostra” (LANZA 1879: 195).

Nel resto del lavoro questo punto rimane però non sviluppato, e la riabilitazione della Sofonisba avviene su basi vagamente romantiche – si parla di versi “belli e spontanei” (ibid.: 209) – che insistono soprattutto sull’efficacia nella rappresentazione dei personaggi e delle loro passioni (su tutti Sofonisba, Massinissa e Siface, a p. 210).

L’apparentamento dell’opera con la forma della sacra rappresentazione aveva al contrario uno scopo esplicitamente svalutativo in PROTO 1897, recensione a CIAMPOLINI 1896. La Sofonisba di Galeotto è stata qualche volta catalogata tra i cosiddetti “drammi mescidati”, esito del tentativo di “piegare […] alla regolarità classica le libere fogge del teatro popolare” (ROSSI 1933: 381): cfr. per esempio MANACORDA 1898-1899: 83 e TURBA 1971: 95.

6 Lo segnalava già CREMANTE 1988. Per limitarsi a un solo esempio, piuttosto clamoroso, la curatrice trascura di integrare o quantomeno di segnalare una lacuna dell’unica stampa cinquecentesca, che omette una didascalia del dialogo tra Massinissa e Scipione e fa quindi contraddittoriamente seguire due didascalie che indicano che a pronunciare la battuta è Scipione. Bregoli Russo continua ad annotare il passo senza segnalare che tra una battuta e l’altra di Scipione ci sono tre ottave pronunciate da Massinissa (nella copia digitale disponibile su Google Books una mano molto più tarda ha provveduto ad aggiungere una “M” per segnalare la lacuna, del resto facilmente identificabile). Cfr. DEL CARRETTO 1546: 14r e 1982: 171-173. Per questa generale inadeguatezza, cito il testo dalla princeps del 1546.

veramente inconcepibile l’opera del Del Carretto come destinata alla sola lettura” (ibidem):7 che l’Ingegneri non si capacitasse delle incoerenze di una tragedia che, da lui “veduta a stampa”, non avrebbe tollerato il passaggio alla scena, diventava implicitamente per Bregoli Russo la ragione con cui sostenere che il testo non potesse vivere senza il palcoscenico, risultando dunque non irrappresentabile, come voleva Ingegneri, ma piuttosto illeggibile.

Proprio alla lettura, invece, lo stesso Galeotto aveva destinato la sua Sofonisba, inviandola a Isabella d’Este il 22 marzo 1502 perché, appunto, la leggesse: “leggetela dunque quando haverete oportunità di leggerla, tenendomi di continovo nel vivo della memoria sua sì come meta il candido della servitù” (DEL CARRETTO 1546:5v). Nella dedica Galeotto allude ripetutamente all’“antiquo obligo” nei confronti della duchessa, un obbligo “volontario e spontaneo” dal quale non intende affatto sciogliersi e che, nell’impossibilità di una visita di persona, lo ha tante volte spinto a un omaggio in versi. Dopo “qualche intervallo” giustificato con “qualche impedimento” e con le “mal disposte conditioni dei tempi”, Galeotto torna ora a scrivere per Isabella: “mi è parso per non cadere in contumacia”, dice riferendosi appunto a un periodo di silenzio, “di mandargli questa opera mia continuata, la qual per una volta sarà in satisfatione de le mie rime, che le soleva mandare” (ibid.: 5r-5v).8 C’è una differenza, certo, tra l’“opera continuata” e le “rime”, ma nessun passaggio della lettera lascia credere alla prospettiva di una rappresentazione. Anche l’elemento testuale su cui Bregoli Russo ha fatto leva per sostenere la dimensione performativa della tragedia, il coro, può essere in realtà letto in termini diegetici e non mimetici. Il coro, infatti, è “quasi un didascalo, un narratore che si giova dei fatti come di un’illustrazione: le scene variano il racconto,

7 Di diverso (e corretto) parere Luciano Bottoni, per il quale il testo era “destinato probabilmente alla lettura”

(BOTTONI 1999: 96).

8 Per i rapporti epistolari tra Galeotto e Isabella, piuttosto intensi e duraturi, si veda la scelta di lettere pubblicata da TURBA 1971 e più in generale LUZIO-RENIER 1900 (poi 2005): 325-349 (cit. già in FUMAGALLI 1978: 392) e ora MINUTELLI 2004.

che egli poi riprende” (NERI 1904: 9). Questi inserti di narrazione che si ascrivono alla funzione-coro svincolano il testo dalla verifica della vista, come già voleva Aristotele e come avrebbe rimproverato Ingegneri; a un fine analogo concorrono le didascalie esplicite,9 che coprono i salti da una scena all’altra – tra i molti esempi possibili: “Asdrubale, figliuolo di Gisgone, essendo a Gade, dice alli suoi”; “Scipione, giunto in Sicilia per passare in Africa, da sé dice così”; “Asdrubale, andando a Cartagine, dice per camino”; “Annibal, essendo in Abruzzo, parla ai suoi capitani” – e che, contro la “norma classicistica” che faceva “della parola diretta dei personaggi l’unico veicolo della visualizzazione spettacolare” (RICCÒ 2008: 209), consentono al testo di muoversi senza sforzo tra luoghi lontani.

Non mancano esempi in cui la scena è ricostruibile a partire dalle battute dei personaggi. In quasi tutti questi casi si rinvia a Cirta, a uno spazio che alle volte può essere genericamente immaginato tra il porto e le mura e altre volte più specificamente individuato come antistante al palazzo di Siface o alla porta della città. Isolando questi riferimenti – poco meno di una decina – si ottiene un nucleo non troppo diverso da quello della successiva tragedia regolare, e ciò può legittimare in accezione formale l’idea di Lanza secondo cui la Sofonisba segnerebbe un momento di passaggio dalla sacra rappresentazione al dramma cinquecentesco.10 Ecco Lelio che, avviandosi verso la porta del palazzo reale di Cirta, ne vede uscire “gioiosi”, in momenti diversi del dramma, Siface (che a quel punto ha appena ricevuto Asdrubale intenzionato ad allearsi con lui), e Massinissa, che invece allora avrà – incautamente, come Lelio ormai sa bene – sposato Sofonisba:

Ma veggiolo [Siface] venir fuor de la porta Tutto gioioso in vista, e tutto allegro,

9 Proprio in polemica contro chi pensava di poter “giudicare un testo teatrale dalle didascalie”, è stato da tempo osservato che “la didascalia non si configura come momento teatrale-spettacolare bensì addirittura come momento narrativo di un testo teatrale” (SCRIVANO 1980b: 211).

10 Più convincente è comunque l’idea che Galeotto abbia sì vissuto un momento di passaggio nella storia delle forme teatrali, ma che l’approdo a una forma classica avvenga solo con la commedia Li sei contenti (cfr. TURBA 1971: 95).

E perché ’l tempo in ciò m’è guida e scorta, A salutarlo non voglio esser pegro […]. (17r)

Ma ’l veggio fuori uscir de l’ampia corte Tutto gioioso, e di letitia pieno,

Hor come sarò mai constante e forte

Ch’io non gli scuopra in parte il mio veleno? (41r)

Accade però più spesso che siano le didascalie o il coro a spiegare la successione di scene che sarebbe impossibile vedere in sequenza sul palcoscenico, a condizione di non immaginare soluzioni tecniche che l’ingegneria teatrale del tempo non avrebbe potuto permettersi. Vedere in questa struttura un segno di sperimentalismo significa costringere il testo a una destinazione performativa che era rimasta estranea alla sua concezione. Può capitare che il personaggio in scena replichi l’indicazione della didascalia e pronunci una battuta con cui individua la propria posizione, ma si tratta sempre di un riferimento tra didascalia e battuta, non tra battuta e scenografia. Senza discutere il passaggio che aveva fatto sobbalzare Ingegneri – quello in cui Asdrubale, che la didascalia indica in cammino verso Cartagine ma che con l’uso dei deittici aveva prima fissato la sua posizione in scena nella corte di Siface,11 pensa ad alta voce ai due messaggeri frattanto giunti in Sicilia ad annunciare a Scipione la rottura dell’accordo con lui da parte di Siface e agli altri nunzi che andranno in Abruzzo per mettere al corrente della situazione Annibale, l’una e l’altra scene destinate a leggersi di lì a poco –, si può fare l’esempio di Massinissa a Gade, costretto da giorni nel luogo dove Scipione gli ha chiesto di attendere sue notizie e l’eventuale ordine di unirsi a lui in battaglia: “Già son più giorni ch’io son gionto a Gade” (21v), dice Massinissa, che però a questo punto dovrebbe trovarsi a molti giorni di viaggio da dove lo rivedremo situare la propria posizione

11 La didascalia annuncia che “ASDRUBALE IN CORTE / di Siphace compare solo, e dice”, e così prosegue il personaggio: “Che deggio far? chi mi darà conseglio? / Che strada è da tener al camin mio? / Che quel, che già pensai essermi il meglio, / Trovo esser peggio, poi che qua venni io, / E se dal falso sonno non mi sveglio / In far riparo al mio nimico rio, / Ch’è qui venuto per far nuove trame, / Veggio a l’ordito mio rotto lo stame” (18r). Asdrubale è angosciato perché appena scoperto del progetto di Scipione di allearsi con Siface, e teme di finire accerchiato. Lo stratagemma con cui penserà di uscire da tale situazione consisterà non solo nell’offrire in sposa a Siface la figlia Sofonisba, ma nel chiedere esplicitamente a quest’ultima di agire perché Siface scelga Cartagine contro Roma.

in scena – “Al fin qua venni, e i cittadini aspetto, / Che con le chiavi m’aprano lor porte” (39r) –, e cioè alla porta di Cirta.

Esclusa per via testuale e paratestuale l’idea che la rappresentazione, e dunque ciò che riguarda l’apparato scenico, influisca sulla struttura del testo di Galeotto, resta da chiedersi quale rapporto lo spazio e il tempo abbiano con l’azione della tragedia.

Converrà affrontare la questione a partire da una ‘sfasatura’ che la critica ha già notato, e cioè la tardiva comparsa sulla scena – nel testo, anzi, perché di scena non si dovrebbe parlare – di Sofonisba, cui pure la tragedia è intitolata. “Ad una prima lettura”, ha scritto Mauda Bregoli Russo senza peraltro rimediare nel seguito del suo saggio all’effetto di questa prima impressione che il lettore ricava, la Sofonisba “appare sfasata nelle proporzioni: la protagonista ha una piccola parte, si mostra soltanto dopo la metà del dramma e parla unicamente in quattro di tutte le ventotto parti” (in DEL CARRETTO 1982: 33). È vero infatti che a Sofonisba tocca, per volere di Asdrubale, un ruolo esplicito di causa dell’ostilità di Siface verso Roma12 cui nel racconto liviano l’unico ad accennare era proprio Siface, allora però mosso dall’odio e della gelosia verso Massinissa e desideroso di vendicarsi di lui e contemporaneamente di riabilitarsi agli occhi di Scipione;13 eppure gran parte dell’azione si svolge senza di lei, e senza che la sua posizione interferisca con gli eventi.

Si potrebbe spiegare questo aspetto ricordando che Galeotto allarga la trama fino a comprendere gli antefatti, che in realtà finiscono per prendere il sopravvento (di qui la sensazione di sproporzione): la Sofonisba è in parte la tragedia di Sofonisba e nel complesso il romanzo di

12 Così Asdrubale istruisce la figlia dopo averle comunicato la notizia delle sue imminenti nozze con Siface: “Tu sarai la possente calamita, / Che il voler di Siphace a te trarrai, / Ov’ei ferrigno fusse a far’unita / La sua fe con Romani à nostril lai, / Tu sarai la catena, ben gradita / Onde il suo cuor con noi legato, homai / Fia sempre nostro, e non giamai d’altrui, / Ei con noi sempre essendo, e noi con lui”. Sofonisba si fa carico della missione: “Genitor caro, se tu sai che volgia / Non forse unquanco in me che fusse avversa / Al tuo voler, non puote hor men che soglia / Dartisi a diveder fiera e traversa / L’anima, finch’è chiusa in questa spoglia, / Sì che far puoi di me quel che più versa / (S’egli è destino, ove m’hai destinato) / Pace a la mente tua, tregua al tuo stato” (29r-v).

13 Cfr. Livio, Ab Urbe condita XXX, 13-14.

Massinissa, che guadagna l’amicizia politica di Scipione, rischia di perderla per un’improvvisa passione privata, ma corregge il suo errore e conquista il regno a cui ambiva. È facile osservare che, passato il prologo, il testo si apre con il discorso con cui Massinissa invia tre messaggeri a Scipione per ottenerne l’amicizia e si chiude, subito dopo il lamento con cui Massinissa celebra la memoria di Sofonisba, con la notizia data dal coro dell’insediamento del nuovo sovrano di Cirta:

L’Essequie celebrate con gran pompe Di Sophonisba in Cyrtha hoggi saranno, Et Massinissa per costei non rompe La fede a Scipion per tanto affanno, Però che un vero amor non si corrompe Ne i cuor, che di vertù fuggon l’inganno, Indi hoggi ei fia da Scipion locato

Seco in gran trono standogli da lato. (52v)

È possibile affrontare queste stesse questioni dalla prospettiva dello spazio e del tempo, analizzando cioè il modo in cui spazio e tempo interagiscono con l’azione. Occorre farlo su due livelli: sul piano della scena – della presunta scena: è il caso di ribadirlo, visto che si tratta di astrarre la scena da un testo da leggere –, bisogna chiedersi se e come questa condizioni l’azione;

sul piano del racconto, si deve verificare agli occhi di chi e come lo spazio e il tempo siano eventualmente connotati all’interno del testo.

Rispondere al primo quesito è semplice: la scena non offre alcuna costrizione allo svolgersi dell’azione. Non c’è alcun luogo che l’azione non possa raggiungere, perché di fatto non c’è alcuna illusione scenica da preservare: dall’Abruzzo alla Sicilia, da Cirta a Gade, tutto può essere in scena perché tutto può essere letto. Roma manca – Scipione dice di esserci stato, sì, ma mentre parla lo vediamo in Sicilia14 –, eppure nessuna costrizione materiale la esclude: il timore di Sofonisba di

14 Facendo seguito alla didascalia che ci avverte che “SCIPIONE GIUNTO IN /Sicilia per passare in Affrica da sé dice così”, il generale romano ricapitola in questo modo i suoi spostamenti a beneficio del lettore: “Da che lasciai Siphace in Spagna venni, / Donde partendo a Roma al fin n’andai, / E quivi il caso io forte sostenni / Non contro a Fabio pur,

cadere prigioniera dei romani all’interno del testo non avrebbe al di fuori di esso alcun freno al suo concretizzarsi, perché Cirta è un luogo di finzione tra gli altri, non più vincolato a una scena di quelli che, magari una sola volta, compaiono nella tragedia.

Questa osservazione conduce al secondo quesito. Che manchino un luogo e un tempo sovradeterminati dai limiti della scenografia, infatti, comporta che la connotazione dello spazio e del tempo sia soltanto l’effetto dell’investimento sui luoghi e sui tempi dei personaggi. Da questo punto di vista, la marginalità di Sofonisba – personaggio eponimo dell’opera, ma solo in apparenza protagonista – è chiara: nei suoi quattro interventi, mai la donna si riferisce al movimento nello spazio o allo scorrere del tempo. Gli unici personaggi per cui spazio e tempo contano, i soli, cioè, che hanno un ruolo nella connotazione dei luoghi e dei ritmi con cui si passa dall’uno all’altro, sono Scipione, Massinissa e Asdrubale. Per ragioni diverse, tutti e tre all’inizio del racconto vogliono raggiungere Cirta: Massinissa per conquistare il potere su un regno che considera suo;

Scipione e Asdrubale per ottenere l’alleanza di Siface allo scopo di prevalere l’uno sull’altro: Roma cerca nella Numidia un aiuto per vincere Cartagine, Cartagine un alleato per resistere a Roma.

Questa convergenza degli interessi di tre personaggi su Cirta fa sì che spazio e tempo comincino a contare nel testo non appena diventano distanze che separano dalla città. Va detto che, se per Scipione e Asdrubale è importante superare il rivale – chi dei due arriverà prima a Cirta, sembra di capire, otterrà l’amicizia di Siface –, e dunque il rapporto di entrambi con Cirta è mediato dalla figura del nemico, anche per Massinissa, che pure il rivale lo ha proprio a Cirta, il rapporto spazio-temporale con la città è mediato: in questo caso, però, lo è attraverso l’alleato Scipione, in grado di comandarne gli spostamenti e i tempi degli spostamenti. Il potere di Scipione su Massinissa si manifesta in forma spazio-temporale quando leggiamo di Massinissa a Gade,

ma a molti assai, / Tal che ’l mio voto nel Senato ottenni. / Quindi in Sicilia il passo io dirizzai, / Dove hora sono, e donde ho destinato / Carthagine assalir per ogni lato” (Del Carretto 1546: 27v).

costretto ad attendere il momento in cui potrà unirsi all’impresa e solo così conseguire il proprio scopo. Ecco quale era stato l’ordine di Scipione:

A Gade tu potrai far tuo camino E là spettar insino a mia venuta, E soggiornar in luoco al mar vicino Con la tua gente in parte proveduta, E quando sarò giunto in quel confino Partir non debbi senza mia saputa, C’havrai da me novella, ove potrai Unirti meco, quando giugnerai. (14r-v)

Questo potere non è tuttavia connesso originariamente con lo spazio e col tempo dettati da un’improbabile scena multipla: è infatti il potere di un sovrano sull’altro, lo stesso che imporrà a Massinissa di salire al trono, ma soltanto alle condizioni stabilite da Scipione. L’episodio di Sofonisba serve per manifestare la subordinazione di Massinissa a Scipione: è una gerarchia che si annuncia nello spazio e nel tempo – ancora: Massinissa deve attendere a Gade che Scipione gli ordini di partire – ma che non ha alcuna ragione spazio-temporale, e soprattutto non interagisce con le costrizioni, del resto assenti, della scena.

Da parte sua Sofonisba non manca certo di eroismo, fin da quando chiede a Massinissa di risparmiarle un’esistenza da prigioniera, e dunque “che sia morta, o almen libera viva” (39r); ma il suo gesto di accettazione del destino tragico auto-celebrato in cinque ottave che estendono la lapidaria battuta riferita da Livio serve più a illuminare i rapporti tra gli altri personaggi che non a farne risaltare la scelta di morte. Usata da Asdrubale, che l’ha prelevata da Cartagine destinandola a un matrimonio politico, e rinnegata da Siface, che si è riscattato agli occhi di Scipione scaricando su di lei la responsabilità della rottura del patto di amicizia, Sofonisba è stata velocemente abbandonata anche da Massinissa, che pure le aveva dato l’illusione della libertà e della vita. In un

Da parte sua Sofonisba non manca certo di eroismo, fin da quando chiede a Massinissa di risparmiarle un’esistenza da prigioniera, e dunque “che sia morta, o almen libera viva” (39r); ma il suo gesto di accettazione del destino tragico auto-celebrato in cinque ottave che estendono la lapidaria battuta riferita da Livio serve più a illuminare i rapporti tra gli altri personaggi che non a farne risaltare la scelta di morte. Usata da Asdrubale, che l’ha prelevata da Cartagine destinandola a un matrimonio politico, e rinnegata da Siface, che si è riscattato agli occhi di Scipione scaricando su di lei la responsabilità della rottura del patto di amicizia, Sofonisba è stata velocemente abbandonata anche da Massinissa, che pure le aveva dato l’illusione della libertà e della vita. In un