Fin dall’inizio della sua storia, la poetica occidentale ha individuato nel corpo un modello di unità per il testo. Nella Poetica di Aristotele, l’immagine dell’organismo compare nel quadro di una discussione sulla bellezza intesa come risultato della combinazione di un ordine tra le parti e di una misura adeguata, non troppo esigua e non troppo estesa: “ciò che è bello, nella vita animale come in tutte le cose composte di parti, deve non solo averle ordinate, ma presentare anche una grandezza non casuale” (1451b35, ARISTOTELE 2010:63). Non è però nell’analogia tra struttura poetica e forma vivente che consiste la novità di Aristotele: già Socrate, nel Fedro di Platone, aveva chiesto al proprio interlocutore di convenire sul fatto “che ogni discorso deve essere composto
come un essere vivente con un proprio corpo, in modo da non essere privo né di capo né di coda, ma da avere le parti centrali e quelle esterne scritte in modo appropriato sia le une rispetto alle altre sia rispetto all’insieme” (264 C). La specificità del discorso aristotelico risiede semmai in una concatenazione di fattori interdipendenti – interezza, ordine, unità, misura appropriata – che determinano una unità teleologica rispetto alla quale il corpo non è un modello, ma piuttosto un esempio, una semplice illustrazione. Quest’ultima è una tesi di Halliwell, che ha contestato l’idea che il modello di unità di Aristotele sia “biological” (che derivi quindi dal corpo di un essere vivente) sostenendo al contrario che sia logico-funzionale, applicabile “everything which consists of parts” (HALLIWELL 1986: 98). È sempre rischioso isolare un concetto dalle metafore impiegate per esprimerlo, e rivendicare l’anteriorità delle idee rispetto alla retorica che le mette in discorso (DE MAN 1979: 3-19); è comunque necessario sottolineare questo carattere strutturale dell’unità prevista da Aristotele, un tratto che diventa evidente nel capitolo successivo della Poetica, l’ottavo, quando si dice che un’azione è “una e intera” se riunisce “le parti relative ai fatti in modo tale che cambiandone o aggiungendone qualcuna si sconvolge e si muta l’intero” (1451a30, ARISTOTELE
2010:65).
Ancora nella seconda metà del Cinquecento, in uno dei testi più importanti della poetica tardorinascimentale, la concezione di unità sistematica introdotta da Aristotele è ciò che consente di conciliare la regola classica dell’unità, appunto, e la varietà, ormai indispensabile per il gusto
“isvogliato” del pubblico moderno (TASSO 1964:35). È una tra le pagine più famose dei Discorsi dell’arte poetica di Tasso, quella dove il giovane poeta cerca di trovare la formula per accogliere nella struttura unitaria del testo epico la maggiore quota possibile di molteplicità:
Io per me e necessaria nel poema eroico la stimo (scil.: la varietà), e possibile a conseguire; perochè, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e, discendendo poi giuso di mano in mano, l’aria e ’l mare pieni d’uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti
e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudini e orrori; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario; così parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a participare) un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini. (Ibid.:35-36)
La frase che chiude questa pagina è pressoché identica a quella di Aristotele: basta cambiare una parte e il tutto ne esce alterato. Ciò che muta è quello che Francesco Orlando chiamava “tasso di figuralità” (ORLANDO 1992: 56-73): a fronte di una ridotta figuralità di Aristotele – tanto che, come si è visto, Halliwell ha pensato addirittura di scartarla, declassando la figura del corpo a illustrazione di un principio che potrebbe esistere senza il suo esempio figurale –, il testo di Tasso è così ricco di figure che la frase condivisa con la Poetica sembra un commento alla pagina stessa, e non il principio che ha ispirato gli esempi. Difficile credere allora che, anche per un seguace dichiarato di Aristotele come Tasso, il testo sia interamente riconducibile ai principi aristotelici. In altre parole: è sufficiente ridurre a un’interpretazione estensiva della Poetica la pagina di Tasso o limitarsi a segnalare la compatibilità teorica tra i due testi? Certamente no: come sappiamo da chi si è occupato della questione dal punto di vista della fondazione di una teoria dell’epica sufficientemente capiente da riuscire a includere le novità del romanzo, i Discorsi sono il prodotto di un “equilibrio difficile” e perciò “fragile” non solo tra “Omero-Virgilio e Boiardo-Ariosto”, ma anche tra “l’Aristotele auctus e gli scritti del Giraldi e del Pigna” (BALDASSARRI 1977: 36-37).7 La
7 Su questo punto cfr. anche Javitch 1999a.
qualità della varietà che Tasso punta a inserire nel suo poema è romanzesca; ma prima ancora di occuparsi del contenuto della varietà, è utile insistere sui modelli concettuali che permettono a Tasso di rivendicare la possibilità che la varietà trovi un posto non accessorio ma strutturale all’interno del poema: è per mettere in luce questi modelli che occorre indugiare sulle figure.
Qualche indizio sui modelli teorici che ispirano la celebre descrizione di come dev’essere il perfetto poema eroico viene dallo stesso Tasso, che nel più tardo rifacimento dei Discorsi del poema eroico, oltre ad alcune variazioni lessicali, aggiunge a questa pagina un rinvio a una precisa autorità:
E se ciò fosse vero – se fosse vero, cioè, che il poema resta uno pur nella varietà di materie che può contenere – l’arte del comporre il poema sarebbe simile a la ragion de l’universo, la qual e composta de’ contrari, come la ragion musica: perché s’ella non fosse moltiplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino. (TASSO 1964: 139-140)
Frequente negli scritti di Tasso al di là delle questioni di poetica, il nome di Plotino compare per la prima volta in un ragionamento sull’unità del poema analogo a quello dei rinnovati Discorsi in un brano delle Differenze poetiche, un testo scritto nel 1587 in risposta a Orazio Ariosti durante la polemica tra sostenitori dell’Orlando furioso e sostenitori della Gerusalemme liberata accesasi pochi anni prima con il Carrafa di Camillo Pellegrino.8 In quella pagina – probabile mediazione per il rifacimento dei Discorsi, pubblicati più tardi ma stesi proprio nel 1587 – Tasso ribadisce che
“Aristotele dà per ammaestramento che la favola debba essere una”, ma aggiunge pure che
“convien […] aver riguardo a molte cose insieme, e non considerar quel testo solamente d’Aristotele […], ma quello che dice Plotino ancora ne’ libri della Prudenza”, e quindi che
una è la ragione della favola tragica e della comica, la qual contiene in sé molte battaglie; perciò che riduce sotto una concordia e temperanza tutte quelle cose che sono discordi e combattono fra di
8 Per una rassegna dei saggi critici dedicati cfr. CONFALONIERI 2018(in particolare la nota 24 a p. 266), dove alla disputa si accenna nel corso di una discussione sulla funzione che Tasso attribuisce a Eliodoro per correggere ma insieme per non liquidare il modello di Ariosto.
loro; onde alcuno l’assomiglierà a l’armonia che risulta da le cose contrarie: ma, se la ragione della musica è simile a quella del mondo, convien che sia moltiplice; e, se moltiplice non fosse, non sarebbe ragion del tutto. (TASSO 1875b: 440)
Sulla base di questi riferimenti, la critica ha visto nel passaggio dalla Gerusalemme liberata alla Gerusalemme conquistata un mutamento dall’ambizione di coltivare una “abilità ipotattica” e un
“controllo aristotelico” sulla materia del poema a una reinterpretazione neoplatonica del ruolo del poeta che insiste sulla sua “capacità di colmare la paratassi del racconto con l’abbondanza di sovrasensi teologici” (FERRETTI 2010: 304).9 È una ricostruzione condivisibile per quanto riguarda i due poemi, a patto però di non accentuare troppo la distinzione tra aristotelismo giovanile e intervenuto neoplatonismo sul piano della teoria. Nei Discorsi dell’arte poetica scritti per
“ammaestramento di sé stesso” (TASSO 1875b:435) tra il 1561 e il 1562 non mancava infatti nessuno degli elementi che più tardi sarebbero stati certificati dall’autorità di Plotino:
dall’accostamento del poeta, “divino”, a Dio come “supremo Artefice”10 all’immagine del poema come “picciolo mondo”, fino alla “discorde concordia”, modello pitagorico di armonia
tra contrari che Tasso cita nell’ordine di Orazio (concordia discors, si legge in Epist. I.12, 19) ma che, con inversione tra sostantivo e aggettivo, si trova nel frontespizio del De harmonia musicorum instrumentorum di Franchino Gaffurio (1518), “Harmonia est discordia concors” (fig. 5), e di qui fornisce probabilmente l’occasione per il richiamo a Plotino, filosofo che col Platone del Timeo sosteneva la presenza delle “musiche proporzioni” in cielo e l’idea che il mondo tutto fosse
9 Su questo punto si veda anche RESIDORI 2004:19-38.
10 Il sintagma “divino artefice” risale a Marsilio Ficino interprete del Simposio di Platone: “la composizione dell’uomo nella materia del mondo, la quale è dal divino artefice remotissima, degenera da quella sua figura intera […]” (FICINO
1934:71).
Fig. 5
“composto con musica armonia”, come lo stesso Tasso avrebbe scritto nel 1588 a Niccolò degli Oddi (lett. V, n. 1549, p. 212).11
Che cosa significa che questi paradigmi filosofici, e soprattutto l’immagine del poema come
“picciolo mondo”, debbano agli occhi di Tasso risolversi in una “struttura aristotelica” (FERRETTI
2010: 304)?12 Essenzialmente che non basta accogliere nel poema il principio della varietà, ma che occorre prevedere un rapporto di interdipendenza tra le parti e tra ciascuna di queste e il tutto in cui sono inserite:13 l’obiettivo del poeta deve essere quello di “ridurre tutte le parti del poema sott’ordine quasi certo, e dare a ciascuna disposizione e dependenza necessaria” così che siano
“legate in modo che alcuna non se ne possa sciogliere senza guastar tutta la catena” (TASSO 1875b:
440-441).
Tuttavia il fatto che il principio a cui ricondurre la pagina di Tasso sia quello logico-funzionale aristotelico non deve portare a disfarsi delle figure, perché altrimenti si compirebbe un’astrazione capace di far perdere di vista il modo in cui Tasso non soltanto esemplifica ma più esattamente ripensa l’unità aristotelica. Si guardi intanto alla modifica apportata al passaggio in cui si stabilisce il principio che, in presenza di un corretto rapporto tra le parti e il tutto, qualunque cambiamento su
11 Le lettere di Tasso si citano dall’edizione in cinque volumi curata da Cesare Guasti con l’indicazione del numero del volume, numero della lettera e pagina (TASSO 1852-1855). Nei casi in cui si tratta di lettere comprese nella raccolta delle cosiddette Lettere poetiche, l’edizione di riferimento è invece quella curata da Carla Molinari (TASSO 1995), e le lettere si citano col numero romano seguito dal numero di pagina.
12 Cfr. già RAIMONDI 1965:21.
13 Tasso riflette sulla differenza tra la concezione platonica e quella aristotelica di bellezza nelle Considerazioni al Pigna, un commento poetico-filosofico su tre canzoni di Giovambattista Pigna steso probabilmente nel 1568 e pubblicato postumo nel Settecento: “i Platonici negano che la grazia e bellezza del corpo consista e resulti da la proporzione delle membra [ciò che appunto sosterrebbe un aristotelico] o da la vaghezza dei colori: anzi provano il contrario per molte ragioni, concludendo, che la beltà del corpo altro non sia che lo splendore dell’anima che traluce fuori per questa massa terrena delle membra” (TASSO 1875a: 96-97). Qualcosa di analogo si legge nel discorso “Della bellezza e della grazia” di Benedetto Varchi, scritto pochi anni prima: “Dovemo dunque sapere, che la bellezza si piglia in due modi, uno secondo Aristotile e gli altri, che vogliono ch'ella consista nella proporzione de’ membri, e questa si chiama ed è bellezza corporale, la quale sola conosce e per conseguente ama il volgo con gli uomini plebei: e come si conosce con tutti cinque i sensi, così ancora con tutti cinque i sensi si gode; e quelli che principalmente amano questa bellezza, sono poco, o niente differenti dagli animali bruti. L’altra bellezza consiste nelle virtù e costumi dell’anima, onde nasce la grazia di che ragioniamo, e questa è e si chiama bellezza spiritale, la quale è conosciuta e conseguentemente amata dagli uomini buoni e speculativi solamente” (VARCHI 1859:733-735,qui a p. 735).
una determinata parte ha conseguenza per l’intero. Nella Poetica la formulazione del principio avviene per via astratta, ma è chiaro che la figura di riferimento resta quella del corpo: è in tal senso indicativo che Alessandro Piccolomini, commentatore cinquecentesco del trattato, illustri il principio aristotelico con l’esempio di una statua “che habbia fatta uno scultore d’un’huomo intiero”, che appunto risulterebbe “ragionevolmente corrotta” se “se ne togliesse via un braccio, o la testa, o si ponesse una mano in luogo d’un piede” (PICCOLOMINI 1575: 154). Quando parla del poema, Tasso sceglie invece di usare una parola che riguarda l’edificio come il verbo ruinare,14 solo nei Discorsi del poema eroico sostituito dal meno connotato distruggere, mentre nella Prefazione al Rinaldo, anch’essa del 1562, Tasso si dimostrava consapevole della presenza nell’opera di
“qualche parte … la qual tolta via non però ruini il tutto” (TASSO 2012:47).15
Per quanto riguarda questo passaggio specifico, l’implicita sfumatura architettonica impressa da Tasso fa eccezione rispetto al dibattito cinquecentesco. Ancora nella polemica tra ariostisti e tassisti, Camillo Pellegrino e Lionardo Salviati – altrove disposti a rileggere il contrasto tra Furioso e Liberata in termini apertamente architettonici, come si vedrà più avanti – mostreranno di leggere
14 Che il verbo ruinare evochi un pensiero architettonico per Tasso lo si può certificare sulla base di altri suoi scritti.
Nella dedica delle Conclusioni amorose a Ginevra Malatesta (sostenute presso l’accademia di Ferrara nel 1568 e pubblicate da Aldo Manuzio nel 1581), Tasso si schermisce scrivendo che “se bene è ignobile l’artificio dell'architetto, nobile nondimeno, quanto esser possa più, è la materia di questa amorosa fabrica, ed a’ meriti suoi albergo in ogni parte convenevolissimo” (TASSO 1875c:63); nel Padre di famiglia, invece, steso a Sant’Anna nel 1580, dice che fine dell’architetto è “l’eccelenza della fabrica in soprana perfezione” (TASSO 1958:382); in una lettera a Maurizio Cataneo dell’autunno del 1585 sfrutta due volte la metafora della fabrica e del fondamento per parlare del rapporto tra verità e favola (e per sostenere che la prima sia fondamento della seconda, ma appunto soltanto fondamento, non “fabrica”
intera): “sì come tutta la fabrica non è fondamento, così peraventura tutta l’azione non dee esser vera, ma lasciarsi la sua parte al verisimile; il quale è proprio del poema” (lett. II, n. 434, p. 448), e poco oltre “quantunque la fabrica sia de le verisimilitudini che sono insieme congiunte, il fondamento nondimeno è de la verità” (p. 449); la stessa metafora della fabrica e del fondamento tornerà nel più tardo Giudicio sovra la Gerusalemme da lui medesimo riformata, questa volta per puntellare le idee di Agostino e Gregorio sulla intervenuta necessità dell’allegoria (“sovra i fondamenti dell'istoria conviene fabricar con l’allegoria una fabrica intellettuale, o della mente, che vogliam dirla”, cfr. TASSO
2000). Ma ancor più significativamente, in una lettera a Scipione Gonzaga del 5 luglio 1575, nel corso della revisione romana della Liberata, Tasso ragionava sulla possibilità di accontentare le richieste del suo interlocutore, che gli chiedeva di modificare gli equilibri tra Rinaldo e l’esercito cristiano, “senza ruinar la mia fabrica e senza discordar da i miei principi” (TASSO 1995, lett. XVII, p. 144).
15 Il Rinaldo uscì a Venezia presso Francesco de’ Franceschi nel 1562, quando Tasso aveva solo diciott’anni. L’opera si legge ora in edizione commentata da Matteo Navone, da cui si cita (TASSO 2012).
il brano della Poetica pensando alla figura del corpo. All’idea di Pellegrino secondo cui “quella favola insegna Aristotile esser una, cioè havere una sola attione, le cui parti sono così disposte, che trasportata una da un luogo ad un altro, overo distaccata dal corpo, si trasforma e si muta il tutto”
(TASSO 1735: 97),16 Salviati replica con una mossa retorica che sfida la logica asimmetrica della metafora organica:
Se Aristotile affermasse, come voi dite, una esser quella favola, cioè avere una azion sola, le cui parti son disposte sì fattamente, che trasportatane una da un luogo ad un altro, o distaccatala dal corpo si trasforma, e si muta il tutto, affermerebbe espressa menzogna. Perciocché, sì come il corpo d’un uomo, per l’aver gli stinchi, dove la polpa della gamba hanno gli altri, o sette dita in ciascuna mano, sarebbe pure un corpo solo, e non più; così per lo scambiare il luogo loro ad alcune delle sue parti, o per aggiugnerle qualche membro, non perderebbe l’Iliade o l’Ulissea o l’Eneade l’unità della favola, se per altro vi si ritrova. (Ibid.: 100)
Come nel caso di Campanella citato in precedenza, anche nel passo di Salviati la logica asimmetrica non svanisce del tutto, ma attraverso questa stessa logica – la differenza parte-corpo permane – viene rappresentato ciò che la figura del corpo intende reprimere: il disordine prodotto dall’intercambiabilità delle parti, la deformità di una parte rispetto all’altra. La “stringente logica”
(OSSOLA 2014: 81) della risposta di Salviati è in realtà l’esito di un voluto fraintendimento del paradigma attraverso cui Pellegrino aveva mostrato di leggere la formula aristotelica rendendo esplicita l’alterazione della struttura dell’azione con la deformazione prodotta sul corpo. Per Pellegrino si tratta di una corruzione dell’armonia, mentre Salviati, giocando sul fatto che un corpo rimane corpo anche se le parti che lo compongono cambiano (quantomeno fino a un certo grado:
di qui gli esempi circoscritti delle sette dita della mano o dei polpacci deformi), tralascia la bellezza e rivendica la capacità della struttura di assorbire un certo mutamento nei suoi elementi costitutivi.
16 Cito i testi della polemica dall’edizione settecentesca delle opere di Tasso in cui si ricostruisce lo scambio tra gli interventi di Pellegrino e di Salviati alternando i frammenti dell’uno e dell’altro, secondo un modello adottato per la prima volta dal cosiddetto ’Nfarinato secondo (1588), seconda replica di Salviati alla prima difesa di Pellegrino contro la risposta della Crusca. Cfr. TASSO 1735:49-284.
La replica di Salviati suona paradossale come tutte le battute che prendono alla lettera una metafora, ma proprio questa mossa retorica rivela l’ambiguità della figura del corpo e le molteplici possibilità di lettura del principio aristotelico secondo cui un’azione è una e intera se non è concesso di modificarne le parti. Non si tratta, infatti, soltanto di estetica, ma pure di statica: in termini vitruviani, non solo di venustas ma anche di firmitas. Proprio alla firmitas alludeva l’uso del verbo ruinare da parte di Tasso: che il tutto “ruini” se una parte viene tolta o collocata in un’altra posizione non significa esclusivamente che il poema perde la propria armonia, ma che non può più autosostenersi. È stato segnalato come tra le fonti del brano dei Discorsi dell’arte poetica sulla conciliazione dell’unità e della varietà ci sia una pagina dei Discorsi intorno al comporre de i Romanzi in cui Giraldi Cinzio illustra l’idea che lo scrittore debba curarsi che le parti del poema
“così insieme convengano, come convengono quelle del corpo” (GIRALDI CINTHIO 2002: 37).17 Il poeta, scrive Giraldi,
nel porre l’ossatura tutta insieme, cercherà di empire i cavi, e fare uguali le grossezze delle membra, e
nel porre l’ossatura tutta insieme, cercherà di empire i cavi, e fare uguali le grossezze delle membra, e