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Costellazione psichica del discorso ecfrastico: la pratica d'uso del linguaggio

I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

1.3. Costellazione psichica del discorso ecfrastico: la pratica d'uso del linguaggio

Sulla base di quanto detto, si può quindi affermare che non è l'impatto visivo che nasce dalle parole il fine primo della retorica ecfrastica, quanto l'impatto emotivo che coinvolge l'ascoltatore nell'evento discorsivo. La costruzione di immagini interiori, che chiameremo phantasmata, derivate da sensazioni esterne, era un processo fondamentale nell'antichità. Queste immagini interiori potevano essere per esempio prodotte da un discorso ecfrastico. Seguendo il suggerimento di Agamben che, sulla base del pensiero aristotelico, costruisce una «costellazione psichica» con al centro il fantasma, diremo che gli elementi coinvolti in questo processo sono: il linguaggio, 64 G. Genette, Figures II, op. cit., p. 61.

l'intelletto, il sogno e la divinazione, la memoria:

Strettamente connessa alla fantasia è la memoria, che Aristotele definisce come «il possesso di un fantasma come icona di ciò di cui è fantasma» (definizione che permette di spiegare fenomeni abnormi come il déjà vu e la paramnesia); e questo nesso è così vincolante che anche delle cose di cui si abbia conoscenza intellettuale non si può avere memoria senza fantasma.

La funzione del fantasma nel processo conoscitivo è così fondamentale che si può dire che esso sia anche, in un certo senso, la condizione necessaria all'intelligenza: Aristotele giunge perfino a dire che l'intelletto è una specie di fantasia e ripete più volte il principio che dominerà la teoria medioevale della conoscenza e che la scolastica fisserà nella formula: nihil potest homo intelligere sine phantasmata.65

Agamben parla non a caso di fantasia, un termine il cui significato, all'interno di una teoria ecfrastica, va subito definito. Nel trattato sul sublime dello Pseudo-Longino leggiamo come la fantasia fosse considerata una forma di visualizzazione interna:

Inoltre, mio giovane amico, a rendere lo stile fastoso, grande e agonistico, molto giovano quelle che noi chiamiamo fantasie e che altri invece chiamano idolopee: infatti si definisce comunemente fantasia tutto ciò che dà luogo a un'idea da cui nasca un discorso, ma ormai il nome s'è imposto per quei discorsi nei quali le cose che dici nell'entusiasmo della passione sembri proprio vederle e le metti sotto gli occhi degli ascoltatori.66

Dovremo considerare questo sfondo per riuscire a tenere legati tra loro passaggi della riflessione che possono sembrare anche molto lontani e che verranno sviluppati stabilendo ponti tra la cultura greca e quella romana e tra secoli anche distanti tra loro. Per capire come le teorie che ruotano attorno all'ékphrasis possano illuminare anche aspetti degli studi teatrali, vedremo come la visualizzazione, chiamata in causa come fondamento del discorso ecfrastico, sia una tecnica particolare utilizzata nell'oratoria e nella recitazione.67

Nell' VI libro dell'Institutio oratoria, Quintiliano scrive dei paragrafi estremamente interessanti a proposito dell'immaginazione e dell'enargeia.68 Dopo aver sostenuto la necessità che l'oratore si

commuovesse in prima persona per poter in qualche modo “muovere gli affetti” del suo pubblico, scrive:

65 Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, p. 88. Per quanto riguarda la “costellazione psichica” a cui si è qui fatto cenno, si veda in particolare la riflessione condotta nel capitolo dal titolo Eros allo specchio, pp. 85-104.

66 Pseudo Longino, Il Sublime, p. 43.

67 Sulla stretta somiglianza dei principi che regolano l'arte oratoria e quella attoriale nella tradizione estetica del mondo antico, si veda Claudio Vicentini, La teoria della recitazione. Dall'antichità al Settecento, op. cit., pp. 19-56.

68 Si seguiranno qui alcuni passi di Quintiliano, ma il motivo classico dell'enargheia viene teorizzato anche in altri trattati: per una visione più ampia della questione, andrebbero presi in considerazione almeno la Retorica ad Herennium, l'anonimo trattato Del Sublime, gli scritti di Cicerone e Orazio.

[29] Ma in che modo avverrà che ci commuoviamo? Non è in nostro potere commuoverci senz'altro. Proverò a trattare anche di questo punto. Quelle che i Greci chiamano phantasíai (e noi visioni), tramite le quali le immagini di cose assenti sono rappresentate all'animo, così che ci sembri vederle con gli occhi e averle davanti a noi, [30] chiunque le avrà ben concepite, sarà efficacissimo nella mozione degli affetti. Alcuni danno l'appellativo di euphantasíotos (che rappresenta con vividezza le cose) a chi simulerà nel modo migliore cose, voci, atteggiamenti secondo verità: ma se vogliamo ciò capiterà facilmente anche a noi. […] [31] Io lamento di un uomo che sia stato ucciso: non avrò davanti agli occhi la scena che verosimilmente ha avuto luogo nella realtà? […] [32] Segue l'enàrgheia, detta da Cicerone “rappresentazione al vivo” e “evidenza”, la quale sembra non tanto dire, quanto mostrare una cosa; per essa gli affetti seguiranno non meno che se assistessimo allo svolgersi stesso dei fatti. O non nascono da queste visioni fantastiche le note ipotiposi:

di man le cadde la spola e i pennacchi si sciolsero - nel tenero petto lo squarcio aperto -

e quella del cavallo che procede senza finimenti durante il funerale di Pallante? [33] E che? Non ha forse lo stesso poeta concepito l'immagine dell'estremo fato, così da dire:

o morendo la dolce Argo ricorda?69

Gli esempi di visiones riportati da Quintiliano sono tratti dall'Eneide come momenti del testo in cui Virgilio avrebbe mostrato scene di dolore o di morte come se vi avesse assistito in prima persona. Egli individua il momento culminante di un evento e lo presenta in un'immagine che contiene, in una sorta di punctum temporis visivo, l'allusione a un'intera narrazione. Prendiamo soltanto il primo esempio, tratto dal libro IX dell'Eneide, lì dove la madre di Eurialo viene avvertita dalla Fama della morte del figlio: la notizia coglie la donna mentre è intenta a filare e Virgilio ne riporta lo strazio fermando l'azione sull'immagine della sua mano che, abbandonata ogni forza, ogni vitalità, lascia cadere a terra la spola e il gomitolo (excussi manibus radii revolutaque pensa). L'immagine condensa uno stato d'animo complesso e l'enargeia arricchisce un effetto descrittivo con un effetto empatico fondato sull'immaginaria mimesi di ciò di cui si sta parlando. Sono cioè le immagini che l'oratore è in grado di evocare – prima di tutto in se stesso – a determinare una buona risposta emotiva, in termini di intensità, efficacia e coinvolgimento degli spettatori.

In un altro passo, in cui individua le caratteristiche di un ornato elegante e coinvolgente, Quintiliano torna a parlare dell'enargeia come elemento da apporre tra gli abbellimenti dell'orazione: essa «è evidenza o, come altri dicono, rappresentazione più che perspicuità – la prima si lascia scoprire, la seconda si mostra in un certo modo da sé».70 Al capitolo 17 della Poetica, Aristotele scriveva:

69 Quint., Institutio Oratoria, VI, 2, 29-33, a cura di Rino Faranda e Piero Pecchiura, Torino, UTET, 1979, pp. 734- 737.

Poi bisogna che il poeta, nel costruire i racconti e nel contribuire con la parola ad elaborarli, tenga assolutamente davanti agli occhi la scena: chi guarda in questo modo, quasi trovandosi in mezzo alla vicenda stessa, scorgerà in maniera nitida ciò che conviene, e non gli possono affatto sfuggire le contraddizioni. […] Inoltre il poeta deve anche impegnarsi, quanto più è possibile, ad elaborare la scena considerando gli atteggiamenti dei personaggi (τοῖς σχήμασιν). Difatti, chi vive una passione reale, riesce molto persuasivo perché è mosso dalla sua medesima natura: così il furioso si infuria, e l'adirato si sdegna, nella maniera più genuina. Perciò il comporre poesia richiede un autore di tempra sana o di animo folle, perché fra i personaggi ci sono i ragionevoli e i disfrenati.71

La parola schemata viene qui tradotta con “atteggiamenti”, trattandosi di vere e proprie figure da assumere per esprimere l'aspetto e il comportamento dei personaggi tragici. Sia per quanto riguarda la necessità di tenere davanti agli occhi la scena che per la necessità di elaborarla tenendo presente questi atteggiamenti, Aristotele sta suggerendo al poeta azioni mentali di drammaturgia preventiva: egli non sta parlando dello stile del discorso, ma delle modalità di produzione di un discorso e allude a funzioni ecfrastiche di montaggio visivo della scena a livello mentale.

Il legame tra il linguaggio del racconto e lo schema è quindi fortissimo e comprenderemo a breve che questo legame è strettamente connesso alla funzione dell'immagine interiore, del fantasma, nel linguaggio, di cui scrive Agamben:

Nel De anima (420 b), a proposito della fonazione, Aristotele afferma che non ogni suono emesso da un animale è voce, ma solo quello che sia accompagnato da qualche fantasma (μετὰ φαντασία ςτινος), perché la voce è un suono significativo. Il carattere semantico del linguaggio è così indissolubilmente associato alla presenza di un fantasma […].72

Ricorrendo a immagini, a figure, a visioni, si tratta insomma di produrre descrizioni come se ciò di cui si parla stesse accadendo sotto i nostri occhi, come se fossimo spettatori, in diretta, di una visione.73 In un passo successivo a quello riportato, Quintiliano, trattando ancora dell'enargeia come

uno dei mezzi che abbelliscono l'orazione (insieme a déinosis, phantasìa, exegasìa, epexergasìa), dichiara che la sua virtù specifica (virtus propria) consiste nel non essere otiosa,74 nel non

soffermarsi cioè su cose superflue. Proprio come la rappresentazione drammatica dovrebbe essere 71 Aristotele, Poetica, 55a.

72 G. Agamben, op. cit., p. 89.

73 Quintiliano fa il bellissimo esempio di un verso di Virgilio, «constitit in digitos extemplo arrectus uterque» («stettero l'uno e l'altro subito ritti sulle punte dei piedi», Aen., V, 426) per mostrare come con pochissime parole si crei immediatamente davanti ai nostri occhi l'immagine di due pugili che si azzuffano. È proprio Quintiliano a trattare il lettore come uno spettatore quando, commentando il verso, dice: «[verba] nobis illam pugilum congredientium faciem ita ostendunt, ut non clarior futura fuerit spectantibus». La traduzione di Faranda e Pecchiura, pur non mantenendo la metafora teatrale, mantiene comunque l'effetto della visione in praesentia: «i versi ci mostrano l'atteggiamento dei pugili che si azzuffano in modo così chiaro, quale non potrebbe renderci la visione diretta». In Quint., Instit. Orat., VIII, 3, 63.

una sintesi precisa, dove nulla è per caso, di un aspetto del reale (o dell'immaginario), anche l'ékphrasis presuppone una precisione che calibra i tempi della visione sull'attenzione del pubblico: l'aggettivo otiosa allude alla possibilità di soffermarsi su un oggetto, ma la connotazione dispregiativa suggerirebbe che altri artifici retorici devono intervenire per dare supporto all'ascoltatore, di cui l'oratore, come si trattasse di un regista teatrale, deve calibrare i tempi della visione.

Se ékphrasis e narrazione attingono agli stessi referenti, esistono comunque delle differenze che la Webb cerca di mostrare rifacendosi alle parole di Nicolao (Progymnasmata, 68, II):

An ékphrasis is distinguished from narration (diegesis) by the quality of enargeia, 'vividness'. The distinction between ékphrasis and diegesis is therefore not a question of the type of referent but resides in the effect on the listener. However, this definition raises a new question of distinction: when is a narrative 'vivid' enough to be an ékphrasis? Nikolaos illustrates what he understood by 'vividness' by a very basic example clearly inspired by Thucydides:

It is (characteristic) of diegesis to say the Athenians and Peloponnesians went to war, but ékphrasis [to say] that each side made such and such preparations and equipped itself in this manner (tropos).

[…] The definition of ékphrasis therefore depends on the amount of perceptible detail conveyed by the verbal account, the exact quantity remaining to be determined by subjective judgement, or by convention.75

Ritorna l'idea della descrizione dettagliata: l'ascoltatore deve avere l'illusione di vedere, il discorso ecfrastico deve mimare l'atto percettivo della visione che, mossa da pathos, seguendo i dettagli, si incunea nelle minuzie emotive del pensiero.76 Si tratta di un pensiero immaginativo che, come tale,

è difficilmente definibile. A questo proposito, Elaine Scarry scrive:

when we speak in everyday conversation about the imagination, we often attribute to it powers that are greater than ordinary sensation. But when we are asked to perform the concrete experiment of comparing an imagined object with a perceptual one […] we at once reach the opposite conclusion: the imagined object lacks the vitality and vivacity of the perceived one.77

Questo, secondo la studiosa, si verifica con l'eccezione dell'arte verbale che, pur essendo priva di tangibili caratteristiche sensoriali, nel prodotto letterario a cui dà forma, è in grado di dare all' “oggetto immaginato” la stessa vitalità e vivacità (vividezza forse) dell' “oggetto percepito”, agendo 75 R. Webb, op. cit., p. 71.

76 Lidia Palumbo sottolinea proprio la centralità della visione, a livello di scrittura del testo ecfrastico: «Sono i verba videndi che in un testo fanno vedere. Le cose, in un racconto, per essere viste, non devono soltanto essere mostrate, ma devono essere mostrate e viste, e di esse si deve dire che sono viste, perché è nel momento in cui lo si dice che il lettore le vede». Si veda Lidia Palumbo, Portare il lettore nel cuore del testo. L'ekphrasis nei dialoghi di Platone, in «Estetica. Studi e ricerche», rivista semestrale, 1/2013, p. 39.

proprio sui sensi:

Now it is a remarkable fact that this ordinary enfleeblement of images has a striking exception in the verbal arts, where images somehow do acquire the vivacity of perceptual objects. […] The verbal arts are of particular concern here because they – unlike painting, music, sculpture, theater, and film – are almost wholly devoid of actual sensory content.

78

Si arriva al punto fondamentale: l'arte letteraria produrrebbe, più di ogni altra, un mimetic content perché «imagining is an act of perceptual mimesis».79 L'èkphrasis si sostanzierebbe quantomeno di

due processi: lo scrittore trasformerà nel medium letterario il proprio mondo percepito (o visualizzato) e al lettore spetterà di ri-tradurre la parola nel medium visivo, immaginativo, che l'ha generata. Di questo hanno scritto in molti, tanto più nel rinnovato interesse contemporaneo per gli studi di cultura visuale, e potremmo forse riconoscere una sintesi chiara nelle parole dello storico dell'arte Hans Belting:

A dire il vero la medialità delle immagini si estende oltre la dimensione del visivo. Il linguaggio trasmette delle immagini verbali ogni volta che noi trasformiamo le parole in nostre proprie immagini mentali. Le parole stimolano la nostra immaginazione, mentre l'immaginazione a sua volta le trasforma nelle immagini che esse significano. In questo caso è il linguaggio che funziona da medium per la trasmissione delle immagini.80

Nell'analisi dei processi del linguaggio si potrebbe dunque trovare, secondo Belting, la risposta alla domanda posta dalla Scarry: come avviene che un'immagine mentale acquisti i requisiti di un atto percettivo? La questione, senz'altro complessa, andrebbe valutata in relazione alle influenze che il contesto culturale può avere nella produzione di un'immagine o nell'esperienza della percezione: banalmente, riferendosi a quanto detto in precedenza a proposito del diverso circuito mediale in cui può svilupparsi l'ékphrasis, è immediato pensare che se l'immagine mentale viene prodotta in un contesto collettivo l'effetto sarà di un tipo, se ciò si verifica invece nella fruizione individuale del discorso ecfrastico le cose cambiano. La componente soggettiva della produzione e della fruizione ecfrastica rendono senz'altro complesso il trattamento del problema che, forse, troverà un po' di chiarezza ritornando ancora al trattamento antico.

Come sottolinea Giovanni Lombardo – dopo aver mostrato che, nella narrazione, mentre all'imperfetto corrisponde un trattazione oggettiva degli eventi, all'aoristo ne corrisponde una soggettiva,81 e rifacendosi agli sviluppi postaristotelici della nozione di φαντασία –, «l'artista è

78 Ibidem. 79 Ibidem.

80 Hans Belting, Immagine, medium, corpo, in Teorie dell'immagine. Il dibattito contemporaneo, op. cit., pp. 73-98. Il saggio, scritto nel 2005, contiene le linee essenziali dell'antropologia dell'immagine teorizzata da Belting.

chiamato a rappresentare non già un modello esteriore e oggettivo bensì un modello interiore e soggettivo, non già – potremmo dire – un modello imperfettivo, bensì un modello aoristico. Il suo strumento non è più la μίμησις in quanto pedissequo rifacimento di una realtà percepita con l'occhio della vista, ma la φαντασία in quanto elaborazione di immagini offerte all'occhio della mente».82

Per evocare con parole immagini artistiche, i retori attingevano a un repertorio letterario e poetico molto vasto, spesso legato a quello stesso bacino di mitologie a cui si rifaceva a sua volta l'arte. Si trattava spesso di una scrittura impressionista che «oltre a celebrare il trionfo comunicativo della parola, che diventa efficace proprio nel farsi pittorica, crea le premesse per attivare anche nel pubblico le facoltà immaginative, che partendo dagli spunti forniti dal testo, e nutrite di una ricca, anche se soggettiva, cultura visuale, rappresentano e ricostruiscono mentalmente il quadro descritto».83

Se recuperando il senso originario dell'ékphrasis abbiamo compreso come essa non nasca necessariamente come discorso sull'arte – declinazione successiva e parziale, da attribuire alla Seconda Sofistica,84 rispetto alle possibilità prospettate dai progymnasmata –, diremo che non è il

soggetto dell'ékphrasis il fattore di definizione, ma che essa si caratterizza piuttosto come relazione forte (e retoricamente determinata) tra immagine e parola.85 Nonostante questo, il rapporto tra

ékphrasis e arti visive è reale e nella conclusione del suo saggio la stessa Webb scrive:

The relationship between word and image in ékphrasis is thus mimetic not in the sense of 'producing a copy of' but in the sense that ékphrasis 'acts like' a painting. The analogy goes far further in that the audience of an ékphrasis, like the viewer of a painting, can be required to supply information from his or her knowledge of the narrative background. The analogy with the visual arts also points towards the fictional nature of the products of ékphrasis and enargeia: like durata e la momentaneità di un certo fatto. L'aspetto durativo dell'imperfetto implica che l'azione sia vista come se si stesse svolgendo in un passato più esteso dell'enunciato che la descrive e che può ritagliarne solo la fase registrata da un testimone: qui la visione dei fatti dà luogo al racconto. L'aspetto momentaneo dell'aoristo implica invece che l'azione sia vista come se accadesse in una dimensione assoluta, in un tempo indeterminato […] che può essere anche un tempo passato, ma senza alcuna precisazione relativa alla durata e all'origine (recente o remota) dell'azione stessa: qui il racconto dei fatti dà luogo alla loro visione e l'azione tende ogni volta a riattualizzarsi nell'enunciato che la descrive e a coestendersi con esso. Così, se prevale l'imperfetto, il presente si immerge nel passato; se invece prevale l'aoristo, il passato riemerge al presente». Si veda: Giovanni Lombardo, Aspetto verbale e tecniche dell'enargeia. La dimensione “aoristica” della descrizione, art. cit., pp. 24-24. in «Estetica. Studi e ricerche», rivista semetrale, 1/2013, p. 30.

82 Ivi, p. 31.

83 Letizia Abbondanza, Introduzione a Filostrato Maggiore, Immagini, op. cit., p. 10.

84 Scrive Letizia Abbondanza: «In un'epoca intimamente legata alle forme retoriche, nella quale una nuova generazione di Sofisti dominava la vita pubblica e definiva la figura dell'intellettuale, l'ékphrasis di opere d'arte guadagna uno statuto autonomo di genere letterario, proprio come espressione sublimata del potere creativo e dell'artificio della parola. E, sebbene non nasca espressamente come “teoria dell'arte”, né come “critica dell'arte” essa rappresenta una sintesi praticamente unica di valutazioni e di prospettive sulla pittura, in grado di guidarci su aspetti altrimenti inaccessibili della ricezione». Si veda: Ivi, pp. 6-7.

85 Negli ultimi decenni sono fioriti gli studi di cultura visuale, in cui le retoriche del discorso vengono fatte dialogare con quelle dell'immagine. Una ricognizione, capace di mettere in luce lo stato degli studi all'altezza della fine degli anni '90 e capace di sollevare le questioni centrali che sarebbero state poi prese in esame, si trova in Icons, Texts, Iconotexts. Essay on ékphrasis and Intermediality, edited by Peter Wagner, Berlin, de Gruyter, 1996.

painting, they may have the power to create an illusion of presence, making the listeners feel as if they were in the presence of their subjects, but this feeling of presence is combined with an awareness of absence.86

Si dice che la retorica ecfrastica provochi nella mente dell'ascoltatore il medesimo effetto che produce un'opera d'arte ed è a questo effetto che alludono molte delle definizioni proposte dagli