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I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

2.7. Ineffabilità della morte

Il teatro antico affidava alla parola e all'atto diegetico in scena il racconto del sangue: la morte apparteneva al fuori-scena, mentre le immagini di morte venivano presentate, in maniera ecfrastica, da personaggi che raccontavano le orribili visioni. Un esempio tra i più struggenti, e uno tra i molti possibili, è la morte del piccolo Astianatte così come viene presentata nelle Troiane di Euripide: il bambino in scena viene mostrato vivo o morto, ma la sua uccisione, scaraventato dalle mura di Troia, avviene necessariamente fuori scena. La narrazione era considerata dunque l'unico possibile contenitore di una realtà che trascendeva l'uomo, che non era in suo potere mostrare.

Oggi, nonostante la società in cui viviamo rifiuti ogni stretto contatto con la morte, siamo forse più abituati alle immagini di morte. Ad esse accediamo attraverso il web, il cinema, la televisione, ma anche attraverso il teatro,345 forse sull'onda di un illusorio controllo sul reale a cui rimanda l'attuale

344Ivi, p. 16.

345Ci si limita a ricordare un esempio della scena italiana costituito dal teatro visionario della Societas Raffaello Sanzio. Nello specifico basterà pensare alla Tragedia Endogonidia per trovare un teatro in cui le immagini di morte vengono evocate di continuo. Sarebbe poi molto interessante seguire la traccia suggerita da Béatrice Picon-Vallin che sostiene che molte delle immagini che non possono salire sul palcoscenico trovano modo di essere contenute dagli schermi in scena: «scènes des dissection, pornographie, images de l'intérieur du corps biologique – muqueuses ou globe oculaire du Martyre de saint Sébastien, monté par la Fura dels Baus» (Se veda: B. Picon-Vallin (dir.), Les écrans sur la scène, op. cit., p. 23). E, potremmo aggiungere, scene di morte. Questo va detto senza dimenticare che per la studiosa gli schermi sono il luogo della frammentazione, della denarrativizzazione diremmo noi. Qualche pagina dopo Picon-Vallin scrive: «Le simple fait du déplacement de l'image televisuelle (hors de son flux contextuel) à la scène peut créer la distance nécessaire pour designer le leurre ou le scandale. Utilisés par le théâtre, directement ou à travers l'esthétique qu'ils engendrent, le clip, le bombardement de plans violents, le zapping, peuvent être détournés et dénoncés par leur seul transfert dans un dispositif théâtral, par le travail dramaturgique et le jeu physique des acteurs» (Ivi, p. 33).

uso e abuso delle immagini. Didi-Huberman sostiene che «l'immagine ha esteso a tal punto il suo dominio che diventa difficile oggi pensare senza dover 'orientarsi nell'immagine'»346 e anche a

proposito dell'immagine cruda, violenta lo studioso scrive:

Sembra che l'immagine […] non si sia mai imposta con tanta forza nel nostro universo estetico, tecnico, quotidiano, politico, storico. Essa non ha mai mostrato verità tanto crude; e allo stesso tempo non ha mai mentito tanto, sollecitando la nostra credulità; non ha mai proliferato tanto, e subito tante censure e distruzioni. Mai, dunque – e questa impressione è probabilmente dovuta al carattere stesso della situazione attuale, al suo carattere bruciante -, l'immagine ha subito tante lacerazioni, tante rivendicazioni contraddittorie e rifiuti incrociati, manipolazioni immorali ed esecrazioni moralisticheggianti.347

A queste forme di uso e abuso delle immagini, sono soggette anche le immagini di morte e violenza:

Oggi, le immagini di violenza e barbarie organizzata sono legioni. L'informazione televisiva manipola a meraviglia le due tecniche del niente e del troppo – censura o distruzione da un lato, soffocamento da moltiplicazione da un altro – per ottenere i migliori risultati d'accecamento. Che fare contro questa doppia oppressione che vorrebbe alienarci con l'alternativa del non vedere assolutamente nulla o vedere solo dei cliché? 348

In seguito a questa doppia oppressione le immagini finiscono per ammutolirsi e, da questo silenzio, dalle difficoltà di dare delle immagini letture meditate, dall'impossibilità di ricondurre i frammenti visivi a un contesto narrativo più ampio, nasce quella confusione tra finzione e realtà che Marco Dinoi così bene spigava in una riflessione dedicata alla vicenda delle Torri Gemelle in un libro sulla fruizione mediatica, che si apre con queste parole:

Tra il “sembra vero”, con cui gli avventori del Grand Café accoglievano nel 1895 le prime proiezioni cinematografiche dei fratelli Lumière, e il “sembra un film”, con cui lo spettatore televisivo dell'attentato contro le Twin Towers ha reagito a quelle immagini, c'è forse un salto cognitivo che manifesta un aspetto della nostra epoca con cui già da tempo ci troviamo a fare i conti.349

La confusione di due paradigmi, il “sembra vero” e il “sembra un film” racchiude perfettamente il senso di un diverso rapporto con il visivo che l'epoca contemporanea ha stabilito, in cui la finzione finisce per ergersi a modello interpretativo attraverso il quale leggere la realtà.350 Ne Lo sguardo e

346Georges Didi-Huberman, L'immagine brucia, art cit., p. 243. 347Ibidem.

348Ivi, p. 257.

349Marco Dinoi, Lo sguardo e l'evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 9.

350Si sta qui mostrando la contemporaneità di questo approccio al reale, ma è evidente che si potrebbe ricostruire la storia di questi paradigmi e dimostrare come si tratti in realtà di un modo umano di leggere il mondo: l'uomo legge la realtà sulla base di una realtà fittizia che si è precedentemente costruito. Questo lo si potrebbe verificare in molti studi storico-artistici ed è quantomeno suggestivo leggere il seguente passo di Diderot, sicuramente in linea con

l'evento, Dinoi racconta come i media sembrino «perdere il loro ruolo “mediatore”: la “finestra sul mondo” tende a diventare il mondo, celando per esempio la particolarità e la parzialità del punto di vista».351 Come già Dinoi nel suo saggio, non si potrà qui non fare cenno a come Roland Barthes

avesse colto e sintetizzato questa tendenza:

Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: “guarda come sono spenti; al giorno d'oggi le immagini sono più vive delle persone”. Uno dei segni distintivi del nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario generalizzato.352

A questa definizione di paradigmi, seguono una serie di corollari.353 Non solo le immagini vengono

sovrapposte a tal punto alla realtà da farci credere che siano la realtà stessa, ma la necessità di dominare il presente si esprime senz'altro, nell'uomo del duemila, anche nella morbosa sopportazione della violenza dell'immagine. Siamo ormai in grado di vedere qualsiasi immagine di orrore se essa ci viene presentata nell'attimo fulmineo di una visione, se essa appartiene a una catena visiva di frammenti di immagini violente. Un'altra cosa è sopportare la lunga esposizione di quell'immagine, fruendone cioè in una dilatazione temporale che consentirebbe di inserirla nel suo orizzonte narrativo. Sopportiamo e produciamo, cioè, immagini denarrativizzate.

Si legga una riflessione che, come il saggio di Dinoi, nasce a commento delle reazioni mediatiche difronte all'attacco alle Twin Towers,354 estrapolata da uno studio molto interessante dedicato al

queste riflessioni:

«Se ci accade di passeggiare alle Tuileries, al Bois de Boulogne o in un angolo appartato dei Champs-Élysées, sotto qualcuno di quei vecchi alberi […], sul finire di una bella giornata, nel momento in cui il sole affonda i suoi raggi obliqui nella massa frondosa di quegli alberi, i cui rami intrecciati fra loro li arrestano, li respingono, li frangono, li spezzano, li disperdono sui tronchi, sulla terra, tra le foglie […]: allora i passaggi dall'oscurità all'ombra, dall'ombra alla luce, dalla luce alla luce abbagliante, sono così dolci, così toccanti, così meravigliosi che la vista di un ramo o di una foglia attrae l'occhio e interrompe una conversazione anche nel momento più interessante. I nostri passi si arrestano involontariamente: “Che quadro! Oh, come è bello!”. Pare quasi che consideriamo la natura come il risultato dell'arte; e, viceversa, se accade che il pittore sappia ripetere lo stesso incanto sulla tela, apre che guardiamo all'effetto dell'arte come a quello della natura. Non al Salon, ma nel profondo di una foresta, tra le montagne che il sole riempie d'ombre e di luce, Loitherbourg e Vernet ci fan sentire la loro grandezza». Si veda: Denis Diderot, Saggi sulla pittura, a cura di Guido Neri, Abscondita, Milano, 2004, pp. 28-29.

351M. Dinoi, op. cit., Ivi, p. 22.

352Roland Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, p. 118.

353Il corollario forse più interessante, ma che porterebbe la riflessione ancora più lontano, ha a che fare con l'idea di una sorta di metalessi al contrario. La metalessi infatti si definisce come una figura del discorso in cui si verifica un intervento dell'autore il quale – che situiamo su un piano di realtà – produce degli effetti su quello che narra – dominio del piano della finzione: si tratta in definitiva di una sovrapposizione di livelli in cui, per semplificare, un livello diegetico si intromette in uno mimetico modificandolo. Nelle reazioni mediatiche che derivano da un particolare rapporto con il visivo, di cui qui si sta discutendo, sembra invece verificarsi una metalessi che mette al primo polo la finzione, lì dove essa finisce per produrre degli effetti sul piano della realtà.

354Il saggio di Marco Dinoi fornisce chiavi di lettura interessantissime per comprendere la ricezione del visivo a partire dall'attacco alle Torri Gemelle, trattando quell'evento come uno snodo epocale anche per il trattamento delle immagini non solo nel contesto dell'informazione (a cui viene dedicato maggiore spazio), ma anche in quello della produzione artistica (definendo soprattutto nuove estetiche cinematografiche che sviluppano forme di resistenza al nuovo orizzonte informativo). Citeremo almeno un altro libro sull'argomento, certo più noto, a cui senz'altro Dinoi deve molti dei suoi spunti: Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, trad. it. Di P. Vereni, Roma, Meltemi, 2002.

programma televisivo Blob:

Una critica all'edulcorante giustificazione di “informare” è andata in onda in una puntata speciale intitolata Don't panic il 24 aprile 2007. In questa puntata sono state mostrate le cose più “estreme”, quelle che hanno creato nel corso degli anni problemi alla trasmissione. Il titolo si rifà a un evento drammatico realmente accaduto il 22 gennaio 1977, allorquando un funzionario della Pennsylvania si sparò davanti a una telecamera nel corso di una conferenza stampa. Subito qualcuno “rassicurò” i presenti, urlando «Don't panic!». Il filmato fu riproposto dai tg integralmente, bloccandolo all'attimo prima dello sparo. Una scelta che Ghezzi giudica «Non meno oscena del far vedere per intero il video». Lo stesso interrogativo si ripropone oggi per le immagini delle esecuzioni dei prigionieri da parte dei fondamentalisti islamici o per la recentissima esecuzione di Saddam Hussein. È più osceno mostrare la morte fino a un attimo prima che si concretizzi o mostrarla per intero senza interrompere?355

Il teatro classico aveva trovato una risposta per questo interrogativo.356 Sarebbe molto interessante

provare a vedere come risponderebbe il teatro oggi, nella ferma convinzione che il teatro in generale rimanga un luogo dove il pensiero di ogni contemporaneità non solo trova espressione, ma trova modi di dilatarsi e mostrarsi con maggior chiarezza: quello che Brecht dice per il teatro epico e il suo effetto di straniamento, ossia che lo scopo è quello di «rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole»,357 vale sicuramente per ogni forma di teatralità.

Ci sono almeno due ragioni che legano questa riflessione all'ékphrasis.

La prima ragione trarrà spunto ancora dall'articolo da cui è tratta la precedente citazione:

Proprio per la sua consapevolezza della forma-frammento, Blob è l'unico testo della realtà mobile che accoglie le schegge impazzite del quotidiano, organizzandole nella forma di uno specchio ludico che riflette (in)fedelmente le odierne tendenze culturali. Quelle che insistono morbosamente sul dettaglio che nel blob, inteso come collage, non viene relegato a una mera evidenza oggettiva, ma messo al servizio della creatività di chi guarda. […]

È il collage che attesta il transito dal meramente fotografico all'audiovisivo. La scheggia impazzita, prima nascosta nell'insieme, viene così valorizzata, resa un frammento super-stite, nel senso etimologico, che “sta sopra” al magma mediatico. Blob, che è figlio del suo tempo, partecipa della moda del vivisezionamento della realtà, ma non per 355Pasquale Antonio Lorusso, Blob: l'apoteosi del frammento, in Biblioteca Teatrale 81-82, Roma, Bulzoni, 2007, p.

187.

356Si veda per esempio Orazio che nell'Ars poetica scrive: «Aut agitur res in scaenis aut acta refertur./ Segnius inritant animos demissa per aurem/ quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae/ ipse sibi tradit spectator: non tamen intus/ digna geri promes in scaenam multaque tolles/ ex oculis, quae mox narret facundia praesens:/ ne pueros coram populo Medea trucidet/ aut humana palam coquat extra nefarius Atreus/ aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem./ Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.» («Un'azione drammatica o si svolge sulla scena, o si racconta come avvenuta. I fatti appresi per udita scuotono più debolmente gli animi, che quelli messi sotto gli occhi attenti dello spettatore e da lui stesso osservati. Tuttavia non esporrai sul palcoscenico quello che è opportuno si svolga di dentro; e molte cose sottrarrai alla vista, le quali più tardi potrà riferire un dicitore che ne fu testimone. Medea non tagli a pezzi i propri figli in presenza del pubblico, né l'empio Atreo cucini viscere umane alla vista di tutti, né Progne si trasformi in uccello, o Cadmo in serpente. Qualunque cosa tu mostri a me in siffatto modo non ottiene la mia fede e mi ripugna». Hor, ars., 180-188, trad. di T. Colamarino). I momenti cruenti e le metamorfosi dovevano dunque occupare lo spazio fuori-scena perché, mentre potevano essere raccontati, dovevano essere preclusi alla vista.

estendere la superficie del visibile, bensì per scendervi in profondità cortocircuitando la referenzialità. Infatti, il “poter vedere tutto da vicino” della televisione sembra creare un senso di onnipotenza dello sguardo, mentre non fa altro che censurare tutto ciò che attorno al particolare orbita e che, guarda caso, risulta fatalmente essere quasi sempre più importante. 358

Da questa analisi conclusiva si potranno dedurre molte dinamiche dell'uso di certi dispositivi della visione a teatro, che se possibile amplificano questo paradossale cortocircuito della visione per il fatto di essere inseriti nello spazio performativo dell'hic et nunc. Le retoriche ecfrastiche passano quindi in dispositivi, come gli schermi, che finiscono per usare l'immagine asportandola dal contesto in cui nasce, per smascherarne la presunta oggettività e aderenza al reale.

L'immagine si mostra nella sua parzialità, nelle sua incapacità di aderire totalmente al dolore più intimo: l'ékphrasis diventa espressione esplicita dell'ineffabilità della morte e anche in questo senso ne parleremo affrontando il secondo caso studio proposto, la teatralità di Anagoor.

La seconda ragione riprende quanto dice Dinoi e l'idea che sia la finzione ad ergersi a paradigma conoscitivo della realtà. Cometa riprende da John Hollander la distinzione tra ékphrasis mimetica e ékphrasis nozionale:359 la prima farebbe sempre riferimento a opere d'arte esistenti, la seconda

sarebbe invece da riferire a opere inventate. Cometa rileva un paradosso che, sottile, percorre le sue pagine. L'ékphrasis mimetica trasforma sempre, in qualche modo, l'originale a cui si riferisce: si tratta, lo abbiamo visto, di un modo di ricomposizione dell'immagine, di una forma del discorso o del montaggio teatrale che, dopo aver ferito la superficie dell'immagine, dopo esservi penetrati, aderisce ai movimenti dello sguardo che percorre l'opera piuttosto che all'opera in sé. Nonostante si presenti quindi come l'operazione per eccellenza mimetica, questo tipo di ékphrasis rimane sempre un atto di trasformazione, contiene in sé un principio di falsificazione o l'affermazione di un'altra verità. Al contrario, l'ékphrasis nozionale è tutto ciò che può essere detto su un'opera, su un'immagine, per il fatto stesso che tale immagine si produce solo nello spazio immaginativo di quell'ékphrasis. I paradigmi conoscitivi espressi nelle formule immediate del sembra vero e del sembra un film (e quindi falso) rivelano due approcci d'innanzi all'immagine e sono declinazioni della stessa questione ecfrastica. Trattando dell'ékphrasis performata, lo vedremo soprattutto studiando il teatro di Anagoor, ci troveremo continuamente ad oscillare tra queste due posizioni e saremo invitati a chiederci dove ci posizioniamo: quale rapporto stabiliamo con le immagini?

358P. A. Lorusso, art. cit., pp. 187-188.

II. LA POETICA VISIVA DI SAMUEL BECKETT LETTA CHIAVE