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I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

2.3. Le didascalie come scritture ecfrastiche

Gli scritti di Diderot aprono anche a un'altra questione ecfrastica. La scrittura della pantomima è la scrittura del «tableau qui existait dans l'imagination du poète»,254 sostiene il filosofo: si tratta

insomma del problema di scrivere o meno le didascalie e, se sì, in che forma.

Facciamo un passo indietro per riflettere finalmente su un termine più volte adoperato, la fantasia. Diderot era autore prediletto da Lessing, con il quale condivideva molte posizioni estetiche, e quando Lessing riflette su come vi siano casi in cui il poeta supera il pittore e casi in cui, viceversa, il pittore supera il poeta,255 spende alcune parole sul “quadro poetico”, su quei passaggi poetici cioè

in cui un poeta rappresenta delle vicende in modo pittorico, ma non per questo necessariamente dipingibile:

Un quadro poetico non è necessariamente una cosa che si può trasformare in un dipinto materiale; piuttosto ogni tratto, ogni combinazione di tratti diversi, tramite i quali il poeta ci rende così sensibile un oggetto che ne prendiamo coscienza più distintamente che tramite le sue parole, si chiama “pittorico”, si chiama “quadro” perché ci avvicina a quel grado di illusione di cui è particolarmente capace il quadro materiale, e che dal quadro materiale si è potuto astrarre per primo e più semplicemente.256

Quello che qui interessa è la nota che lo stesso Lessing appone al passo:

Ciò che noi chiamiamo “quadri poetici”, gli antichi chiamavano “fantasie”, come ci si ricorderà dal Longino. E ciò che noi chiamiamo l'illusione, l'inganno di questi quadri, si chiamava presso di loro “enargeia”. Per questo un tale, come ricorda Plutarco (Erot., T. II, Edit. Henr. Steph., p. 1351), aveva detto: le fantasie poetiche sono, per via della loro enargeia, i sogni ad occhi aperti. […] Io vorrei che i moderni manuali di poetica si fossero serviti di questa denominazione e si fossero astenuti completamente dalla parola “quadro”. Ci avrebbero risparmiato una quantità di regole semivere, il cui principale fondamento è la coincidenza di un termine arbitrario. Nessuno avrebbe così facilmente costretto le fantasie poetiche nei limiti di un quadro materiale; ma non appena le fantasie furono chiamate quadri poetici, si pose la base per l'errore.257

254Diderot, Discours de la poésie dramatique, in Œuvres complètes, t. III, op. cit., p. 498. 255Si veda Laocoonte, capp. XIII-XIV.

256Lessing, Laocoonte, op. cit., p. 69. 257Ivi, nota 168, p. 154.

Quando poi le fantasie sono di drammaturghi, i “quadri poetici” che ne escono sono le didascalie dei drammi che possono immaginare una scena non sempre realizzabile sui palcoscenici.

Le didascalie (o altri modi di codificare sulla pagina ciò che compone l'“immagine” dell'atto spettacolare) sono uno spazio testuale in cui gli autori stabiliscono un certo tipo di rapporto con la scena e il modello interpretativo di riferimento dovrà tenere conto del posizionamento dello sguardo – della distanza – di chi scrive rispetto allo spazio scenico; del rilievo dato al piano della fabula (narrazione e commento) o, viceversa, della messinscena (prescrizione); della riproduzione, nello spazio testuale, dello sviluppo temporale del dramma, definendo così una sorta di temporalità dello sguardo.

Come ci ricorda Genette, quando Platone e Aristotele definiscono i termini di un'imitazione propriamente detta (mimesis) e di un semplice racconto (diegesis), non sembrano preoccuparsi del fatto che «l'imitation directe, telle qu'elle fonctionne à la scène, consiste en gestes et en paroles».258

Grazie all'uso dei gesti, sulla scena vengono rappresentate delle azioni che, in quel caso, sembrano sfuggire al piano linguistico proprio del poeta. Anche quando riproduce le parole dei personaggi però, Genette fatica a considerare l'imitazione diretta “rappresentativa” nel vero senso del termine, perché essa «se borne à reproduire tel quel un discours réel ou fictif».259 Potremmo cioè dire che un

testo ripete o costituisce gli atti verbali realmente pronunciati da un personaggio, ma non li rappresenta. In sintesi dice Genette:

Si l'on appelle imitation poétique le fait de représenter par des moyens verbaux une réalité non-verbale, et, exceptionnellement, verbale (comme on appelle imitation picturale le fait de représenter par des moyens picturaux une réalité non-picturale, et, exceptionnellement, picturale), il faut admettre que l'imitation se trouve dans les cinq vers narratifs, et ne se trouve nullement dans le cinq vers dramatiques, qui consistent simplement en l'interpolation, au milieu d'un texte représentant des événements, d'un autre texte directement emprunté à ces événements: comme si un peintre hollandais du XVII siècle, dans une anticipation de certains procédés modernes, avait placé au milieu d'une nature morte, non la peinture d'une coquille d'huître, mais une coquille d'huître véritable.260

Riconoscendo il carattere imitativo dei passaggi narrativi, come trasposizione poetica di una realtà non verbale, Genette, più che accogliere quel genere misto che Platone riconosce e teorizza, sembra voler ridurre a tutti gli effetti lo spazio tra diegesi e mimesi:

258G. Genette, Figures II, op. cit., p. 53. 259Ibidem.

260Ivi, pp. 53-54. I cinque versi narrativi a cui si sta riferendo sono i vv. 12-16 del canto I dell'Iliade in cui Omero racconta la richiesta di Crise agli Achei di liberare la figlia in cambio di un riscatto; mentre i versi drammatici sono quelli in cui viene riportata, in diretta, la voce di Crise. Genette, come è noto, riprende l'esempio dal III libro della Repubblica.

Platon opposait mimésis à diégésis comme une imitation parfaite à une imitation imparfaite; mais (comme Platon lui- même l'a montré dans le Cratyle) l'imitation parfaite n'est plus une imitation, c'est la chose même, et finalment la seule imitation, c'est l'imparfaite. Mimésis, c'est diégésis.261

Un discorso sulle didascalie dovrà tenere conto di questo orizzonte teorico perché, implicando una trattazione del teatro che si muove dai testi, costringerà ad assumere che «en admettant (ce qui est d'ailleurs difficile) qu'imaginer des actes et imaginer des paroles procède de la même opération mentale, “dire” ces actes et dire ces paroles constituent deux opérations verbales fort différentes».262

Le didascalie che descrivono le azioni dei personaggi rispondono quindi all'immaginazione di atti e, per quanto abbiamo detto finora, non stupirà che siano così fortemente connotate in senso narrativo. Ecco quindi come ci spiegheremo le sfumature verbali inaspettate utilizzate per esprimere una stessa azione.

Questo quindi per le “didascalie d'azione” ma il teorico scontro/incontro di mimesi e diegesi entra in campo anche nei termini del rapporto narrativo-descrittivo a cui abbiamo accennato più sopra: il testo descrittivo ingloba l'immagine, proprio come la didascalia ingloba la scena, vedendola o pre- vedendola. Ma il linguaggio ecfrastico, lo sappiamo, implica sempre una direzione anche narrativa: come viene reso nella definizione didascalica uno spazio complesso come quello scenico? E quindi: come viene temporalizzata, nella scrittura didascalica, una scena che viene colta dallo sguardo dello spettatore in un istante puntuale?

Andrà dunque cercata la prospettiva (nel senso narratologico del termine) da cui è scritta una didascalia; ma c'è un'ulteriore distinzione da fare: da una parte ci sono le didascalie che descrivono uno spazio, dall'altra quelle che descrivono il susseguirsi di azioni in quello spazio. Nelle prime il concetto di distanza narrativa è di facile comprensione: lo sguardo che descrive gli oggetti si avvicina o si allontana e utilizza quelle che Segre, nel descrivere le composizioni pittoriche, definisce come «prospettiva geometrica» (la prospettiva “realistica”) e «prospettiva semantica» (la prospettiva che definisce misure e profondità sulla base dell'importanza degli oggetti dipinti).263

Nella scrittura drammaturgica le didascalie scardinano la visione, secondo processi di composizione e di scomposizione della scena: lo sguardo degli autori, letterariamente attratto da alcuni oggetti, può posarsi su di essi e concedersi una pausa descrittiva o, semplicemente, il potenziamento dei sensi stabilisce primi piani sensoriali che influenzeranno necessariamente la visione mentale della scena che il lettore si costruisce.

In generale diremo che i termini che descrivono le possibilità didascaliche, corrispondono

261Ivi, p. 56. 262Ivi, p. 54.

esattamente ai termini che possono essere utilizzati per la descrizione di un'opera d'arte. Prendiamo come riferimento lo studio sul dettaglio di Daniel Arasse, per trovare nuove strade per l'interpretazione del rapporto che c'è tra la costruzione dello spazio teatrale e la disposizione dell'immagine sulla tela pittorica. Dal momento che non sono ancora state elaborate delle teorie sull'uso dei dettagli nelle scritture per la scena, sarà appunto interessante tentare di ricavare delle categorie interpretative anche da studi storico artistici come quello a cui ora ci affidiamo. Se poi, come sarà nel caso di Beckett, la conoscenza delle opere d'arte è alla base di un'ipotetica ispirazione per la costruzione di certe scene teatrali o di certe prose brevi, meriterà senz'altro riflettere sulla questione. Arasse fornisce questa sorta di definizione:

La situation et le statut du détail dans le tableau de peinture en font, de ce point de vue, un double «emblème» du tableau: emblème du processus de représentation adopté par le peintre et emblème du processus de perception engagé par le spectateur […]. Le détail tend, irrésistiblement, à faire écart. Marque intime d'une action dans le tableau, faisant de lui-même signe à celui qui regarde et l'appelant à s'approcher, il disloque à son profit le dispositif de la représentation.264

I dettagli, che sono poi gli stessi elementi concreti su cui si può soffermare la didascalia teatrale, hanno a che fare tanto con la storia della creazione dell'opera – e quindi, nel caso teatrale, con l'immaginazione preventiva dell'autore che scrive l'ambientazione di una scena e che svolge l'immagine soffermandosi sui dettagli -, quanto con la storia della ricezione dell'opera. Tra le righe andrà poi letta una riflessione sulla distanza: il dettaglio, per essere gustato, chiede allo sguardo del fruitore di avvicinarsi, trasgredendo in questo modo l'idea classica della visione complessiva. Arasse ricorda, per esempio, che «Schelling condamne, dans sa Philosophie de l'art, les travaux de certains Hollandais que l'on “croirait faits pour l'odorat car, pour reconnaître ce par quoi ils veulent plaire, il faut les approcher du visage comme des fleurs”».265 E poiché la seconda parte di questo

scritto è dedicata a Beckett, non sarà di poco conto – e in seguito si capirà perché – notare che i suoi artisti preferiti erano proprio gli Olandesi del Seicento.

Esiste insomma una tradizione didascalica di impianto narrativo che, specialmente nella descrizione degli ambienti, raggiunge un livello di dettaglio tale per cui si trovano visioni prospettate da autori che non sembrano porsi minimamente il problema della traducibilità scenica.266 Nell'ambito della

scrittura didascalica, l'uso dei dettagli ha a che fare con il posizionamento dei sensi (vista-udito) dell'autore nel momento in cui scrive la didascalia, che finirà per corrispondere con il 264Daniel Arasse, Le détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris, Flammarion, 1996, pp. 13-14.

265Ivi, p. 233.

266Sarà sufficiente sfogliare le drammaturgie di D'annunzio, di Pirandello, di Cavacchioli e della maggioranza degli autori teatrali novecenteschi per trovare esempi convincenti. Nel mio studio sulla didascalia teatrale ho trattato, come esempio, il caso di Ramón del Valle-Inclán (p. 60-79).

posizionamento del lettore, ma non sempre con quello dello spettatore.

Quando per esempio, in Casa di bambola, Ibsen scrive una didascalia in cui dichiara che si deve sentire il rumore della lettera, assai temuta da Nora, che cade nella cassetta delle lettere, Laura Caretti commenta:

Nella didascalia l'occhio come l'orecchio, e i sensi tutti, non sono mai solo quelli dello spettatore o del regista, ma anche quelli dei personaggi in scena. Al campo lungo dello scenografo si alternano i primi piani, i punti di vista della platea si raccorciano di colpo nello sguardo del personaggio, ed ecco che vediamo i dettagli delle mani, un'espressione del viso, guardiamo con lui da una finestra, sbirciamo attraverso una porta socchiusa, sentiamo il rumore di una lettera che cade.267

Focalizzare sul dettaglio significa potenziare i sensi della visione e, in questo caso, dell'udito; significa avvicinare la scena attraverso la scrittura. Lo spettatore non è detto possa subire lo stesso effetto di avvicinamento ed è spesso in questo senso che lavorano le regie che sfruttano le possibilità tecnologiche in scena.268 Nell'esempio di Ibsen appena riportato, potrebbe cioè accadere

che un regista decida di registrare e poi amplificare per gli spettatori il rumore di una lettera che cade.

Come non è naturalmente possibile sentire il rumore della lettera che cade, così non è naturalmente possibile vedere «i peli di un neo» che «spiccano sulla guancia di una prostituta».269 Alcuni dettagli

cioè si possono cogliere soltanto nella lettura o con l'ausilio di filtri, per lo più tecnologici, che interverranno nella messa in scena. Nella pittura accade lo stesso: Arasse fa notare come certi dettagli (cita per esempio l'ombelico nel San Sebastiano di Antonello da Messina) si possano notare solo se l'opera viene fruita in un contesto diverso da quello in cui è inserita in origine. Di essi ci si può accorgere solo in “condizioni artificiali”, in un museo o in un laboratorio nel corso di un restauro. Questo aspetto, che potrebbe ridurre l'interesse del dettaglio, osserva Arasse, ne confermerebbe invece l'importanza: le diverse fruizioni infatti sarebbero molto più simili alle condizioni in cui un pittore ha eseguito i dettagli del suo quadro, normalmente occultati dalle

267Laura Caretti, La tarantella di Nora, in La didascalia nella letteratura teatrale scandinava: testo drammatico e sintesi scenica, Atti del VII Convegno Italiano di Studi Scandinavi, Firenze 21-23 maggio 1986, a cura di Merete Kjøller Ritzu, Roma, Bulzoni, 1987, p. 39.

268Portando degli esempi in questo senso, Picon-Vallin scrive: «Les techniques du son qui vont toujours de pair avec l'utilisation des techniques de l'image permettent de créer sur scène des images sonores: ainsi celle de la plume qui grince sur le papier pour parapher une lettre et dont le crissement emplit tout l'espace théâtral grâce au micro HF posé sur la table, dans une scène de Désir sous les ormes mis en scène par Matthias Langhoff. Le micros HF dont dispose un acteur comme Carmelo Bene dans Macbeth Horror Suite font entendre au public ses bruits intérieurs, du chuchotis au borborygme, l'intimité de sa “psycologie humorale”, selo l'expression de J. -P. Manganaro». In Picon- Vallin (dir.), Les écrans sur la scène, op. cit., p. 20.

269La didascalia è tratta da L'abito del defunto in Ramón del Valle-Inclán, Eroi del martedì grasso, introduzione, traduzione e note di Luisa de Aliprandini, Roma, Bulzoni, 2000, p. 38.

condizioni pubbliche in cui viene poi collocato.270 Per continuare il parallelismo, quindi, potremmo

pensare a un uso ecfrastico delle nuove tecnologie (sonore o visive) sulla scena che risponde a una forma di aderenza al processo di scrittura e alla fantasia.

Quando leggiamo certe didascalie teatrali, insomma, dovremmo tarare la distanza della visione sull'immaginazione dell'autore: le ékphrasis didascaliche si confermerebbero quindi come dispositivi che modificano la fruizione d'insieme della scena e potremmo trasportare alle pratiche teatrali l'idea che il dettaglio è «un “moment” de sa réception [du tableau] comme il peut l'avoir été de sa création. Il est d'abord un “événement” de peinture dans le tableau».271

I dettagli, che hanno a che fare tanto con la storia della creazione quanto con quella della ricezione dell'opera, derivano da una selezione che compie il percorso dello sguardo nel prospettare (nel caso della creazione) o nel fruire (nel caso della ricezione) di una visione.

Se a queste considerazioni applicheremo la categorizzazione degli studi narratologici, potremo ricondurre il discorso sul dettaglio a un discorso sulla prospettiva narrativa. Quando Genette parla del modo del racconto osserva che «le récit peut fournir au lecteur plus ou moins de détails […] et sembler ainsi […] se tenir à plus ou moins grande distance de ce qu'il raconte».272

In linea di massima il discorso fila, ma si sarà osservato che Genette parla di particolari e non di dettagli. La cosa potrebbe non essere poi così determinante, ma è proprio Arasse a stabilire la differenza tra questi due concetti ed è una differenza che si vorrebbe far fruttare per individuare una peculiarità delle pratiche teatrali contemporanee. Mentre il particolare è una piccola porzione di un'immagine che non deve distrarre dall'equilibrio d'insieme, il dettaglio è «un moment qui fait événement dans le tableau, qui tend irrésistiblement à arrêter le regard, à troubler l'économie de son parcours».273

In altre parole si potrebbe dire che, mentre il particolare è parte di una narrazione a cui contribuisce, il dettaglio sembra staccarsi dalla narrazione in cui è prodotto, sembra rendersi autonomo, isolarsi, sottrarsi ai processi narrativi dominanti per aprirne di nuovi. In questo senso la tradizione didascalica novecentesca, in linea con l'evoluzione teatrale, procede dalla profusione di particolari, in senso narrativo, alla beckettiana concentrazione sul dettaglio: le stesse scene, costruite per sottrazione, finiranno cioè per essere scene di dettagli.

270D. Arasse, op. cit., pp. 337-346. 271Ivi, p. 240.

272G. Genette, Figures III, op. cit., p. 183. 273D. Arasse, op. cit., p. 12.