I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA
2.6. La denarrativizzazione della scena contemporanea per via visiva
Raccogliamo in questo paragrafo, avviandoci alla conclusione di questa prima parte, alcune suggestioni che deriviamo dagli studi fin qui condotti. Sono idee che si presentano in ordine sparso, pensieri in corso di elaborazione che muovono però da una questione ben precisa: in che modo oggi il teatro racconta le sue storie?
Abbiamo visto, soffermandoci sui rapporti tra ékphrasis e circuito mediale, come insieme ai contenuti culturali cambino anche i supporti adibiti alla trasmissione del sapere. Gabriele Frasca, che è stato più volte citato, scrive:
La “letteratura” può occorrere a tracciare la storia da un lato del processo di “denarrativizzazione” della cultura occidentale (se la “narrativa” diviene un intrattenimento, i processi culturali dominanti non potranno che svolgersi secondo tecniche alternative di immagazzinamento dati) e dall'altro di quella lenta riemersione della voce che l'ha infine dissolta fra stanche ritualità e nuove incerte configurazioni.332
Diremo che i poli investiti da «nuove e incerte configurazioni» sono almeno due: la voce da una parte e l'immagine dall'altra. La seconda parte della tesi, uno studio dedicato a Samuel Beckett, consentirà di comprendere una delle possibili relazioni stabilite tra i due termini nel teatro del XX 331Pincon-Vallin, art. cit, p. 27.
secolo perché essi, come si è cercato di mostrare, non sono mai slegati, ma partecipano a un comune destino: le nuove estetiche (ma forse le estetiche di ogni tempo) rimettono cioè in campo l'ennesima nuova declinazione del rapporto tra parola e immagini.
Gli studi su queste questioni sono numerosi e da una raccolta di saggi interdisciplinari, dal suggestivo titolo Passages, Drammaturgie di confine,333 leggiamo le parole dell'introduzione di
Antonella Ottai, che sostiene che l'avvento di una nuova tecnologia e dunque un mutamento mediale, produce «un senso “altro” dell'immagine, delle categorie temporali, delle strategie narrative, della configurazione dello spazio e del suo orientamento, delle istanze enunciative, della datità del corpo come sonorità audiovisiva […], della dinamica che presiede alla loro interazione».334 In questi termini, senza che sia cioè supportato da esempi, il discorso rischia di
rimanere molto sterile e l'esempio più chiaro verrà proprio dalle opere beckettiane. In ogni caso non è difficile immaginare come l'uso di nuove tecnologie definisca un nuovo rapporto tra mondo narrato e immagine. Più sopra si è parlato della pratica di giustapposizione di singoli elementi visivi, una pratica espositiva che sostituisce l'esplicitazione dei nessi logici su cui si fonda una narrazione tradizionale. Si potrebbe ora ipotizzare che un ipotetico indebolimento della narrazione, che definiamo in termini di “denarrativizzazione”, «costituisca anche la condizione necessaria per un diverso rapporto fra dimensione fattuale e dimensione finzionale».335
Nel primo degli Entretiens sur le Fils Naturel, Diderot mostra come, per fare una buona commedia, sia importate seguire, il più possibile, le tre unità aristoteliche:
Dans la société, les affaires ne durent que par de petits incidents qui donneraient de la vérité à un roman, mais qui ôteraient tout l’intérêt à un ouvrage dramatique. Notre attention s’y partage sur une infinité d’objets différents; mais au théâtre où l’on ne représente que des instants particuliers de la vie réelle, il faut que nous soyons tout entiers à la même chose.
J'aime mieux qu'une pièce soit simple que chargée d'incidents. Cependant je regarde plus à leur liaison qu'à leur multiplicité. Je suis moins disposé à croire deux événements que le hasard a rendus successifs ou simultanés, qu'un grand nombre qui, rapprochés de l'expérience journalière, la règle invariable des vraisemblances dramatiques, me paraîtraient s'attirer les uns les autres par des liaisons nécessaires.
L'art d'intriguer consiste à lier les événements, de manière que le spectateur sensé y aperçoive toujours une raison qui le satisfasse. La raison doit être d'autant plus forte, que les événements sont plus singuliers. Mais il n'en faut pas juger par rapport à soi. Celui qui agit et celui qui regarde, sont deux êtres très différents.336
333Passages. Drammaturgie di confine, a cura di Antonella Ottai, Roma, Bulzoni, 2008. La raccolta di saggi è interessante perché, attraverso analisi concrete, di ambito soprattutto fotografico e cinematografico, pone delle questioni centrali sul cambiamento delle strategie narrative in seguito a un rapporto in continuo mutamento con il mondo virtuale, soprattutto nella produzione di immagini.
334Ivi, p. IX. 335Ivi, p. XI.
Diderot, per via di negazione, fa intendere quella che qui chiameremo la denarrativizzazione insita nel quotidiano: la molteplicità di episodi, la dispersione su oggetti diversi non farebbero che produrre un'esplosione drammatica che non è più in grado di essere contenuta in una narrazione semplice. Qualche pagina dopo Diderot ipotizza la possibilità di contenere questa molteplicità nella forma drammaturgica delle scene simultanee, una modalità di cui abbiamo conoscenza per via cine- televisiva.337 Nel Discours sur la poésie dramatique, a questo proposito, Diderot scrive:
Dans une scène simple, le dialogue se succède sans interruption. Les scènes composées sont ou parlées, ou pantomimes et parlées, ou toutes pantomimes. Lorsqu'elles sont pantomimes et parlées, le discours se place dans les intervalles de la pantomime, et tout se passe sans confusion. […] J'ai tâché de séparer tellement les deux scènes simultanées de Cécile et du père de famille, qui commencent le second acte, qu'on pourrait les imprimer à deux colonnes, où l'on verrait la pantomime de l'une correspondre au discours de l'autre, et le discours de celle-ci correspondre alternativement à la pantomime de celle-là.338
Il tempo della parola si affianca alla spazialità vissuta dal corpo. Troviamo, nella forma delle scene simultanee proposte da Diderot, un principio ecfrastico: la parola e l'immagine convivono e si sviluppano contemporaneamente. Ma le retoriche ecfrastiche, lo abbiamo detto, possono intervenire anche a livello discorsivo, lì dove la parola si comporta in scena così come fanno le immagini: le visioni si susseguono, si moltiplicano in pieghe ipertestuali nelle quali lo spettatore si addentra, forniscono tracce drammaturgiche frammentarie.
Il racconto ecfrastico, sovrapposto all'odierna produzione di immagini, non può che essere sovraffollamento di stimoli visivi, senza vere e proprie trame, ma con accenni a trame molteplici in cui l'io finisce per perdersi. Perché l'ékphrasis è uno spazio ibrido dove si incontrano il presunto raziocinio della parola e il fascino perturbante dell'immagine; è una figura che mette forse in crisi la gerarchia parola-immagine di quel mondo occidentale che «ha privilegiato la parola come sede della cultura e della razionalità, lasciando all'immagine le connotazioni di naturalità e bellezza, le stesse attribuite al femminile, certo rilevanti ma sempre subordinate al potere sublime e dominante dell'eloquenza maschile».339
Lo storico americano Martin Jay, nel 1994, ha scritto un libro dal titolo Downcast Eyes. The denigration of vision in XX century French thought, il cui primo capitolo ripercorre la fortuna del 337Ci sono in realtà anche spettacoli teatrali fondati sulla simultaneità delle scene. Celebre è l'esempio dell' Orlando
furioso di Ronconi.
338Diderot, De la poésie dramatique, in Le drame burgeois, op. cit., pp. 390-391. Qualche secolo più tardi, in epoca contemporanea, la mise en page su due colonne si fa più frequente. Si pensi per esempio alla drammaturgia di Rafael Spregelburd, i cui testi, spesso riportati su due colonne, sono non a caso estremamente vicini alla frammentarietà e alla molteplicità dell'accumulo episodico proprio delle serie televisive.
339Clotilde Bertoni, Massimo Fusillo, Gianluigi Simonetti (a cura di), Nell'occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all'immagine, Roma, Donzelli, 2014, p. XI.
paradigma conoscitivo visivo, da Platone a Cartesio, in modo sintetico e puntuale.340 Se nella Grecia
antica, nelle forme di conoscenza, la visione aveva un ruolo dominante rispetto agli altri sensi, tanto da dar vita a una sorta di “filosofia visiva”, con la cultura ebraica si assiste al prevalere del verbale. Non è questa la sede per scendere nelle definizioni e nei riferimenti letterari su cui si basano queste affermazioni ma, essendo la filosofia occidentale strettamente legata al pensiero greco, converrà almeno recuperare qualche passaggio:
Sight […] is preeminently the sense of simultaneity, capable of surveying a wide visual field at one moment. Intrinsically less temporal than other senses such as hearing or touch, it thus tends to elevate static Being over dynamic Becoming, fixed essences over ephemeral apparences. Greek philosphy from Parmenides through Plato accordingly emphasized an unchanging and eternal presence. “The very contrast between eternity and temporality”, Jonas claims, “rests upon an idealization of 'present' experienced visually as the holder of stable contents and against the fleeting succession of nonvisual sensation”.341
Ad essere ribadito con fermezza è il legame, qui stabilito sul piano filosofico, tra la visione e il tempo: la vista come senso della simultanea percezione e distinzione di soggetto e oggetto, distinzione quest'ultima che metterà in crisi il pensiero del XX secolo come vedremo per lo stesso Beckett. Evidentemente le cose non sono così lineari se pensiamo soltanto che il paradigma conoscitivo visuale implica, nell'accezione greca, non solo l'esperienza concreta della visione, ma anche la conoscenza della forma immobile e perfetta percepibile con l'occhio della mente:
The faith in the nobility of sight bequeathed to Western culture by the Greeks had many, often contrary implications. It could mean the spectatorial distancing of subject and object or the self-reflective mirroring of the same in a higher unity without material reminder (the mirror's tain in Gasché's metaphor). It could mean the absolute ourity and geometric and linear form apparent to the eye of the mind or it could mean the uncertain play of shadow and color evident to the actual senses. It could mean the search for divine illumination or the Promethean wresting of fire from the gods for human usage. And it could mean the contest for power between the Medusan gaze and its apotropaic antidote (a contrast with gender implications occluded until recent feminist critiques made them explicit). […] The Greek privileging of vision meant more than relegating the other senses to subordinate positions; it could also lead to the denigration of language in sevral respects.342
Jay poi ripercorre le pratiche di un supposto Medioevo anti-visuale, il rapporto tra religione e visivo, la cultura barocca, il rapporto tra potere e visivo, fino ad introdurre il termine qui degno di maggior interesse: la denarrativizzazione. Ecco cosa accade, nelle parole di Martin Jay, quando il 340Martin Jay, Downcast eyes. The denigration of vision in XX Century French thought, Berkeley e Los Angeles,
University of California Press, 1994.
341Ivi, p. 24. Il riferimento a Jonas è il seguente: Hans Jonas, The Nobility of Sight: A study in the Phenomenology of the Senses, in The Phenomenon of Lofe: Toward a Philosophical Biology, Chicago, 1982, p. 145.
visuale si emancipa dal religioso:
In the Middle Ages […] there was a rough balance between textuality and figurality with occasional oscillations in one direction or another. As Norman Bryson has argued with reference to the great stained-glass window of Canterbury Cathedral, their visual splendor was always in the service of the narratives they were meant to illustrate. […]
The progressive, if by no means uniformly accepted, disentanglement of the figural from its textual task – the denarrativisation of the ocular we might call it – was an important element in the larger shift from reading the world as an intelligible text (the “book of nature”) to looking at it as an observable but meaningless object, which Foucault and others have argued was the emblem of the modern epistemological order. Only with this epochal transformation could the “mechanization of the world picture” so essential to modern science take place.
Full denarrativization was a long way off, only to be achieved in painting with the emergence of abstract art in the twentieth century. One way in which it was abetted, as Albert Cook has suggested in his discussion of Sandro Botticelli, Giorgione, Vittore Carpaccio, and Hieronymuous Bosch, was by overloading the signs in a painting, producing a bewildering excess of apparent referential or symbolic meaning. Without any one-to-one relationship between visual signifier and textual signified, images were increasingly liberated from their storytelling function.343
Jay dunque intende per denarrativizzazione quel percorso che porta l'immagine a sottrarsi da una funzione ancillare rispetto a un testo e ciò avviene quando non è più così chiaro il rapporto tra l'immagine e il suo referente. Il bombardamento di immagini che viviamo nell'epoca contemporanea mette in crisi il paradigma visuale moderno che aveva cercato di dare all'immagine un ordine testuale. Jay parla della crisi di un regime scopico improntato sul “prospettivismo cartesiano”, quando cioè la visione, regolata sulla posizione fissa di un osservatore disincarnato, era in grado di tradursi in una grande narrazione lineare, improntata alla continuità e al progresso. Ecco che allora, anche nel mondo contemporaneo, quando vigono la molteplicità e la sovrapposizione di immagini, sottratte a una logica ordinatrice, prende piede una nuova forma di iconofobia e si elevano urla all'epoca della vuota apparenza e dei falsi simulacri. Per capire cosa accade si tratterà invece di riconsiderare quanto avviene nell'ottica di fenomeni narrativi complessi come quelli a cui si è fatto cenno. E il teatro, come si vedrà, è il luogo in cui forse per eccellenza queste dinamiche si palesano. Le immagini possono trasformare le storie in gesti, pose, costumi, architetture: la seduzione del visivo è sintetica e immediata e la parola, di fronte a essa, sembra impotente. Ma per non cadere in letture catastrofiste e, appunto, iconofobe, varrà la pena ricordare come si tratti di un aspetto noto anche agli antichi che avevano saputo ricavarne un principio culturale fondante.
L'essenza degli schemata era il loro carattere di codificazione che faceva sì che vi si potesse ricorre anche in contesti non abituali. La questione è la stessa proposta dallo stesso Jay: l'utilizzo di uno schema fuori dal contesto narrativo che lo ha originato consente di parlare di denarrativizzazione
dello schema, elemento che risulta così essere riconoscibile e mobile allo stesso tempo, identificabile dal pubblico anche se non necessariamente interpretabile ad un primo sguardo. La riproducibilità è cioè fattore denarrativizzante?
Quel che è certo è che se gli schemata presuppongono un fattore mimetico di aderenza a un originario atteggiamento, ciò significa che la mimesis dovrà essere pensata nel suo significato pre- platonico: se infatti da Platone in poi il termine assume il significato, più o meno dispregiativo, di copia del reale, prima di Platone il termine era legato a una forma di conoscenza profonda che, in forma di espressione performativa, avveniva per via visiva.
E ritorniamo a Frasca che, parlando della contrapposizione tra oralità e scrittura, la definisce «una contrapposizione mediale brillantemente riassunta da Harald Weinrich in un saggio apparso nel 1985, fra i modelli di trasmissione narrativi, tipici delle culture a privilegio orale (pre o anche post- alfabetiche) e la “denarrativizzazione” operata dal pensiero logico-dialettico, catalogante e impronunciabile, delle civiltà chirografiche».344