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I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

2.2. I dispositivi della visione: ékphrasis e tempo

Diderot, in un confronto tra le arti elaborato nella Lettre sur les Sourds et Muets (1751) per mostrare la complessa costituzione sensoriale del nostro spirito, si interroga sulla capacità che hanno le parole di mantenere viva e intensa l'esperienza pre-verbale dei sensi. Quello che è evidente, per il filosofo, è la diversa esperienza temporale: quell'unità psichica che è in grado di contenere simultaneamente una complessità di sensazioni, non potrà che essere resa, attraverso il linguaggio, in una successione di parole. Questa successione, di fatto, non potrà mai rendere l'esperienza interiore di una molteplicità ricondotta ad unità:

Notre âme est un tableau mouvant d'après lequel nous peignons sans cesse: nous employons bien du temps à le rendre avec fidélité; mais il existe en entier, et tout à la fois: l'esprit ne va pas à pas comptés comme l'expression. Le pinceau n'exécute qu'à la longue ce que l'œil du peintre embrasse tout d'un coup. La formation des langues exigeait la décomposition ; mais voir un objet, le juger beau, éprouver une sensation agréable, désirer la possession, c’est l’état de l’âme dans un même instant. [...] Ah! Monsieur, combien notre entendement est modifié par les signes; et que la diction la plus vive est encore une froide copie de ce qui s’y passe!217

Diderot sta pensando alla lingua francese e al suo essere composta come successione di parole secondo una logica causale profondamente fittizia, in base alla quale normalmente, a un sostantivo facciamo seguire un aggettivo, per cui il secondo sembra essere una sorta di effetto del primo (come se nella “mela rossa”, il rosso della mela dipendesse dal suo essere mela). A questa logica razionalizzante, che dispone su una linea di cause e di effetti, quindi anche temporalmente orientata, le esperienze sensibili, Diderot oppone un immaginario linguaggio naturale, che si potrebbe per esempio rinvenire nella spontaneità gestuale del linguaggio dei sordo-muti. Tale forma di 216Per una sintesi che ripercorre la fortuna dei contenuti teatrali nelle opere pittoriche, si veda Lea Mattarella, Se la vita è un palcoscenico, in Art dossier 278, giugno 2011. Nella seconda metà dell'800 l'ispirazione teatrale viene bollata come letteraria, troppo distante dalla ricerca del vero (ma vediamo che la questione era già diderottiana, non in termini di letterarietà ma certo nella sua riflessione sul rapporto tra artificio e verità) verso cui si sarebbe dovuta indirizzare la nuova arte. La scena teatrale però non scompare dalle opere, semplicemente cambia veste e a diventare oggetto di pittura è il mondo che circonda il teatro, la vita che sta ai margini (con questo spirito Degas dipinge l'Orchestra dell'Operà nel 1868 o Il balletto del “Robert le Diable” nel 1872). Nel '900 il tema teatrale sarà un altro paio di maniche: da Picasso e Severini che si mostrano attratti da Arlecchini e Pulcinella, dallo spettacolo di strada, popolare e dalla commedia dell'arte; a Melotti e Fontana che realizzano opere intitolate Teatrini, le quali riproducono a tutti gli effetti veri e propri piccoli spazi teatrali.

linguaggio performativo, forse più vicino alle origini, porterebbe con sé i segni della situazione che lo ha prodotto. In realtà Diderot dirà che il linguaggio poetico e l'arte in generale, che si esprime attraverso una forma geroglifica, è in grado di esprimere l'unità della natura e dell'esperienza, grazie al fatto che può implicare l'implicito. È grazie a questo concetto che ritorna la riflessione temporale: l'implicito, per esempio nell'ambito di un gesto teatrale, allude infatti alla complessità di avvenimenti che hanno portato ad esso caricandolo di forza drammatica. È chiaro quindi che il concatenamento del linguaggio razionale e il carattere statico di un'immagine sono due modi rappresentativi che faticano a rendere, come fa invece la forma del geroglifico, la ricchezza dell'esperienza.218 A questo punto interviene però una riflessione sulla ricezione: se, per esempio,

andando a teatro, guardassimo lo spettacolo con le orecchie tappate, potenzieremmo il senso della vista e ci accorgeremmo che, grazie all'immaginazione, alla fine dello spettacolo, avremmo ricostruito la vita dei protagonisti anche negli aspetti che sono rimasti impliciti al nostro sguardo e che saremmo entrati nell'opera.

Del resto, quello che fa nei Salons è lo stesso procedimento: entrando nelle tele che presenta, Diderot non si limita a descriverle, ma le immette in una teatralizzazione che allude alla stratificazione temporale – verso ciò che è stato e verso ciò che ancora deve essere – condensata in quell'immagine pregnante.219 L'esperienza interiore quindi è in grado di contenere la complessità in

un'unità, come un “dipinto in movimento” che però, per essere esteriorizzato, viene scomposto nell'espressione. In un discorso sull'ékphrasis, è chiaro che ad interessare sono gli effetti dell'immagine portata fuori dall'interiorità, nel tentativo di dare anche al “quadro esteriorizzato” il movimento che esso ha interiormente:

La dinamizzazione delle immagini, un desiderio che può farsi risalire alla caverna platonica, così come a tutte le varianti del mito pigmalionico, subisce un improvviso inveramento dopo l'invenzione di dispositivi mediali che fondano il loro effetto sulla persistenza retinica (afterimage). Così come, per converso, i “raggelamenti” delle azioni che conducono Lessing alla teoria del “movimento pregnante” nella raffigurazione pittorica, trovano un'evidente conferma nell'attimo fotografico. Paradossalmente l'ékphrasis si è sempre prestata a singolari asincronie, consentendo 218Scrive Pierre Frantz: «Diderot désigne par le mot hiéroglyphe à la fois le mystère, ce qui dans la langue semble échapper à la langue, ce qui du sens ne fait pas discours, ce qu'on ne peut traduire et qui, pourtant, fait signe. Hiéroglyphe ou emblème, le signe poétique n'a pas de synonyme, il ouvre à l'interprète une carrière illimitée. Il met en jeu “l'entendement”, les sens, “l'âme” et “l'imagination” et constitue un défi à toute tentative de réification du sens. […] Le hiéroglyphe poétique réalise une synthèse frappante entre un son et une image; son destinataire doit se faire “visionnaire”». Si veda Pierre Frantz, L'esthétique du tableau dans le théâtre du XVII siècle, Paris, Presses Universitaires de France, 1998, p. 28.

219Si allude qui alle due nozioni chiave della ricerca che Michael Fried fa sugli scritti di Diderot e sulla pittura del suo tempo, l'“assorbimento” e la “teatralità”: da una parte il rapporto tra opera e spettatore può esprimersi in termini di riconoscimento della presenza dello spettatore nell'opera, dall'altra all'opera si può guardare come un elemento forte della sua autonomia, della sua coerenza interna che non prevede d'inglobare lo spettatore. Si veda Michael Fried, Absorption and Theatricality. Painting and Beholder in the Age of Diderot, University of Chicago Press, Chicago- London, 1988.

l'applicazione di logiche cinematiche ben prima che il cinema fosse inventato e producendo una logica del fotogramma ben prima della fotografia.220

L'ékphrasis può dinamizzare l'immagine fissa, raccontandola nel tempo della scrittura, ma può anche fissare la risultante di un movimento presupposto, secondo un principio di anti- dinamizzazione (o raggelamento). Si tratta di una teoria che contiene un principio di scomposizione dell'immagine nel tempo e di ricomposizione della stessa nell'istantaneità che, in chiave più moderna, potrebbe essere così riformulata:

Si peinture et théâtre s'inscrivent tous deux dans des «cadres» (pictural – encadrement -, et scénique – rideau, rampe etc.), la peinture, notamment moderne, est un art de la «présenteté», selon la terminologie de Michael Fried, alors que le théâtre est un art de la présence, que entraînent chacun des effets particuliers sur les spectateurs.221

Secondo quanto dice Michael Fried, qui riportato in un articolo di Tatiana Burtin sulla pittura portata in scena, se la pittura occupa il tempo di quella che, in italiano, potremmo tradurre come “presentificazione”, il teatro contempla la “presenza”. Se l'opera d'arte cioè fissa un momento presente della fruizione, il teatro presuppone un movimento temporale di istanti presenti.

Con queste premesse cerchiamo quindi di sviluppare un percorso sulla temporalità dell'immagine in scena che finirà per assumere il tempo stesso come un medium.

Esiste in francese un verbo che in italiano non esiste, méduser, che potremmo tradurre come “provocare un effetto di stupore che lascia pietrificati”, subire cioè l'effetto dell'antica Medusa. Parlare degli “effetti medusa” a teatro consente di trattare la questione del rapporto tra l'immagine e il tempo sulla scena da un punto di vista particolare. Agli “effetti medusa” verranno ricondotte infatti le pratiche dei fermi immagine in scena, delle pose plastiche, del tableau vivant, delle still images, per come esse vengono espresse dagli attori sulla scena o per come esse vengono enfatizzate dai supporti video sempre più presenti sulle scene contemporanee.

La questione è evidentemente ecfrastica nella misura in cui, per raccontare un'immagine in movimento, essa viene comunque colta in un momento di stasi, di sospensione temporale, di congelamento del suo stesso divenire: il gesto bloccato (frozen), come vedremo, è il termine di paragone utilizzato nelle scritture dedicate al teatro, siano esse trattatistica o semplici didascalie scritte per definire le pose dei personaggi nella messinscena, ma esso è anche una pratica teatrale che investe le scene contemporanee che si confrontano con l'opera d'arte.

220M. Cometa, op. cit., p. 45.

221T. Burtin, Interartialité et remédiation scénique de la peinture, in «Intermédialités: histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques», n. 12, 2008, p. 69. Si veda anche Micheal Fried, Contre la théâtralité: du minimalisme à la photographie contemporaine, Paris, Gallimard, 2007, p. 139.

Agamben nello scrivere un saggio, Ninfe, che è in qualche modo un percorso sulla temporalità delle immagini, inizia commentando un lavoro di Bill Viola, Passions:

Le immagini sullo schermo sembravano immobili, ma, dopo qualche secondo, esse cominciavano quasi impercettibilmente ad animarsi. Lo spettatore si rendeva allora conto che, in realtà, esse erano sempre state in movimento e che soltanto l'estremo rallentamento, dilatando il momento temporale, faceva sembrare immobili. Questo spiega l'impressione insieme di familiarità e di estraneazione che le immagini suscitavano: era come se, entrando nelle sale di un museo dove erano esposte le tele di antichi maestri, queste cominciassero per miracolo a muoversi.222

Ciò che, nel video di Viola, mette in relazione l'immagine proiettata con la pratica teatrale è il movimento impercettibile, quel soffio vitale che è sfuggito alla Medusa e che fa dell'immagine un'immagine performativa.

L'uso dei video modifica in parte le forme di temporalità che la scena teatrale può assumere o, per meglio dire, rende più eclatanti possibilità che il teatro da sempre porta in seno. Ad essere messo in dubbio è il tempo della fruizione: il pubblico non è abituato all'attenzione richiesta per esempio dalle immagini semi-immobili o, più in generale, da quella che Agamben chiama «la messa in movimento del tema iconografico».223 Ma a cosa siamo abituati?

Riconosciamo facilmente una suddivisione mediale piuttosto netta e, più specificamente, un uso del tempo nei vari media piuttosto standardizzato: banalizzando, diremo che riconosciamo la progressione temporalmente (e narrativamente) frammentaria dello zapping televisivo; riconosciamo le possibilità ellittiche, prolettiche, analettiche del cinema; sappiamo definire lo sviluppo dello spettacolo teatrale nei termini di una presentificazione distribuita nella durata. Conosciamo i media tecnologici e crediamo di conoscere anche i tempi di fruizione a cui essi ci sottopongono. Scrive sempre Agamben in qualche modo a questo proposito:

In quanto l'evento che essi presentano può durare fino a una ventina di minuti, questi video esigono un'attenzione a cui non siamo più abituati. Se, come Benjamin ha mostrato, la riproduzione dell'opera d'arte si accontenta di uno spettatore distratto, i video di Viola costringono invece lo spettatore a un'attesa – e a un'attenzione – insolitamente lunghe.224

Trasportando queste considerazioni a una valutazione generale delle scene contemporanee, potremo dire che esse si avventurano in un uso dei media ai limiti delle loro possibilità, mantenendo però la capacità di non diventare necessariamente qualche cosa d'altro: il video che cristallizza l'immagine e la rende semi-immobile, non trasforma l'immagine in una fotografia, benché ad essa si avvicini, ma

222Giorgio Agamben, Ninfe, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 7-8. 223G. Agamben, op. cit., p. 8.

la trasforma in una posa performativa, tale perché vive di due tempi, uno interno ad essa – il tempo dell'immagine – e uno esterno – il tempo della fruizione –, che fanno sì che «l'immobile tema iconografico si trasformi in storia».225 Quasi parafrasando il senso dell'immagine dialettica di

Benjamin, Agamben scrive:

Ogni istante, ogni immagine anticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e ricorda i suoi gesti precedenti. Se si dovesse definire in una formula la presentazione specifica dei video di Viola, si potrebbe dire che essi non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini.226

Abbiamo parlato del video ma, arretrando di poco lo sguardo, vedremo che anche la pratica attoriale in praesentia contiene alcune di queste possibilità: associando il semi-immobilismo alla lentezza, potremmo cioè spostare la questione dal video alla performance dal vivo. Colui che da sempre è considerato il maestro della lentezza a teatro è Bob Wilson. Durante i suoi spettacoli, come dice Frédéric Maurin, il tempo viene reso visibile proprio per quella timida lentezza che, appena accennata nel gesto o nel movimento, tiene lo spettacolo appeso alla teatralità, alla vita quasi, lì dove l'immobilità lo farebbe piombare in un simulacro di eternità.

Quella sensazione mista di familiarità e di estraneazione, di cui parla Agamben, si palesa insomma come uno degli effetti della lentezza. Quando Maurin racconta la prima scena de Le Regard du sourd (1970),227 uno dei primi spettacoli di Wilson, in cui si vede – dilatata nell'estrema lentezza -

l'uccisione di un bambino da parte di una donna, commenta:

La cruauté s'adoucit en mollesse, l'indolence cicatrise la douleur. […] Dans la disjonction de la pulsion intérieure et de la façade extérieure, la vision du meurtre suscite une émotion plus complexe, plus subtile, que le pathos ou la terreur: c'est l'émotion d'une tragédie sans catharsis, ressemblant sur le plan cinétique à l'émotion que le metteur en scène situe, au plan sonore, “dans la prononciation lente de la sentence de mort”. 228

Il dolore quasi si cicatrizza benché la tragedia si compia in tutta la sua efferatezza. Ma perché la catarsi non avviene? La dilatazione temporale, sospendendo l'immagine in un presente senza tempo, la sottrae al flusso della storia, dell'esistenza, ne alleggerisce il portato drammatico, restituendolo in

225Ivi, p. 9. 226Ivi, p. 10.

227Le Regard du sourd è uno spettacolo che, dopo essere stato presentato al festival di Nancy nel 1971, porterà Wilson, appena trentenne, alla notorietà internazionale. Lo spettacolo aveva una durata di sette ore, coinvolgeva settanta attori (tra cui Carmelo Bene) ed era organizzato come una successione di tableaux in movimento che provocavano sul pubblico una vera esperienza meditativa: al tempo veniva lasciato tempo per esprimersi, al gesto veniva lasciato il tempo di depositarsi in un'immagine che appariva e spariva. Lo spettacolo, che era pensato senza parole, esplorava l'universo di un bambino sordo, Raymond Andrews, che pensava per immagini: la pregnanza visuale diventava così il vettore di trasmissione di quell'emozione estetica su cui Wilson ha fondato il suo teatro.

forma di un lampo gestuale che dura troppo. La modernità, incapace secondo Benjamin di riempire di senso l'esperienza e la memoria, si esprime anche in questo modo: verrebbe quasi da dire che l'immagine sottoposta all'estrema lentezza e quella sottoposta alla fugacità dell'istante fulmineo portano su di sé la medesima incapacità di produrre narrazione.

[la lenteur] confère au mouvement qui se défait en image une dimension “auratique”, pour reprendre le term que Walter Benjamin déniait au cinéma où “jamais le regard ne réussit à se fixer” dans le choc et la fugacité des images.229

Parole che chiariscono in modo decisivo la differenza mediale tra il cinema e il teatro, luogo quest'ultimo in cui la gestione temporale dell'immagine può ancora sortire gli effetti drammatici di un tempo illusoriamente sospeso. Un'illusione che rimette al centro, secondo Maurin, il rapporto dell'uomo con la natura, perché questa lentezza non sarebbe altro che una forma di naturalismo temporale:

Hyperbolique lenteur qui immobilise le passage et transforme le temps en image... Mais aussi, lenteur fidèlement naturelle qui atteste que le passage du temps n'est accéléré que par l'activité de l'homme, la convention de la stylisation ou l'opération du montage. […] Un temps qui représente le temps de la nature, mais sans jamais la figurer, elle: bref, un temps produit à image du temps de la nature.230

Maurin, nel passo precedente a quest'ultimo citato, richiama giustamente Benjamin, ma perdendo di vista l'idea benjaminiana di una contemporaneità incapace di esperienza e memoria, scrive: «Si l'extase de la vitesse expédie à l'oubli, la contemplation de la lenteur mûrit en mémoire».231 Egli

reimmette cioè la lentezza entro un processo temporale complesso che forse, in Wilson, è solo supposto. Più interessante e pertinente è allora la riflessione sulla dimensione liturgica della lentezza, dimensione spazio-temporale in cui avvengono la contemplazione e la meditazione:

C'est pratiquement tout le théâtre de Wilson qu'on finit par rattacher au sacré en déduisant, de la lenteur de la liturgie, la dimension liturgique de la lenteur, et en mystifiant le formalisme scénique à l'égal des cérémonies solennelles, des processions religieuses, de l'immobilité des dieux et de l'inaction des saints.232

La lentezza, sospendendo il gesto nel quasi-immobile, lo investe di quella forma liturgica che ha in sé la tensione al compimento, ma che ad esso non giunge mai:

Autant que la répétition inhérente au mode d'être du théâtre, le spectacle offre en représentation l'image comme 229Ivi, p. 23.

230Ivi, pp. 38-39. 231Ibidem. 232Ivi, p. 28.

fondement et devenir de l'univers wilsonien. Fondement dans l'image mentale, devenir dans l'image scénique. Mais ce devenir ne s'accomplit jamais entièrement, il ne parvient jamais à sa plenitude, qui serait la fixité des formes.233

Il teatro wilsoniano, ma il teatro in generale verrebbe da dire, può essere il luogo di una sorta di “imperfettibilità” dell'immagine, una declinazione dell'“implicito” diderottiano, di una tensione protesa sull'avvenire: la liturgia teatrale si carica dei segni dell'incompiutezza, delle voragini di senso che chiedono allo spettatore uno sforzo immaginativo per ipotizzare possibili compimenti e per rispettare, allo stesso tempo, l'impossibilità del compimento. Narrando l'opera, l'ékphrasis mostra quella che Mengaldo chiama «funzione integrativa» che consiste proprio nell'immettere l'immagine nella storia a cui allude, in modo implicito e sempre imperfetto. In questo senso, Mengaldo sostiene che «aveva ancora ragione Gombrich quando parlava dell'importanza delle presupposizioni (direi proprio in senso logico-linguistico) nella lettura delle immagini».234

Prendiamo ora un altro saggio di Agamben dove lo studioso, percorrendo la teoria delle segnature, mostra come la segnatura, nel corso dei secoli, assuma da una parte la veste di un atto concreto attraverso il quale viene resa manifesta la virtù occulta delle cose, dall'altra come essa si riveli per essere una qualità intrinseca alle cose stesse, una qualità esistenziale.235 Ma qual è il legame tra

questa teoria e una riflessione sul tempo dell'immagine a teatro?

Se consideriamo la segnatura come «l'operatore decisivo di ogni conoscenza che rende intelligibile il mondo, che è, in sé, muto e senza ragione»,236 diremo che essa, rendendo effettivi e parlanti i

segni, li immette all'interno di un processo temporale, li sottrae, per un momento, allo sguardo della Medusa che li ha congelati. Agamben, in effetti, non accenna alla questione temporale, ma si rifà a