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Promenades de l'œil et pantomime: l'ékphrasis di Diderot

I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

2.1. Promenades de l'œil et pantomime: l'ékphrasis di Diderot

Diderot, per raccontare il quadro di Fragonard, Corésus et Callirhoé, nel Salon del 1765, inventa una situazione ad incastri molto interessante. Dopo aver letto Platone, dice di aver fatto un sogno 159Ivi, p. 935.

160M. Cometa, op. cit., p. 71. 161H. Belting, art. cit., p. 81.

strano: egli si trovava in una caverna del tutto simile a quella del celebre mito raccontato nel settimo libro della Repubblica, costretto, insieme a una moltitudine, a dare le spalle all'ingresso del luogo e a rivolgere lo sguardo su un'immensa tela di cui era tappezzata la parete di fondo. Dietro di lui c'erano uomini provvisti di figure trasparenti e colorate che, grazie a una luce proiettata alle loro spalle, potevano «fournir à la représentation de toutes les scènes comiques, tragiques et burlesques de la vie».162 Si realizza un teatro d'ombre e sotto gli occhi degli spettatori le immagini sembrano

ancor più reali quando ad esse vengono aggiunte le voci: «derrière la toile» c'erano «d'autres fripons subalternes, aux gages des premieres, qui prêtaient à ces ombres les accents, les discours, les vraies voix de leurs rôles».163 Ecco creato il dispositivo per una messa in scena di immagini e suoni, la

sorgente dei quali viene posta da Diderot addirittura in due punti opposti e distanti, davanti e dietro la tela: la novella caverna platonica, diventata esplicitamente un dispositivo per la visione teatrale, tiene separati, così come avviene nella pantomima, i corpi dalle voci.

Diderot quindi passa a descrivere le diverse scene, che egli chiama quadri, che vede susseguirsi sulla tela a differenti intervalli. In primo luogo un giovane uomo in abiti sacerdotali che si ubriaca con un gruppo di donne con le quali poi corre per le strade spaventando gli abitanti a causa di un'ebrezza folle. Nel secondo quadro è l'ebrezza d'amore a muovere il sacerdote che si rivolge appassionato a una delle giovani donne che non risponde però in alcun modo al suo furore amoroso. A questo punto la scena si riempie di comparse e padri, madri, bambini cercano di far rientrare nei ranghi le ragazze ebbre e i giovani che si sono uniti in quella folle parata: la scena finisce per confondere i piani della gioia e del dolore. Diderot salta un passaggio: Coreso, sacerdote di Bacco innamorato di Calliroé che lo respinge, si rivolge al suo dio per chiedere il suo aiuto e Dioniso punisce gli abitanti della città con un'epidemia di follia. È questa la scena a cui sta alludendo e in questo senso si spiegano queste righe della descrizione:

Au milieu de ce tumulte, quelques vieillards que l'épidémie avait épargnés, les yeux baignés de larmes, prosternés dans un temple frappaient la terre de leur fronts, embrassaient de la manière la plus suppliante les autels du dieu, et j'entends très distinctement le dieu ou peut-être le fripon subalterne que était derrière la toile, dire: Qu'elle meure, ou qu'un autre meure pour elle.164

Nel sogno diderottiano, benché i meccanismi della messa in scena siano esplicitati fin dall'inizio, la realtà e la finzione si confondono e la voce potrebbe essere del dio come di qualcuno che si trova dietro la tela. Dopo le descrizioni di queste scene, come quadri distinti, Grimm, interlocutore di Diderot, osserva come esse possano riempire una galleria intera. Ma proprio dopo questa 162Denis Diderot, Salons, textes choisis, présentés, établis et annotés par Michel Delon, Paris, Gallimard, 2008, p. 152. 163Ibidem.

osservazione, alla quale il filosofo risponde chiedendo di pazientare («Attendez, attendez, vous n'y êtes pas»), inizia la descrizione della scena capitale che altro non è che una magistrale ékphrasis dell'opera di Fragonard, Corésus et Callirhoé, dove ad essere rappresentata è la scena in cui il sacerdote Coreso si immola per salvare Calliroé che doveva essere immolata (se nessuno si presentava al suo posto) per porre fine alla follia diffusa nella città.

Diderot, grazie all'espediente del sogno, costruisce quindi una vera e propria drammaturgia per quadri scenici che, nella successione e nel montaggio finali, vanno a costruire il quadro che egli aveva visto nel Salon.165

Fragonard, Le grand prêtre Corésus se sacrifie pour sauver Callirhoé , 1765, Parigi, Musée du Louvre

Mentre Filostrato passeggia nelle sale di un'antica galleria napoletana, Diderot, dal 1759 al 1781, scrive nove Salons in cui racconta, per chi non poteva essere a Parigi, le esposizioni di quadri o sculture organizzate dall'Académie royale de peinture et de sculpture. I Salons sono una celebre opera ecfrastica in cui si perdono i confini di genere: la critica d'arte si fa narrazione, dramma, riflessione filosofica; i toni del discorso prendono la veste della satira, della prosopopea, del

165Séverine Laborie, per presentare l'opera di Fragonard a quanti vi accedono dal sito del Musée du Louvre, parla di una pittura che nasce a stretto contatto con la messa in scena e scrive: «Fragonard a pu trouver la source de cette scène dramatique au théâtre et à l’opéra, où l’adaptation de Pierre-Charles Roy fut jouée plusieurs fois au cours du siècle. Mais sa culture est d’abord picturale et c’est surtout dans Le Sacrifice d’Iphigénie de Carle van Loo (Potsdam) qu’il faut rechercher les origines de cette composition, ainsi que dans La Mort de Virginie de Doyen (Parme), qui avait triomphé au Salon de 1761. Fragonard compose ce tableau comme une pièce de théâtre. La tragédie se déroule en présence de spectateurs, sous l’éclairage violent d’une lumière surnaturelle. Le temple se transforme en plateau: la scène est calée entre deux colonnes, le sol légèrement surélevé forme une estrade couverte d’une étoffe rouge frangée d’or. Les gestes des deux héros sont pleins d’emphase, Callirhoé s’évanouit tandis que Corésus se transperce la poitrine, survolé par les figures allégoriques du Désespoir et de l’Amour ». Si veda:

http://www.louvre.fr/oeuvre-notices/le-grand-pretre-coresus-se-sacrifie-pour-sauver-callirhoe. Ultimo accesso 15/11/2015.

melodramma, del saggio. Oltre alle descrizioni dei quadri, Diderot fornisce indicazioni sulle strategie ecfrastiche da seguire perché chi legge possa davvero ricostruire nella propria mente la visione. Nei suoi Pensées détachées sur la peinture, scrive:

Dans la description du tableau, j'indique d'abord le sujet; je passe au principal personnage, de là aux personnages subordonnés dans le même groupe; aux groupes liés avec le premier, me laissant conduire par leur enchaînement; aux expressions, aux caractères, aux draperies, au coloris, à la distribution des ombres et des lumières, aux accessoires, enfin à l'impression de l'ensemble. Si je suis un autre ordre, c'est que ma description est mal faite ou le tableau mal ordonné.166

O ancora, in apertura del Salon del 1767, scrive:

C'est une assez bonne méthode, pour décrire des tableaux, surtout champêtres, que d'entrer sur le lieu de la scène par le côté droit ou par le côté gauche, et, s'avançant sur la bordure d'en bas, de décrire les objets à mesure qu'ils se présentent.167

In termini spaziali, geometrici, Diderot presenta il percorso dello sguardo sulle opere, un percorso di lettura dell'immagine grazie al quale lo scorrere dell'occhio sull'opera diventa esperienza corporea. La componente che chiameremo performativa diventa poi essenziale per sostenere una scrittura che si immagina continuare delle conversazioni reali. Scrive Jean Seznec:

Le Salon de 1769 est écrit sous forme de lettres, celui de 1775, sous forme de dialogue. Au vrai, tous le Salons sont des conversations. Il les a causés avant de les écrire; il continue, en écrivant, de parler. L'écho de la discussion vibre encore; les interlocuteurs sont partis, mais Diderot réplique, argumente, interpelle toujours, comme si Grimm était toujours là, ou Galiani, ou le prince Galitzine, ou Madame Legendre. Le frémissement, l'accent, les inflexions de la parole vivante, voilà, plus encore que les métamorphoses littéraires, la source intarissable de la variété des Salons.168

Ma l'aspetto performativo dei Salons si coglierà anche nel tipo di rapporto che essi stabiliscono con il lettore: la metafora del percorso, infatti, non è solo una metafora ma ha in sé una componente immaginaria reale. Michele Bertolini parla di uno «sforzo di proiezione topologica cui è invitato il lettore»169 perché lo scopo di queste scritture sembra essere proprio l'inclusione dello spettatore

nello spazio del quadro: si assiste cioè, per via letteraria, all'«incorporazione del corpo dell'artista e dello spettatore nello spazio dell'immagine, per il passaggio da un punto di vista esterno a un punto di vista interno all'immagine».170 Il saggio di Bertolini, che analizza la questione della “lateralità”

166Pensées détachées sur la peinture, in Ivi, p. 448. 167Ivi, p. 352.

168Jean Seznec, Introduction à D. Dierot, Salons, vol. I, Oxford University Press, 1957, p. 14.

169Michele Bertolini, Percorsi dello sguardo. Il problema della lateralità delle immagini artistiche nei Salons di Diderot, in «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell'estetico», vol. V, n. 2, 2012, p. 69.

dell'immagine, ossia le implicazioni sottese alla scelta di dichiarare il lato da cui si accede all'opera per descriverla (Diderot privilegia generalmente il lato destro), ripercorre i principi ecfrastici su cui si reggono i Salons: dalle forme di descrizione delle opere condizionate dalle forme della memoria, ai tentativi di ricreare l'esperienza visiva e corporea dando l'illusione di una presenza.

Nell'introduzione al Salon del 1765, Diderot scrive: «Je vous décrirai les tableaux, et ma description sera telle qu'avec un peu d'imagination et de goût on les réalisera dans l'espace et qu'on y posera les objets à peu près comme nous les avons vus sur la toile».171 Lo spazio è ancora uno spazio mentale,

ma il passo che porterà a incarnare quello spazio in una visione teatrale è breve. Il lettore, nelle descrizioni di Diderot, si trova incorporato nell'opera secondo tecniche che egli elenca in svariati punti dei Salons e che fanno soprattutto riferimento al modo di rendere lo spazio pittorico per mezzo della scrittura ecfrastica.

«Se esaminiamo queste cose come un dramma, è messa in scena in un piccolo spazio una grande tragedia, se invece le guardiamo come un quadro vi vedrai più dettagli» aveva detto Filostrato sintetizzando il senso di un'applicazione delle retoriche ecfrastiche al teatro. Non è certo sufficiente definire il teatro come un luogo in cui si producono immagini perché è questa una prerogativa anche di altre arti, ma si può senz'altro dire che a teatro le immagini possono essere scomposte e ricomposte in una distribuzione temporale che segue lo sviluppo delle scene.

Quando Mengaldo tratta dei possibili accostamenti analogici che intervengono nel discorso ecfrastico, la frequenza dei quali si spiega facilmente considerando la qualità di un discorso che ha piena coscienza dalla «metaforicità» dell'opera d'arte, scrive a proposito delle comparazioni con il teatro:

Gli accostamenti ora segnalati [Mengaldo ha parlato nei capitoli precedenti dei raffronti tra artisti, tra arte pittorica e scultura o arte plastica in generale e delle analogie con la filologia e la letteratura] tendono di solito a cogliere complessivamente un'atmosfera espressiva, mentre i precedenti, di solito, a dare evidenza a un dettaglio. Altra cosa sono le comparazioni col teatro che invece guardano globalmente alla composizione dell'opera – o alla sua decomposizione -, alla struttura, o piuttosto all'espressività gesticolante che forza la struttura e ne deborda, e insomma alle warburghiane Pathosformeln; Kant diceva, 325: «l'artista fa parlare la cosa stessa quasi mimicamente». Cominciando ancora da Lanzi, 306: «quasi come i tragici delle scene»; proseguendo con Burckhardt 694: «i suoi [del Mazzoni] gruppi hanno bisogno di essere disposti entro una nicchia, come se fossero a teatro», 1004, splendidamente, sulla Messa di Bolsena di Raffaello, col miracolo concentrato in una macchia: «Sarebbe a un dipresso come se un autore drammatico dovesse far culminare la sua commedia nel fatto che un anello è stato scambiato per un altro, o qualcosa di simile che scenicamente può solo apparire».172

171D. Diderot, Salons, op. cit., p. 101.

Come già diceva Filostrato, cioè, nel comparare teatro e opera pittorica, si privilegia una visione globale dei fatti, che significa riconoscere nella rappresentazione condensata «in un piccolo spazio» la stratificazione temporale di avvenimenti che è lo svolgimento della grande tragedia. Ed è chiaramente alludendo a questa capacità di cogliere la dialettica tragica in uno stato di arresto che Mengaldo richiama le formule di pathos warburghiane. Il critico poi prosegue con esempi che vanno da Fromentin a Gombrich, da Shearman a Rodin.

Quando si parla di ékphrasis e teatro, quindi, il riferimento è in genere a questo: il teatro viene trattato come un serbatoio di metafore per la descrizione dell'opera d'arte, ma quello che l'ékphrasis può esplicitare della teatralità è molto più profondo e di altro tipo. Dalle caratteristiche elencate nei capitoli precedenti, si dovrebbe insomma accogliere senza esitazione quanto segue:

[…] darà natura ecfrastica al suo discorso quel narratore che intende far scattare nel lettore il desiderio di entrare per così dire nella narrazione, di identificarsi con uno dei personaggi, di abitare la situazione descritta. La descrizione ecfrastica non è mai neutra ma coinvolge il lettore come accade a teatro, ed è precisamente questo coinvolgimento del lettore nel testo, nel testo rappresentato con le parole, a fare dell'ékphrasis la forma di scrittura più vicina alla rappresentazione drammatica.173

Per valutare che cosa effettivamente accada sulle scene teatrali, si potrebbe tentare una semplificazione del ragionamento, declinando il rapporto ékphrasis-teatro su tre versanti: ci sono le forme dell'ékphrasis assunte dalle didascalie teatrali, grazie alle quali la scena viene scomposta e ripercorsa nei suoi elementi di dettaglio; ci sono i discorsi ecfrastici in scena, ossia quei discorsi riconducibili a voci che contengono visioni e ci sono infine le possibilità dell'ékphrasis performata vere e proprie, in base alle quali i principi di costruzione drammaturgica delle scene sono riconducibili a moduli ecfrastici.

Non stupirà che, nei paragrafi successivi, proprio quando il teatro diventa il soggetto primo dell'analisi, i riferimenti rimangano di natura interdisciplinare. Del resto si stanno qui proponendo chiavi di lettura per le scene contemporanee che sono notoriamente all'insegna di un marcato attraversamento dei confini disciplinari, di un'ibridazione di forme che porta alcuni studiosi a rimettere in discussione quasi tutti i termini di definizione del genere teatrale. Facendo una sintesi del panorama europeo degli ultimi decenni, Aleksandra Jovićević parla ad esempio di «produzioni teatrali basate sulla pura improvvisazione (Forced Entertainment, Rene Pollesch, Rachide Ouramdane), danza con testo (Costanza Macras, Jérôme Bel), installazioni e perfomance al posto di lavori “plastici” (Studio Azzurro), proiezioni video trasformate in cicli di affreschi (Bill Viola),

173Lidia Palumbo, Portare il lettore nel cuore del testo. L'ekphrasis nei dialoghi di Platone, in «Estetica. Studi e ricerche», rivista semetrale, 1/2013, p. 37.

immagini fotografiche e dipinte che diventano figure viventi (Heiner Goebbels, Societas Raffaello Sanzio, Alvis Hermanis) o sculture che si trasformano in show ipermediali (Giebbels) ecc.».174

Non si entrerà nello specifico di questi temi, ma è evidente che un certo uso dell'immagine in scena, un uso che qui definiremo ecfrastico, diventa un elemento imprescindibile per la spettacolarità contemporanea, anche teatrale. Si cercherà quindi di vedere che cosa c'è sotto a quest'uso, da un punto di vista teorico prima di tutto, evitando letture semplicistiche: l'immagine non è solo ciò che viene proiettato sugli schermi saliti sulla scena e quello che con essi si può fare; l'immagine, a teatro, è prima di tutto un percorso mentale che può esistere anche in forma scritta; è una modalità di trasmissione della memoria e un sintomo di costruzione di immaginari.

L'ékphrasis e gli studi teatrali convergono sul tema dello sguardo: quello dello spettatore prima di tutto, così per come esso viene condotto a seconda di scelte poetiche, estetiche, registiche, attoriali. In una delle formulazioni più riuscite di Cometa l'ékphrasis è definita come «il luogo dell'incarnazione dello sguardo in letteratura (sguardi dello scrittore, del lettore, dei personaggi, degli spettatori) e, attraverso la deissi e la messa in scena del setting ecfrastico, anche un luogo importante per indagare gli aspetti performativi della narrazione».175

Riconoscere l'onnipresenza dello spettatore nelle retoriche ecfrastiche che, con un contributo immaginativo, completa la visione suggerita, significa inserire il processo narrativo all'interno di una logica teatrale in cui la produzione di senso si stabilisce proprio nella dialettica autore- spettatore. In ogni caso è probabilmente l'elemento temporale, di lessinghiana memoria, a consentire una trattazione dell'ékphrasis in ambito teatrale: lo sviluppo di un atto visivo o narrativo nel tempo condiviso è infatti fondamento dell'arte performativa. Ragghianti definì l'arte teatrale pura «arte figurativa»176 e, cercando di cogliere le differenze tra le arti sulla base di una prospettiva

temporale, scriveva:

Il tempo è un elemento imprescindibile, costitutivo, dell'arte del teatro-spettacolo, come del cinematografo: per i quali si potrà dire, e si potrà convenire, che il linguaggio è figurativo, ma bisognerà aggiungere che esso non è configurato allo stesso modo che in una pittura o in una scultura, perché in queste ultime non interviene, come valore essenziale, il tempo. La visibilità (linee, forme, colori, ecc.) del teatro e del cinema realizza invece la sua costruzione e la sua determinazione in un ritmo specialissimo che è il tempo. […]

174Aleksandra Jovićević, Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative: Estetica e Inestetica, in Biblioteca Teatrale I modi della regia nel nuovo millennio, luglio-dicembre 2009, Roma, Bulzoni. 175M. Cometa, op. cit., p. 106.

176Ragghianti scrive: «Il linguaggio espressivo caratteristico dell'arte del teatro-spettacolo, in quelle forme in cui la siamo andata indagando, è di natura essenzialmente “visiva”, per quanto riguarda l'immediatezza della sua qualità (come nella pittura e nella scultura): sempre astrattamente, o generalmente che si dica, è proprio dire di questo linguaggio, in quanto anch'esso processo costitutivo della visibilità, che è anch'esso un linguaggio “figurativo”. L'arte del teatro intesa in questa forma è dunque “arte figurativa”». In C.L. Ragghianti, Arti della visione. Spettacolo, Torino, Einaudi, 1976, p. 19.

Bisogna osservare che una pittura o una scultura non esistono, per lo spettatore, per colui che contempla criticamente (cioè ricostruisce quel processo, quel travaglio di realizzazione formale – che gli appare nella sua compatta e coagulata conclusione – in tutti i suoi elementi) fulmineamente. Con un'occhiata, per quanto magica, non si esaurisce un'opera d'arte in tutta la completa complessità dei suoi rapporti, nella sua storia insomma, che bisogna ritrovare e rideterminare al modo stesso che avvenne per l'artista. Dunque l'opera d'arte deve essere motivata, ripercorsa, «svolta», dallo spettatore. Dunque il tempo, come elemento attivo, come «tempo ideale», è presente anche in una pittura, o in una scultura: la sua materializzazione (che poi si può anche computare, calcolare in elementi di durata, ore, minuti, libri, pagine, parole) c'è pure, benché non conti affatto, criticamente o artisticamente, e non possa assurgere, in nessun senso, a un problema effettivo, se non eventualmente per un cronologo, statistico maniaco. Nel cinema, o nel teatro-spettacolo (come nella musica) lo svolgimento figurativo è presentato allo spettatore snodato, in cammino, e se ne assume meglio, e più facilmente per ciò, la durata, che è materializzazione – esistente in ogni forma d'arte, del resto – del ritmo figurativo ispiratore: che se si vuole chiamar tempo si deve allora chiamare «tempo ideale».177

Il sogno diderottiano coincide con questo processo di svolgimento figurativo: l'opera di Fragonard stimola un sogno i cui quadri scenici in movimento corrispondono alla storia implicita nel “tempo ideale” della pittura. Anche l'opera d'arte quindi presuppone una progressione dello sguardo che si sviluppa nel tempo e la fruizione dell'oggetto artistico viene letta in una dinamica performativa: del resto «un tableau n'est jamais immobile, puisque l'oeil qui le contemple a toute liberté en se déplaçant de déjouer sa perspective, de nuancer ses lumières; le tableau attend toujours que l'oeil le dramatise».178

Se pensiamo l'ékphrasis come svolgimento dell'immagine, potremo pensare il teatro – quello stesso che Diderot presenta nel suo sogno – come il luogo che rende espliciti i meccanismi di tale