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Tra spazializzazione e temporalizzazione: le retoriche dell'ékphrasis

I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA

1.5. Tra spazializzazione e temporalizzazione: le retoriche dell'ékphrasis

Ripercorriamo ora alcune delle principali caratteristiche retoriche dell'ékphrasis che abbiamo analizzato in modo sparso nei paragrafi precedenti per individuare quegli elementi che ci consentiranno in seguito di parlare di ékphrasis performata.

Dai progymnásmata si ricava che il discorso ecfrastico conduce lo sguardo immaginario dell'ascoltatore (pregnante è dunque l'aggettivo περιηγηματικός), definendo un percorso testuale nello spazio della mente: è una descrizione che segue un tragitto, una strategia di narrazione dell'immagine. Leggendo l'elenco di esempi di Libiano o le opere descritte da Filostrato, si noterà che lo sguardo è invitato a lasciarsi condurre in quelle che, con linguaggio cinematografico, chiameremo panoramiche, carrellate, campi lunghi, primi piani, zoom. Nelle composizioni antiche l'ékphrasis, che non aveva alcuna finalità critica o esplicativa e che era piuttosto la descrizione che prendeva forma dal movimento insito nel tessuto narrativo, si caratterizzava quindi per l'animazione delle immagini trattate e per l'abbondanza di dettagli descrittivi.100 Quando si parla dell'animazione

delle immagini trattate dal discorso ecfrastico, ci si muove all'interno delle retoriche del movimento, di cui in parte abbiamo parlato. Nel III libro della Retorica, Aristotele scrive:

Che le espressioni brillanti si proferiscano dalla metafora per analogia e col rendere <le cose> «davanti agli occhi» tutte quelle <espressioni> che indicano cose in atto: per esempio dire che l'uomo dabbene è tetragono è una metafora (giacché entrambe le cose sono perfette), ma non indica un atto. Invece l'espressione

di uno che ha fiorente l'età matura

<indica > un atto e <indicano> un atto

ma tu, come <animale> lasciato in libertà e allora i Greci lanciandosi con i piedi

«lanciandosi» <indica> un atto ed è una metafora, giacché esprime velocità.101

L'espressione “mettere le cose davanti agli occhi (πρὸ ὀμμάτων)”, che avevamo già trovato, suggerita al poeta, nel capitolo 17 della Poetica, significa quindi definire le cose in azione e viene

100Sarebbe molto interessante studiare come nel tempo le retoriche ecfrastiche subiscano delle trasformazioni per poter affermare i principi su cui si fonderebbe il discorso ecfrastico nella contemporaneità. Se quelli elencati sono i principi dell'èkphrasis antica, alcuni studiosi hanno rinvenuto per esempio dei cambiamenti subentrati nell'Alto Medioevo: «En effet, à mesure que l'on avance dans le temps, l'écriture ekphrasique entretient de moins en moins de rapport avec ce qu'elle décrit pour se lier davantage à l'expérience de la vue de l'objet d'abord, puis à la caractérisation de cette expérience de vision en termes de subjectivité. […] Les mots se rattachent d'autant moins à une donnée matérielle qu'ils renvoient à la relation sensorielle et affective du spectateur à l'égard de l'oeuvre d'art ou de son contenu». Si veda V. Debiais, art. cit., p. 395. L'attenzione dello scrittore medievale si sposterebbe quindi dall'oggetto all'esperienza della visione, da cui deriverebbe un incremento piuttosto evidente degli appelli diretti al lettore nelle scritture ecfrastiche di quel periodo.

utilizzata nella Retorica come termine tecnico che distingue un certo uso della lingua dall'uso metaforico. Quando però, nella Poetica, Aristotele dice che, nel costruire i racconti e nell'elaborarli, il poeta deve tenere davanti agli occhi la scena, sta utilizzando l'espressione πρὸ ὀμμάτων non come figura di stile ma come tecnica di creazione poetica: non sta parlando infatti dell'efficacia del testo misurabile dalla capacità di evocare immagini, ma sta parlando della necessità, per il poeta, di comporre delle immagini, ponendole davanti agli occhi della mente. La cosa qui non è di poco conto perché, letta nella logica ecfrastica, la doppia accezione dell'espressione (come figura di stile e come tecnica di creazione) riassume i due movimenti dello sguardo, lo smontaggio della ricezione e il montaggio della creazione dell'immagine. A noi, forse abituati a pensare secondo un paradigma estetico moderno ancora fondato su teorie romantiche che Lessing aveva in parte anticipato, l'affermazione secondo cui lo stile pittoresco delle espressioni ben congegnate viene rinvenuto nel movimento del linguaggio sembra quasi paradossale. In ogni caso è chiaro che per Aristotele il rapporto tra parola e immagine si definisce in termini di movimento, di azione.

Teone, ancora per un principio di movimento che chiama in causa contemporaneamente una dimensione spaziale e una dimensione temporale, trattando i possibili soggetti di un discorso ecfrastico, tra i quali annovera la “descrizione dei fatti”,102 scrive:

La description des faits aura pour arguments les événements antérieur, les événements concomitants et les conséquences. Pour une guerre, par exemple, nous exposerons d'abord ce qui l'a précédée, les levées de troupes, les dépenses, les craintes, le pays ravagé, les sièges, ensuite les blesseures, les morts, les deuils, enfin la capture et l'escavage des uns, la victoire et les trophées des autres.103

Si apre la questione della temporalizzazione dell'immagine.

Cesare Segre, ne La pelle di San Bartolomeo, mette in relazione la temporalità del linguaggio verbale alla spazialità del linguaggio delle arti figurative, sostenendo che vi siano di fatto dei riversamenti spaziali nella scrittura dedicata al visivo e che anche dei riversamenti temporali siano possibili nella composizione pittorica. Ma, a suo dire, non bisognerà perdere di vista quanto segue:

Studio del movimento (perciò della temporalità) e studio degli aspetti linguistici del figurativo rientrano in una stessa tematica, dato che il linguaggio si snoda nel tempo e ha senso solamente nel tempo. Ma va precisato (perché alcune differenze importano) che parliamo di linguaggio dell'opera d'arte non solo a proposito delle sue potenzialità narrative, ma anche e soprattutto della temporalità del discorso che ne parla. L'opera figurativa, posata nello spazio, si temporalizza nel discorso di chi la descrive.104

102L'elenco di soggetti ecfrastici proposto da Teone, sovrapponibile agli elenchi proposti dagli altri retori, è il seguente: persone, fatti, luoghi, tempi, “maniere” (modalità di costruzione, di produzione di oggetti ecc). Si veda Theon, Progymn., 118.7, 119.

103Theon, Progymn, 119, 16-24 (ed. Paris, Les Belles Lettres, 1997, p. 68).

Benché in queste parole si scorga il limite semiotico di dover ricondurre le prerogative del figurativo a un territorio controllabile da un universo di segni che proviene dalla scomposizione del linguaggio, è comunque espressa in modo molto chiaro una delle caratteristiche che rendono esplicita l'applicazione teatrale di uno studio sull'ékphrasis: la questione del tempo.

All'equivalenza delle arti sorelle, poesia e pittura, e dei loro oggetti, la parola e l'immagine, che normalmente viene sintetizzata ricorrendo all'oraziano ut pictura poiesis, nel Settecento, com'è noto, Lessing propone una separazione piuttosto netta tra le due arti: nel Laocoonte, esprimendo la propria teoria estetica, egli sostiene essenzialmente che, benché i referenti possano essere gli stessi, le differenze tra poesia e pittura sono molte. Lessing si chiede, per esempio, da che cosa dipenda che alcuni quadri poetici siano inutilizzabili per il pittore mentre molti quadri veri e propri perdono, se trattati dal poeta, gran parte del loro effetto. E, nello specifico, perché la scena di un banchetto di divinità è più adatta ad essere resa in pittura che la scena in cui Pandaro scaglia una freccia?

Qui deve essere il nodo della questione. Benché entrambi i soggetti, in quanto visibili, siano degni della pittura vera e propria, vi è tra essi un'essenziale differenza: che quella è un'azione visibile progressiva, le cui diverse parti si seguono una dopo l'altra nel tempo, questa invece è un'azione visibile statica le cui diverse parti si dispiegano l'una accanto all'altra nello spazio. Se dunque la pittura, a causa dei suoi segni e dei mezzi della sua imitazione, deve rinunciare del tutto al tempo, le azioni progressive, in quanto tali, non possono far parte dei suoi soggetti, piuttosto dovrà contentarsi di azioni l'una accanto all'altra, o di semplici corpi che grazie alla loro posizione lasciano indovinare un'azione. La poesia invece...105

Lessing sta dicendo che mentre la poesia è un'arte del tempo, la pittura contempla soltanto la dimensione spaziale e che se «sono i corpi, con le loro qualità visibili, i veri oggetti della pittura, […] le azioni sono i veri oggetti della poesia».106 Egli conclude con un esempio straordinario che

sicuramente potrebbe essere traslato per comprendere il senso dell'ékphrasis performata: quando Omero deve descrivere l'arco di Pandaro, non elenca semplicemente le caratteristiche visibili (quelle caratteristiche che ne costituirebbero la pittura), ma inserisce le caratteristiche in un processo di azioni. Omero sottrae l'oggetto alla pura visualità e lo inserisce nel flusso narrativo di un discorso che è di natura ecfrastica:

Omero […] anche dove gli importa solo l'immagine, distribuisce tale immagine in una sorta di storia dell'oggetto perché le parti di esso, che in natura stanno l'una accanto all'altra, nel suo quadro si susseguano l'una dopo l'altra con la stessa naturalezza e, per così dire, tengano il passo con il fluire del discorso. Per esempio: ci vuol dipingere l'arco di Pandaro; un arco di corno, di tale e tale lunghezza, ben levigato, con i puntali placcati d'oro. Che cosa fa? Ci enumera aridamente 105Lessing, Laocoonte, a cura di Michele Cometa, Palermo, Aesthetica, 2000, p. 70.

queste caratteristiche l'una dopo l'altra? Nient'affatto: ciò significherebbe additare tale arco, porlo a modello, ma non dipingerlo. Egli comincia con la caccia allo stambecco dalle cui corna esso è stato ricavato; Pandaro lo aveva appostato tra le rocce ed ucciso; le corna erano di straordinaria grandezza, per questo le destinò al suo arco; vengono lavorate, l'artista le unisce, le leviga, le decora. E così, come ho detto, noi vediamo nel poeta nascere quello che nel pittore possiamo vedere già quando è nato.107

L'arte teatrale si pone sempre su questa terra di mezzo: essa è rappresentazione di azioni che si svolgono nel tempo ed è pertanto vicina alle possibilità della poesia, ma ha in sé un potenziale visivo che si esprime nello spazio.

L'episodio dell'arco di Pandaro fa riflettere anche su un aspetto che diventa uno dei principi fondamentali della retorica ecfrastica contemporanea: l'oggetto che viene animato, da coagulo visivo di momenti temporali distinti – passato, presente e futuro –, subisce una dilatazione, prendendo spazio nella temporalità. Nonostante questo, è sull'oggetto singolo, specifico, che si dirige l'occhio della scrittura ecfrastica perché, per sua natura, essa tende a convergere sul dettaglio e, in questo senso, potrà essere definita una scrittura che procede per accumulo.

L'oggetto dipinto, animato dalla scrittura ecfrastica, è posto in uno spazio immobile che, secondo Segre, «contiene esso stesso un certo spessore di temporalità»108 espresso nei seguenti modi: c'è la

temporalità di un movimento a cui l'oggetto continua alludere pur presentandosi fissato in un istante isolato; c'è una temporalità più ad ampio raggio, con allusione a numerosi possibili riferimenti narrativi, che lo spettatore può cogliere anche sulla base delle proprie conoscenze; c'è infine una temporalità «occupata dall'esame diretto dell'opera»:

Lo sguardo non è in grado di afferrare sincronicamente nella sua complessità una qualunque opera figurativa; tanto meno di cogliere tutti gli elementi semantici e asemantici che essa esprime. Lo sguardo di chi contempla l'opera, sia o no un critico, la percorre con movimenti orizzontali, verticali, obliqui, in modo generalmente discontinuo. La mente formula ipotesi interpretative, e in base ad esse continua a percorrere l'opera. Se chi guarda è un critico, alla fine di queste ispezioni potrà organizzare una sua strategia discorsiva, e incominciare a stendere per iscritto la propria interpretazione. […] E qui entra in gioco una nuova temporalità, quella della scrittura. Le osservazioni del critico seguiranno un ordine sistematico, che non è quello della lettura, necessariamente multipla e disordinata. Interviene dunque la «mis en discours», con la sua rigorosa linearità e temporalità.109

Al di là del primo tipo di temporalità, diremo quindi che Segre individua nel fruitore il soggetto esterno determinante per l'espressione della temporalità di quello spazio creato dall'opera d'arte. L'èkphrasis performata, al contrario, attira lo spettatore in una temporalità che si dà nello spazio

107Ivi, p. 75.

108C. Segre, op. cit., p. 85. 109Ivi, p. 87.

teatrale, rendendo così espliciti i piani intersecati di spazializzazione e temporalizzazione.

In un contesto diverso, quello della critica stilistica, si muove Pier Vincenzo Mengaldo che, nel volume Tra arte figurativa e critica, propone una serie di analisi stilistiche di descrizioni ecfrastiche condotte da critici di professione e da critici dilettanti, tra i secondi dei quali spicca il nome di Diderot, a cui dedicheremo in seguito qualche pagina. Partendo dal presupposto che l'èkphrasis non si definisce per i contenuti ma per gli specifici usi linguistici, egli si chiede innanzitutto che cosa accomuni la descrizione letteraria di un paesaggio con quella di un'opera d'arte.

Il discorso ecfrastico, dice Mengaldo, è un «discorso che congloba, muovendosi fra loro, vari registri, a partire dal semplicemente informativo, e dunque presenta un tasso via via diverso di “relazione”, argomentazione ecc.», fino a contemplare una «densità stilistica» che è «personalizzazione, sfruttamento “poetico” delle risorse della lingua».110 Leggendo un testo

ecfrastico, secondo lo studioso, si incapperà nell'incremento dell'aggettivazione, sia in ottica quantitativa che qualitativa («entro il generale preziosismo, che si abbevera volentieri al latino, appaiono costanti più funzionali, come gli aggettivi che ritraggono il descrittivo al “morale” o soprattutto la frequenza dei participi, presenti e passati, che mimano il movimento o il suo esito bloccato»111); si troveranno coppie aggettivali o terne aggettivali che, a differenza delle prime,

sarebbero un «tentativo di adeguare via via con precisazioni e sfumature la descrizione al descritto, simili in questo alla più strutturata figura della correctio»;112 si osserverà l'uso dei deittici e del

ricorso a frasi nominali che, messe in rapporto alle frasi verbali, «funzionano anche da mise en relief e sollecitano senso dell'improvviso, sprezzatura o enfasi».113 Mengaldo analizza poi una

campionatura di esempi sinestetici che soprattutto tendono a dare una resa acustica/sonora della visione (dallo “strepitio” dei colori di Algarotti al colore come “science mélodieuse” di Baudelaire). La tendenza ad accentuare un certo soggettivismo, che si coglie nel frequente uso di esclamative o interrogative o nei numerosi appelli al lettore, viene letta da Mengaldo come una risposta alla necessità di istituire un legame forte con l'ascoltatore perché il discorso si imprima nella sua mente: anche se espressa in termini diversi, è di fatto la stessa “costellazione psichica” individuata dagli antichi. Se però dovessimo individuare i principi retorici imprescindibili, «le figure stilistiche regine dell'ékphrasis», dice sempre Mengaldo, esse «sono certamente l'elencazione/accumulazione e l'analogia».114 A differenza di Segre, che riconduce la questione dell'accumulo di oggetti in forma

scritta a una fruizione temporale dell'opera determinata dallo scorrere dello sguardo sulla sua superficie, Mengaldo scrive:

110Pier Vincenzo Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 18-19. 111Ivi, pp. 23-24.

112Ibidem. 113Ivi, p. 29. 114Ivi, p. 35.

Che l'elencazione, più o meno densa e precipitosa, sia un'assoluta necessità dell'ékphrasis, non occorre dire. Ma vanno indicate almeno un paio di implicazioni. La prima è che [...] la successione tra le frasi, o anche i sintagmi o i monoremi, è, con schiacciante prevalenza, quella intuitiva e veloce (ma anche «sospesa») dell'asindeto […]. Il legame asindetico può essere il sintomo di una espressività quasi affannosa indotta dalla serie di chocs emotivi (talora anche in negativo) che provoca lo scorrere l'opera lungo le sue parti, come per continue agnizioni; ma può essere anche, è da supporre, l'equivalente del fatto che nell'opera – e nella sua percezione – i dettagli non si dispongono in modo discreto, ma in una continuità agganciata e integrata. Anche l'arte figurativa non facit saltus. La seconda implicazione è un predicato della prima. A moderare l'elenco, affinché non si frantumi in accumulazione caotica, ma anche a martellarlo, interviene molto spesso l'anafora, o comunque la replicazione e il parallelismo: che d'altra parte, in quanto ripetizioni simmetriche dell'identico o del simile, alludono anche al comporsi in unità dei vari particolari.115

Mengaldo cioè riconosce l'accumulo non soltanto come qualità del discorso ecfrastico ma anche come proprietà dell'opera a cui il discorso si sta riferendo e si tratta di un punto importante per comprendere quelle retoriche che, come vedremo, sono le stesse immagini ad assumere.

Ai versi di “descrizione” dello scudo di Achille nel XVIII libro dell'Iliade, quasi l'ékphrasis per antonomasia, sono stati dedicati gli interventi di alcuni studiosi in un convegno napoletano116 a cui

si farà riferimento. La questione che qui verrà posta, che deriva ancora dal fondamentale confronto tra narrazione e descrizione, oscilla tra la posizione di Riccardo Di Donato che, riprendendo un suo scritto di qualche anno fa,117 difende il carattere epico della sezione descrittiva, riconoscendola

perfettamente inserita nel contesto narrativo del canto, e la posizione di altri studiosi, tra i quali Riccardo Palmisciano sembra avere avanzato le ipotesi più interessanti, ribadendo con una certa forza il carattere particolare, che si distacca dal continuum narrativo, di un testo di natura ecfrastica. Di Donato legge la sequenza dello scudo di Achille non tanto come una parte a sé del racconto di Omero, quanto come un passaggio coerente con i principi dell'epica e fonda la sua “visione di coerenza” sul fatto che esso mantiene attivo il processo narrativo: si tratta infatti della narrazione di un processo di creazione che porta le tre fondamentali caratteristiche di formularità, tradizionalità e oralità. Il racconto in fieri della creazione, stendendosi su uno sviluppo temporale, garantirebbe quindi la prosecuzione della narrazione anche in una porzione di testo che pure è sbilanciata in senso visivo:

L'epicità, il carattere preminentemente e radicatamente narrativo del racconto, consiste nel fatto che, nel XVIII dell'Iliade, la descrizione non riguarda semplicemente lo scudo e le immagini che contiene ma piuttosto la fabbricazione 115Ivi, p. 37.

116Si veda Riccardo Palmisciano, Matteo D'Acunto (a cura di), Lo Scudo di Achille. Esperienze ermeneutiche a confronto. Atti della Giornata di Studi, Napoli 12 maggio 2008, «AION (filol)» 31, 2009.

117Si veda Riccardo Di Donato, Omero: forme della narrazione e forme della realtà. Lo scudo di Achille, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, Torino, 1996, pp. 227-253.

dello stesso da parte del dio-fabbro, che entra, a propria volta, nella narrazione per la visita che gli reca Teti, secondo un meccanismo narrativo del tutto ordinario.

La marca narrativa dominante appare quindi rappresentata, nel seguito, dalla cadenzata ricorrenza delle azioni che Efesto compie, nel suo lavoro di fabbro, per fare, porre, ageminare, scolpire, intarsiare gli elementi di immagine che vengono a costituire, una dopo l’altra, l'insieme che la superficie dell'oggetto complessivo, lo scudo destinato alla panoplia di Achille, conterrà.118

In effetti, a ben guardare, quella che è diventata l'ékphrasis per eccellenza non si sta rapportando a un oggetto finito, ma a un oggetto nel suo farsi, che, a propria volta, compone con le parole. Già Lessing aveva notato questo aspetto dicendo che «Omero [...] non dipinge lo scudo come un qualcosa di perfettamente compiuto ma come qualcosa in divenire. Egli dunque si è valso anche qui del lodato artificio di trasformare gli elementi coesistenti del suo oggetto in elementi consecutivi, creando in tal modo dalla noiosa pittura di un corpo il vivido quadro di un'azione. Noi non vediamo lo scudo ma il divino artefice che lo foggia».119 La dimensione temporale si innesta forse su un

doppio livello: in primo luogo la parola conferisce all'immagine, animandola, quel movimento che si sviluppa nel tempo; in secondo luogo il discorso segue la pratica artigiana di Efesto che, con maestria e massima cura, sta forgiando le armi divine per il più valoroso eroe dell'epica greca. Palmisciano riconosce questi aspetti e, benché ipotizzi di poter parlare di una descrizione narrativizzata, pone una domanda che ci consente di proseguire con il discorso: perché ha comunque senso parlare di ékphrasis e non di narrazione? Dopo aver appurato la zona intermedia, tra narrazione e descrizione, in cui si posiziona l'ékphrasis, riusciamo a individuare la caratteristica imprescindibile della retorica ecfrastica all'interno di questo dominio?

Palmisciano osserva che, nella presentazione dello scudo di Achille, le scene ci vengono presentate