I. L'ÉKPHRASIS DALLA RETORICA ALLA SCENA
1.2. Un esercizio presso le scuole di retorica: il racconto della visione
Filostrato, lo si è detto, era esponente di quel movimento culturale e letterario, che metteva al centro l'interesse per lo stile e per l'eloquenza come fatti del sapere pubblico, a cui si dà il nome di Seconda Sofistica. La descrizione immaginaria di opere pittoriche era un esercizio delle scuole di retorica, motivo per cui alcuni studiosi hanno dubitato della reale esistenza della collezione napoletana descritta da Filostrato. In ogni caso, ciò che qui interessa ribadire è che l'ékphrasis viene definita come discorso sull'arte o, meglio, come descrizione di un'opera d'arte in seno alla Seconda Sofistica, ma in una fase piuttosto avanzata. Alle origini le cose stavano diversamente.
L'ékphrasis era un fenomeno retorico, una vera e propria pratica del discorso: si trattava della descrizione – ma si dirà immediatamente che l'espressione, per come viene intesa oggi, è impropria – di un oggetto, una situazione, una persona, di qualsiasi cosa insomma potesse essere posta dinnanzi allo sguardo.27 Soltanto in seguito il termine viene usato per definire descrizioni di opere o
oggetti artistici in contesti letterari. La complessa storia del genere si snoda tra la descrizione dello scudo di Achille nell'Iliade, le descrizioni degli arazzi di Minerva e Aracne nelle Metamorfosi di Ovidio, i bassorilievi osservati da Dante nei canti X e XII del Purgatorio, il passaggio del III libro dell'Africa petrarchesco,28 la celebre descrizione ecfrastica di un quadro di argomento troiano nel
Ratto di Lucrezia di Shakespeare, fino ad arrivare alle più recenti elaborazioni ecfrastiche tra le quali si potrebbero annoverare le numerose raccolte poetiche ispirate a opere d'arte.29
In più di duemila anni si sono scritte pagine e pagine dai contenuti ecfrastici e, in questo studio, si cercherà di recuperare la connotazione performativa dell'ékphrasis che riporta alle origini di quello che, oltre ad essere un fenomeno retorico, è diventato un genere letterario.
Un testo fondamentale per comprendere il contesto in cui nasce e si sviluppa la retorica ecfrastica è 27 Lo stesso termine ékphrasis, che pare non sia mai uscito dall'ambito della trattatistica in lingua greca, secondo K. Burdach e gli studiosi che ne hanno seguito e confermato le indicazioni (H. Brinkmann, E.R. Curtius tra gli altri), vede la luce nell'età della Seconda Sofistica. Per i riferimenti bibliografici a questo proposito, si veda Giovanni Ravenna, Per l'identità di ekphrasis, in «Phantasia: il pensiero per immagini degli antichi e dei moderni», atti del convegno internazionale, Trieste 28-30 aprile 2005, a cura di Lucio Crisante, Trieste, EUT, 2006, pp. 23-24.
28 Si veda E. Panofsky, Hercule à la croisée des chemins, Paris, Flammaion, 1999, pp. 25-29. Si veda anche E. Fenzi, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell'Africa di Petrarca, in «Studi petrarcheschi», Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 227-304.
29 Esempio celebre è la raccolta poetica di William Carlos Williams, Pictures from Brueghel and other Poems (1962) con cui l'autore vinse il Premio Pulitzer per la poesia. L'elenco potrebbe essere infinito, anche nella letteratura italiana contemporanea: da Antonella Anedda: La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Roma, Donzelli Editore, 2009, a Antonio Tabucchi, Racconti con Figure, Palermo, Sellerio, 2011.
il saggio di Ruth Webb, Ékphrasis, Imagination and Persuasion in Ancient Rethorical Theory and Practice, che prende come primo riferimento i Progymnasmata, una serie di indicazioni e di esercizi sottoposti nelle scuole di retorica. La più antica raccolta di questi esercizi preparatori arrivata fino ad oggi è quella di Elio Teone, databile al I secolo d.C., che, in apertura della sezione dedicata alla spiegazione dell'ékphrasis, scrive:
Ἔκϕρασίς ἐστί λόγος περιηγηματικός ἐναργῶς ὑπ' ὄψιν ἄγων τὸ δηλούμενον.30
La traduzione suona all'incirca: “L'ékphrasis è un discorso descrittivo (che conduce attorno a qualcosa – il verbo περιηγέομαι significa infatti condurre intorno per mostrare) che porta vividamente ciò che mostra sotto gli occhi [dell'ascoltatore].”31 Michel Patillon, nell'edizione critica
francese di riferimento, traduce: «La description est un discours qui présente en détail et met sous les yeux de façon évidente ce qu'il donne à connaître».32 L'aggettivo chiave, periegematikòs, viene
tradotto quindi con l'idea di una presentazione che scorre sui dettagli per rendere una realtà complessa.33
L'ékphrasis è definita in modo quasi identico negli altri tre trattati sui progymnàsmata giunti fino a noi: quello di Ermogene, databile probabilmente al II sec. d.C, quello di Aptonio del IV sec. d.C (Apht, XII, 1) e quello di Nicolao di Mira del V secolo d.C. A questi trattati di retorica si aggiungono poi le raccolte di modelli di esercizi, sequenze di veri e propri exempla su cui i giovani si sarebbero dovuti esercitare, di cui quella di Libiano, del IV sec. d.C., è certamente la più ampia. Sono queste le fonti da cui apprendiamo che l'ékphrasis doveva avere caratteristiche di “vividezza” e di forza espressiva tali (in questo senso viene usato l'avverbio εναργῶς), da coinvolgere empaticamente gli interlocutori a cui era rivolto il discorso che la conteneva:
The rhetoricians' discussions of ékphrasis, the type of writing that “places before the eyes”, tell us about the imaginative engagement that was expected. Young readers were encouraged not to approach texts as distanced artefacts with a purely critical eye, but to engage with them imaginatively, to think themselves into the scenes and to feel as if they were present at the death of Patroklos, the making of Shield of Achilles, or the Athenian disaster in Sicily during the Peloponnesian War.34
30 Aelius Theon, Progymnasmata, 118,6, texte établi et traduit par Michael Patillon, Paris, Les Belles Lettres, 1997. 31 Ponendo l'accento sull'aggettivo periegematikos, Dubel mostra come l'ékphrasis sia una forma descrittiva il cui
effetto non è tanto quello della percezione visiva immediata di un quadro, quanto quello appunto del percorso dello sguardo sull'opera. Un percorso che si fa discorso, la cui cifra fondamentale è il movimento in cui viene immessa la visione che esprime. Si veda: S. Dubel, Ekphrasis et enargeia: la description antique comme parcours, in C. Lévy, L. Pernot (a cura di), Dire l'évidence. Philosophie et rhétorique antiques, Paris, L'Harmattan, 1997, pp. 249-264. 32 A. Theon, op. cit., p. 66.
33 Sulle definizioni, le traduzioni latine del termine ékphrasis (che diventa descriptio) e i problemi di traduzione moderna, si veda: G. Ravenna, art. cit., pp. 21-30.
34 Ruth Webb, Ékphrasis, Imagination and Persuasion in Ancient Rethorical Theory and Practice, Burlington, Ashagate, 2009, p. 19. Un altro punto di riferimento per la trattazione del fenomeno è sicuramente un numero
Quella che in italiano traduciamo con “vividezza” diventa quindi caratteristica di un discorso descrittivo il cui valore aggiunto è dato dal carattere soggettivo e peculiare di ogni visione, dalla capacità immaginativa del retore di porsi in praesentia dell'oggetto descritto, per attrarre in quello spazio-tempo immaginario anche l'ascoltatore. L'ékphrasis, che nasce forse anche in forma scritta ma in vista di un'esecuzione orale e che, da Teone a Nicolao di Mira, pur non cambiando negli intenti, accoglie sotto la sua trattazione sempre più “argomenti”,35 è una forma del discorso che
potremmo definire come pratica d'uso del linguaggio immaginativo.36
La triangolazione che terremo presente, guardando alle origini dell'ékphrasis e poi immediatamente all'epoca moderna, si articola quindi nel rapporto immagine (per lo più dipinta o scolpita) – oralità – scrittura. Dal Fedro di Platone leggiamo:
Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, perché non è capace di difendersi né di aiutarsi da solo.37
Platone problematizza la dicotomia tra discorso orale e discorso scritto, a proposito della quale
monografico della rivista «Estetica» dedicato all'ékphrasis: i saggi in esso contenuti, che trattano l'argomento focalizzando sulle origini del fenomeno e sugli usi estetico-filofici nella Grecia antica, consentono di mettere a fuoco origini e caratteristiche dell'ékphrasis con approfondimenti di estremo interesse. Si veda: «Estetica. Studi e ricerche», rivista semetrale, 1/2013.
35 Francesco De Martino, a proposito della progressiva accoglienza di temi negli elenchi forniti dai progymnasmata scrive: «Elio Teone (Progymnasmata X, pp. 66-69 Patillon-Bolognesi) individua quattro repertori principali (persone, fatti, luoghi e tempi) […]. Ermogene (Progymnasmata X, pp. 22-23 Rabe) aggiunge i kairoi, “occasioni”, “eventi” (pace, guerra), un termine usato da Teone per la “notte”. Aftonio (Progymnasmata XII, RhG X, pp. 36-41 Rabe) aggiunge animali e piante, precisa in che ordine descrivere le persone “dalle parti iniziali alle finali, dalla testa ai piedi” e chiama “composte” le ékphraseis miste di Teone. Nel V sec. Nicolao di Mira (Progimnasmi, X, RhG XI, pp. 67-71, Felten) aggiunge “statue e pitture” - incluse le “motivazioni”, le “sensazioni” (collera, serenità, ecc.) dell'artista e soprattutto i “festival”». Si veda Francesco De Martino, art. cit., pp. 11-12.
36 La voce, immettendole nel flusso temporale di un discorso, riproduce immagini (mentali o reali) con le parole: l'immagine si duplica nel medium vocale, rispecchiandosi in esso e, allo stesso tempo, trasformandosi in qualcosa d'altro. È in questo senso suggestiva la falsa etimologia che Isidoro da Siviglia segue per spiegare il termine icon, attraverso la quale parola e immagine sembrano essere generate dalla stessa fonte. Isidoro, infatti, interpretando il greco ἡχώ, eco (dal verbo ἡχεῖν, 'risuonare'), come se fosse εἱκών, immagine, scrive: «Icon saxum est, qui humanae vocis sonum captans, etiam verba loquentium imitatur: icon autem Graece, Latine imago vocatur, eo quod ad vocem repondens alieni efficitur imago sermonis; licet hoc quidem et locorum natura evenit ac plerumque convallium». (Etymologiae, XVI, III, 4). L'idea dunque che la voce greca icon corrisponda in latino alla parola imago (come per altro Isidoro dichiara in un altro passo delle Etymologiae, I, XXXVII, 32) perché la voce era in grado di trasmettere una realtà riflessa in forma di immagine, ci porterebbe a pensare che si tratti di una falsa etimologia fondata sul principio cardine dell'ékphrasis.
mette in bocca a Socrate, sotto forma dell'aneddoto egizio di Theuth e Thamus,38 un elogio diretto al
primo polo: il discorso scritto, come la pittura, è una forma immobile incapace di competere con la persuasività del discorso orale, vivente e animato. Nella condanna platonica a forme che riproducono, sempre inadeguatamente, esseri altrimenti “veri” (come può essere vero per Platone un discorso vivente e animato, di cui la forma scritta non è che l'immagine), si legge già la problematica questione del rapporto verità-finzione che l'ékphrasis solleva, a cui si accennerà in seguito. Dando credito al passo platonico diremo comunque che il realismo di pittura e scrittura sembra subire un arresto dinnanzi alla mancanza di una voce che, sola, sarebbe capace di vivificare qualsiasi manufatto o operazione artistica.39 In questo senso Platone sostiene che soltanto la
comunicazione orale è realmente efficace nello sviluppo della conoscenza e che soltanto nell'oralità risiede la possibilità di penetrare l'anima di chi ascolta.
Il termine ékphrasis deriva dal greco ek-phrazein,40 dove ek è rafforzativo del verbo phrazein, a
proposito del quale, in uno studio piuttosto celebre sulla lettura nella Grecia antica, si legge:
Contrariamente a quel che potremmo pensare – a causa forse di derivati moderni come «frase» e «fraseologia», intesi in senso fonocentrico –, phrazein non denota l'atto enunciativo nella sua sonorità. Non si estende alla manifestazione acustica del dire. Come precisa Aristarco, il grande filologo alessandrino, nei poemi omerici phrazein non è mai sinonimo di eipèin, «parlare». E non è neppure l'equivalente di logein, «dire», nel greco postomerico. L'etimologia di phrazei, che ha un legame di parentela con phren, «pensiero», sembra escludere un tale significato, incompatibile con il carattere silenzioso dell'attività mentale. Perciò la Suda lo dà come sinonimo di semainein, «significare», e di deloùn, «mostrare». Naturalmente, è possibile phrazein, mostrare, qualcosa in un enunciato orale, ma in tal caso l'accento non è posto sul carattere sonoro del messaggio. […] Tale carattere non acustico di phrazein salta agli occhi nell'espressione antì phonès cheirì phrazein, «mostrare qualcosa con la mano al posto della voce» o piuttosto «mostrare con i gesti, laddove non è possibile far uso della voce». […] Phrazein, al pari di semainein è adatto a designare quel che i segni scritti suggeriscono.41
38 L'aneddoto egizio racconta l'incontro tra Theuth (dio che aveva scoperto i numeri, il calcolo, la geometria, il gioco del tavoliere e dei dadi e infine la scrittura) e Thamus (al tempo re di tutto l'Egitto). Theuth andò da Thamus e, dopo avergli mostrato le sue arti, disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi; il dio spiegava al re l'utilità di ognuna di quelle arti e il re disapprovava o lodava. Quando presentò la scrittura come somma conoscenza capace di rendere gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, il re rispose in questo modo: «[...] Essendo tu padre della scrittura, per affetto tu hai detto proprio il contrario di ciò che essa vale. La scoperta della scrittura, infatti, avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque tu hai trovato non il farmaco della memoria ma del richiamare la memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con loro, perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti». Platone, Fedro, 275 a-b.
39 Su questo tema si segnala un articolo estremamente interessante: Lucia Floridi, Il realismo dell'arte e il paradosso del retore muto, in «Prometeus», 39, 2013, pp. 87-106. L'articolo, a partire dall'analisi stilistico-retorica di tre epigrammi di natura ecfrastica dedicati a un retore non particolarmente abile, recupera il senso del limite del visivo rispetto alla parola così come esso veniva certamente percepito nel clima culturale della Seconda Sofistica.
40 Per una ricostruzione etimologica del termine si veda anche Francesco De Martino, art. cit., pp. 9-22.
41 Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica, Bari, Laterza, 1991, p. 16. Il saggio, approfondendo il senso della lettura ad alta voce nella Grecia antica, offre spunti d'analisi interessanti anche per capire la differenza che
Che si tratti di mostrare con i gesti o con la voce, l'ékphrasis allude a un contesto creativo vivificante e animante e l'etimologia nasce in una cultura oculocentrica com'era quella greca e da cui la nostra deriva. Le retoriche dell'ékphrasis assumevano significato per la componente di coinvolgimento dell'ascoltatore nel momento in cui erano implicate dal discorso letto ad alta voce (o “performato”); l'impatto sull'ascoltatore è l'elemento determinante e le cose cambiano quando la scrittura diventa medium non più per un'esposizione orale, ma per la lettura silenziosa: nel momento in cui l'ascoltatore diventa lettore silenzioso, mutano anche le caratteristiche del discorso ecfrastico. Ne La lettera che muore. La letteratura nel reticolo mediale, Gabriele Frasca percorre la questione del supporto mediatico come elemento determinante per un mutamento delle forme comunicative dell'informazione non genetica: dall'oralità alla scrittura, dalla lettura ad alta voce alla lettura silenziosa, dai media cartacei a quelli “elettrici”. Il libro è, a ben guardare, anche un saggio sulla teoria della voce (e quindi della performance vocale e quindi del teatro) nella sua evoluzione attraverso i diversi media in cui viene incanalata:
I mutamenti di tali supporti mediali comportano sempre un certo disequilibrio nella società che li assume: «se l'”alfabetico” Platone rimproverava alla cultura orale degli aedi di allogarsi nella mente dell'uditorio entusiasta come un processo di parassitosi, e l'“inviato” Paolo, al contrario, con le pratiche di ascolto dell'epistola si prefiggeva di risvegliare gli “automi” della “lettera che muore”, i detrattori della stampa (della diffusione “popolare” e non “ragionata” della lettura) in pieno XVI secolo non mancarono, come ricorda Chartier, di definire la lettura silenziosa che si associò da subito alla diffusione del libro come una sorta di istupidimento da intensificazione della vigilanza, con formulazioni che non possono che ricordare fin troppo da vicino quelle utilizzate dai “moralisti” della cultura tipografica in scadenza all'apparire del “brusio interiore” imposto dalle voci dei media elettrici. 42
Per tornare ancora un momento a Platone, non bisogna dimenticare come la sua condanna ai danni della poesia, nel X libro della Repubblica, sia una condanna della poesia, diffusa per via orale, come mezzo di trasmissione del sapere e di educazione del popolo.43 Se ripensiamo al passaggio del
Fedro riportato poco sopra, diremmo di trovarci dinnanzi a un'enorme contraddizione: come può Platone ad un tempo condannare la scrittura e presentarla come unica forma di accesso alla conoscenza filosofica? La scrittura condannata nel Fedro e quella elogiata nella Repubblica non possono essere evidentemente la stessa cosa. Ma facciamo un passo indietro. Nelle pratiche di insegnamento affidate dalla cultura orale al canto e all'aedo, lo sviluppo di una memoria collettiva e
intercorre tra il medium dell'oralità e quello della scrittura.
42 Gabriele Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Maltemi, 2005, p. 89.
43 Si tratta, come è noto, dell'interpretazione che Eric Havelock dà del X libro della Repubblica di Platone. Per lo studioso la condanna platonica alla poesia si estende a ogni forma di insegnamento della cultura orale, a favore invece della diffusione di una civiltà della scrittura che si stava sviluppando in seno all'Accademia. Si veda E. Havelock, Preface to Plato, Cambridge, Belknap press of Harvard University Press, 1963.
la trasmissione di significati passavano attraverso suoni e movimenti corporei:44 l'istruzione aveva a
che fare con il piacere fisico, lì dove la partecipazione entusiasta dell'uditorio assumeva la forma della riproduzione della materia tradizionale con tutto il corpo:
La partecipazione etimologicamente “entusiasta” (vale a dire di invasamento estatico) dell'uditorio che ascoltava, ripeteva, danzava e infine, assimilando porzioni di epos, “ricordava”, defluendo per così dire nella personalità dell'aedo che a sua volta si annullava nell'esecuzione, era una riproduzione della materia tradizionale (“letteratura”?) con tutto il corpo (labbra, polmoni, muscoli, nervi). La cultura orale, si potrebbe concludere, tramandava la necessaria informazione non genetica attraverso una sofisticatissima e apparentemente impalpabile macchina per il riposizionamento dei sensi, che avrebbe però finito con il modificare, tramite la memoria, il corpo stesso che si disponeva ad ospitarla. Nell'alone semantico della parola mìmesis (termine scelto non a caso da Platone nella Repubblica per contrassegnare sia la tecnica dell'aedo sia la «scomposta» e «sonnambolica» compartecipazione dell'uditorio) fluttuerebbe pertanto un significato ben lontano dall'innocuo concetto di “imitazione”: la mìmesis adombrerebbe piuttosto un processo di incorporazione.45
Platone condanna dunque l'utilizzo del medium performativo orale su cui si fonda una trasmissione della conoscenza per via emotiva ed entusiasta. Allo stesso tempo però, nel Fedro, condanna una scrittura immobile, semplice replica dei meccanismi ipnotici di ripetizione di formule, incapace di interagire con il suo lettore. Quale conclusione possiamo trarne? Ci aiuta ancora la riflessione di Frasca:
Il «corpo a corpo» performativo, su questo Platone non aveva dubbi, è sempre in grado di ottenere rapidamente, per quanto superficialmente una buona programmazione dell'uditorio, rispetto al lento procedimento maieutico con cui la superficie scritta, ma solo se si simula specchio, deve farsi ridire, per essere credibile, con la voce del lettore (che nel caso degli stessi dialoghi platonici dovrà ridare paradossalmente vita alla messa in scena di un apprendimento in fieri e “faccia a faccia”). Se è in nome del metodo filosofico affidato alla tecnologia dell'alfabeto che la Repubblica caccia i poeti filodossi dai confini immateriali dello stato ideale, ciò vuol dire una cosa sola: che la scrittura di cui parla Platone non è quella beffeggiata come sorda e stupida dal suo Socrate nel Fedro, ma una forma del tutto nuova di presenza di sé