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primo quarto del XIII secolo

legno scolpito, intagliato e dipinto, 193 × 39 × 43 cm

San Severino Marche (Macerata), Pinacoteca civica “Tacchi Venturi”

Restauri: Paolo Castellani, 1971; Nino Pieri, 1999

Provenienza: San Severino Marche, chiesa di Sant’Agostino La maestosa scultura è stata oggetto di

un importante restauro nel 1971 che ha permesso di liberarla dalle ridipinture e dalle aggiunte posticce (un’aureola, una corona e una parrucca di capelli veri) che ne avevano alterato l’aspetto nei secoli. Anche l’iconografia aveva subito una significativa variazione, e il Cristo, a buona evidenza un Deposto, era stato trasformato in un Crocifisso tramite l’aggiunta, in epoca moderna, di due braccia, eliminate nel corso di un nuovo intervento eseguito nel 1999. Nell’insieme, l’intaglio, ricavato da un unico tronco svuotato, si presenta oggi in larga parte privo della sua originale veste policroma; fa eccezione il perizo- ma, dove sono ancora visibili l’antica doratura che ne impreziosiva la super- ficie, degli elementi decorativi in rosso e delle tracce di blu nei risvolti. Nell’a- rea del capo, invece, risalta la mancanza di lavorazione della calotta, e la chioma appare ridotta a una striscia di capelli che cinge la testa e, ruotando dietro le orecchie, ricade sulle spalle: si potrebbe pensare a una precisa scelta finalizzata a ospitare sin dalle origini una corona (forse metallica) oggi perduta, anche se non è del tutto da escludere la possibi- lità che si tratti di una scalpellatura po- steriore (M. Marcucci, in Restauri 1973, pp. 50-51; M. Giannatiempo López, in

La cultura lignea 1999, pp. 38-39, cat. 5; B. Bruni, in La Deposizione lignea 2004, pp. 92-93; Fachechi 2004, pp. 463-465; F. Marcelli, in La Deposizione lignea 2004, pp. 91-92, cat. 3).

L’opera è giunta presso la Pinacote- ca Civica di San Severino Marche nel 1974 dalla chiesa cittadina dedicata a Sant’Agostino, dov’era oggetto di una grande venerazione da parte della po- polazione locale, confermata anche dal ricordo di diverse processioni che la ebbero come protagonista nel corso del XIX secolo (M. Giannatiempo López, in

La cultura lignea 1999, pp. 38-39, cat.

5). È stata ipotizzata una sua pertinen- za all’antica abbazia benedettina di San Lorenzo in Doliolo (M. Giannatiempo López, in La cultura lignea 1999, pp. 38-39, cat. 5); stando alle ricerche di Silvia Ballini, tuttavia, essa si trovava in origine nel duomo vecchio di San Severino (F. Marcelli, in La Deposizione

lignea 2004, p. 92 nota 1; Ballini 2008, p. 345 nota 20).

È tardivo l’ingresso del Deposto nella letteratura storico-artistica: risale solo al 1973, infatti, il contributo di Giudit- ta Alleva (in Restauri 1973, pp. 46-50, cat. 9) che lo rendeva noto, all’indoma- ni del restauro cui era stato sottoposto. Seguendo un consolidato orientamen- to critico che vedeva nella Deposizione della cattedrale di San Lorenzo a Tivoli l’archetipo di questa tipologia di scul- ture, era proprio con un riferimento a quel gruppo che la studiosa introdu- ceva la sua valutazione dell’intaglio. Da quel confronto, tuttavia, emergeva- no soprattutto delle differenze che la portavano, giustamente, a notare nel nostro Cristo una certa autonomia ri- spetto al prestigioso modello tiburtino. Notando l’affiorare di una “animazione gotica”, lo giudicava quindi opera di un maestro umbro-marchigiano non im- mune da influssi francesi e attivo nella seconda metà del Duecento. Tali indica- zioni furono poi riprese anche da Ange- lo Antonio Bittarelli (1986, p. 105) e da Marina Massa (1993, p. 189), quest’ul- tima propensa a collocare l’intaglio at- torno alla metà del secolo. Successiva- mente, Maria Giannatiempo López (in

La cultura lignea 1999, pp. 38-39, cat. 5), discutendone per la mostra dedicata alla produzione lignea nelle valli del Po- tenza e dell’Esino, rilevava dei “presen- timenti gotici” nella resa anatomica ed espressiva che la portavano a spingerne la datazione in avanti, nell’ultimo quar- to del Duecento. Le considerazioni sul- la cronologia della scultura conobbero

un deciso cambio di rotta di lì a poco. Luca Mor (1999, pp. 111, 116 nota 28), concorde nel rilevare influssi francesi, la datava infatti “poco dopo il primo quarto del XIII secolo” e individuava “un riscontro stilistico di una certa ri- levanza” nella Sedes Sapientae della chiesa di Santa Maria Assunta di Cesi (per la quale si vedano: S. Nardicchi, in Iacopone da Todi 2006, pp. 144-145, cat. V.8; Curzi 2011, pp. 30-31). Per Fa- bio Marcelli (in La Deposizione lignea 2004, pp. 91-92, cat. 3), invece, essa era collocabile nel secondo quarto o “entro i primi anni della seconda metà” del Duecento, e andava messa in rapporto con l’operato dei pittori spoletini della prima metà del secolo. In particolare, Marcelli proponeva un confronto con la croce firmata da “Petrus Pictor” un tempo a Campi di Norcia (cat. 23), per la quale accettava la datazione al 1242 – ribadita di recente anche da Emanuele Zappasodi (2016, p. 70) – diversamente da quanti tendono a sciogliere la pro- blematica iscrizione in 1211 o 1212. Tra le oscillanti cronologie sin qui proposte, è quella primo-duecentesca (sostenuta di recente anche da Ballini 2008, p. 341) ad apparire più convin- cente e utile a dare conto dell’idioma della grandiosa immagine lignea in esame. In essa risulta mirabile la co- struzione della figura, inclinata in avanti ed estremamente potente nel suggerire un senso di profondo abban- dono al sonno della morte. Nel tratta- mento della superficie lignea colpisce una certa asperità dell’intaglio – con un effetto accentuato dalla mancanza di policromia – che infonde vita all’o- stentata scansione della muscolatura dell’addome così come allo straordina- rio disegno del perizoma, increspato da un sistema di pieghe spigolosissime e appiattite. Questi elementi paiono svi- luppare formule e modi diffusi attorno all’anno 1200, con una sensibilità che

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celebre Madonna col Bambino di prete Martino oggi a Berlino, datata 1199, che costituisce un imprescindibile “punto fermo” per la scansione temporale di opere risalenti a epoche tanto lontane e così poco documentate. È tuttavia reale la difficoltà – più volte segnalata dalla critica (Fachechi 2001, pp. 30-31, Fache- chi 2004, pp. 463-465) – di trovare dei precisi raffronti per il Deposto settem- pedano. E se in territorio marchigiano si potrà valutare, quale ulteriore ante- fatto e in virtù di una certa assonanza riscontrabile nelle soluzioni delle fisio- nomie e dei panneggi, il Cristo tunicato di Force (sull’opera: A. Marchi, in Sacri

legni 2006, pp. 51-53, cat.1; per una da- tazione alla fine del XII secolo si veda cat. 7), la nostra scultura potrà apparire un po’ meno isolata guardando all’Um- bria e accogliendo le proposte avanzate da Alessandro Delpriori in questa sede. Collocando dunque il nostro Redentore agli inizi del Duecento – e in accordo con la lettura interpretativa già antici- pata da Grazia Maria Fachechi (2001, pp. 30-31; Fachechi 2004, pp. 463-465) – lo si potrebbe pensare elaborato, se non addirittura in anticipo, quantome- no in parallelo ai più antichi esempi ricollegabili dall’atelier cui spettano il gruppo di Tivoli o la croce del 1236 un tempo a Roncione (e oggi alla Gal- leria Nazionale dell’Umbria di Perugia: Garibaldi 2015, pp. 515-518, cat.198), e rispondente dunque a diversi, ma non meno nobili, ideali figurativi.

Bibliografia: G. Alleva, in Restauri 1973, pp. 46-50, cat. 9; M. Marcucci, in Restauri 1973, pp. 50-51; Bit- tarelli 1986, p. 105; Massa 1993, p. 189; Mor 1999, pp. 111, 116 nota 28; M. Giannatiempo López, in La

cultura lignea 1999, pp. 38-39, cat. 5; Fachechi 2001, pp. 21, 27-28, 30-31, tav. XXII; B. Bruni, in La De-

posizione lignea 2004, pp. 92-93; Fachechi 2004, pp. 463-465; F. Marcelli, in La Deposizione lignea 2004, pp. 91-92, cat. 3; Ballini 2008, pp. 341, 345 nota 20.

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Scultore umbro dell’inizio del XIII secolo