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1187-1190

tempera su pergamena incollata su tavola, 32 × 35,5 cm Milano, Pinacoteca di Brera

Provenienza: Milano, collezione Lamberto Vitali

La tavola è quanto resta di una Maestà a figura intera, dipinta su assi a venatu- ra verticale e poi incamottate con per- gamena argentata. Ne fa fede il retro di questo dipinto in cui si vedono i segni dell’ascia a levigare la parte alta e la zona che doveva aderire all’asse princi- pale, invece, a legno nudo.

Il dipinto fu comprato da Lamberto Vitali prima del 1971 (A. Monciatti, in Brera mai vista 2005, p. 9), ma pub- blicato solo da Filippo Todini nel 1989 con l’attribuzione ad Alberto Sotio. Nel 2005 la Pinacoteca di Brera ha provve- duto a un approfondito restauro che ha anticipato una mostra della serie Brera

mai vista, che ha rivelato una tecnica esecutiva assai raffinata. La pergamena è elegantemente incisa nei contorni del volto e nelle circonferenze dei bolli che decorano il grande nimbo; il disegno è steso con il nero puro nei contorni e lo stesso pigmento è usato per la cornice decorata che gira tutto attorno alla cir- conferenza dell’aureola.

Il supporto, la pergamena in origine ar- gentata, rende la pittura chiusa e molto unita e permette velature sovrapposte che rendono la figura di qualità davve- ro impressionante. Il bianco e il rosso si rincorrono a sottolineare i partimenti fisionomici pur, programmaticamente, a non sbalzare mai l’immagine. È la caratteristica più forte e identitaria della pittura spoletina, la linearità delle forme e l’aggressione della superficie, un’attenzione più verso il decorativi- smo e il dettaglio che dell’immagine

generale e delle dimensioni. Anche que- sta testa ha proprio quei dettagli, la co- rona decorata con alloggiamenti per gemme preziose (perdute, forse cristalli di rocca?) ha anche un motivo a perline che tripartisce lo spazio; i capelli sono tenuti stretti da un nastro incrociato che scende poi verso le spalle e risalta sulla camicia bianca di cui si vedono i lembi sul collo. Il maphorion rosso e ricamato di bianco doveva cadere sulle spalle, ma è tenuto sulla testa, anch’es- so, dalla corona.

Non abbiamo notizie della provenien- za di questa tavola, già sul mercato alla metà del Novecento e prima sco- nosciuta alla critica, ma ultimamen- te Serena Romano ha proposto una soluzione che, in effetti, ha una sua suggestione. La studiosa sottolinea la sensibile vicinanza di questa tavo- la alla croce del 1187 ora in duomo a Spoleto, ma in origine nella chiesa di San Giovanni e Paolo (per un’idea di- versa, che vede la provenienza antica dall’altare del duomo di Spoleto, Utari 2013, pp. 178-179). Sulla scorta di que- sto la Romano ipotizza la provenienza anche di questa dalla stessa chiesa che, quindi, doveva avere un sistema di ta- vole frutto di una medesima commis- sione. Eventualità che in Umbria non è affatto rara nel Duecento e che pote- va avere un suo antecedente nel secolo precedente.

Tutto il catalogo di Sotio si appoggia alla croce di Spoleto e a quella data, 1187, che è da sempre considerata la

genesi della pittura spoletina. In realtà il pittore ha un suo sviluppo anche nei decenni successivi, come per l’affresco col Martirio di san Tommaso Becket nella medesima chiesa di San Gio- vanni e Paolo, che ha delle ingenuità disegnative che forse presuppongono l’interferenza di qualche allievo; negli anni novanta dovrebbe cadere anche la Madonna di Ambro che va assegna- ta senz’altro al nostro pittore, un’attri- buzione che si sostanzia attraverso il confronto di quel volto con quello della Vergine di Brera, ma che ha soluzioni più evolute nell’ombreggiatura che fan- no pensare a una datazione, appunto, più bassa.

Servirebbe ancora uno studio sistema- tico di tutto il materiale della pittura spoletina del XII secolo, anche perché una personalità alta come quella di So- tio non può essere né isolata, né spie- gata solo con influssi allogeni. Vanno allora chiariti i rapporti con gli autori delle croci di Vallo, di Roccatamburo e del Museo della Rocca, con il ciclo di San Pietro in Valle a Ferentillo e con la coeva miniatura, anche per capire in maniera definitiva come sia giunta, anche a Spoleto e mi verrebbe da dire, soprattutto a Spoleto, l’onda della cul- tura figurativa tardo-comnena.

Bibliografia: Todini 1989, I, p. 17; Un milanese 2001, cat. 52, p. 89; A. Monciatti, in Brera mai vista 2005, p. 9; Romano 2012, p. 178; Carini 2012.

164 Petrus

23. Croce dipinta

1212 (?) tempera su tavola, 130 × 148 cm Iscrizioni: [m]ccx[ii] petru[s] [p]i[c]t[or]

Spoleto (Perugia), Museo Diocesano

Provenienza: Norcia (Perugia), Museo della Castellina La croce proviene dall’antico monaste-

ro benedettino di San Biagio di Campi, nel comune di Norcia, al centro della Valcastoriana, dopo la forra di Ancara- no, lungo la strada che va verso Preci, la Valle Oblita e poi la Valnerina mar- chigiana. Probabilmente a causa dello stato di abbandono del monastero (S. Nardicchi, in Iacopone 2006, p. 142), il dipinto fu spostato nella chiesa di San Salvatore da dove fu prelevata dopo il terremoto del 1979 per entrare nella collezione del Museo della Castellina di Norcia. A seguito del sisma del 2016, la croce è stata ricoverata al Museo Dioce- sano di Spoleto.

Cristo ha gli occhi chiusi e la testa recli- nata sulla spalla, le braccia allungate e i piedi inchiodati a un solo chiodo sul suppedaneo. Ai lati, nei potenziamenti delle braccia i mezzi busti dei dolenti, a sinistra sono la Vergine e a destra Giovanni evangelista. Il braccio supe- riore della croce è stato tagliato, chissà quando, probabilmente per far entrare il dipinto in una collocazione diversa da quella originale. Il fondo, ora ocra, doveva essere tutto d’argento, mentre l’aureola è dorata e crucisegnata con un’elegante puntinatura, negli spazi ri- sparmiati da tale decorazione si vedono quattro bolli a rilievo, nella più classica tradizione locale.

La croce è azzurra, virata in nero, ma i bordi, segnati di rosso sono costruiti accennando la terza dimensione dello spessore, sottolineato ai lati dai segni bianchi degli spigoli. In basso una fa- scia a palmette corre tutto intorno al legno e, nello stretto tabellone centra- le, ci sono due bande verticali decorate con un intreccio geometrico La croce è da tempo al centro di un dibattito piut- tosto acceso sulla datazione. In calce, infatti, si leggono molto bene le lettere CC che sono le centinaia del secolo, una X e poi una lacuna lascia capire che ci

sono due II, ma che potrebbero essere anche una L e una I. In sostanza si di- scute se sia 1212 (o magari 13) e 1241 (o anche 42). La controversia non è fine solo alla cronologia interna al pittore o, più in generale, alla cultura figurativa a Spoleto e dintorni, ma assume un ca- rattere assai più importante per l’icono- grafia del Cristo, già sofferente, se non morto, a una data (se fosse confermata quella più alta) in cui non era stata an- cora dipinta la croce di Giunta per la basilica di Assisi che era datata 1236. La Sandberg Vavalà, al momento di rendere noto il dipinto (Sandberg Va- valà 1926-1927, pp. 764-766; 1929, pp. 732-733) propendeva per una datazio- ne al 1241 seguita poi da gran parte del- la critica successiva (per il sunto si veda Utari 2013, pp. 181-182, nota 27, che ac- cetta, invece la datazione più alta). Il dibattito è stato recentemente ripre- so criticamente da Emanuele Zappaso- di (Zappasodi 2016, p. 70 e p. 95, nota 9, che ringrazio per le utili discussioni che abbiamo avuto su questo tema) che liquida, fin troppo tranchant, la data- zione più alta e restituisce la croce agli anni quaranta del Duecento, facendo leva sull’impossibilità di una prece- denza iconografica di questa rispetto a quella di Giunta Pisano, anche e so- prattutto per la presenza dei tre chiodi, invece dei soliti quattro.

È vero che l’iconografia del Triumphans in Valnerina e nello spoletino ha una persistenza assai più longeva che in al- tre parti d’Italia e quindi verrebbe da pensare che sia una terra poco avvezza alle novità e allo sperimentalismo; in realtà è l’esatto contrario. Moltissimi sono gli apax iconografici che si incon- trano percorrendo a ritroso il Nera, da Orte fino a Visso, che dimostrano pro- prio la libertà della provincia, la spe- rimentazione di soluzioni diverse per immagini e cicli decorativi che avevano

sempre l’obiettivo principale di parlare con lo spettatore e di stupirlo. In questo caso, l’arrivo di una miniatura dell’O- riente o di un’icona che aveva la già provata iconografia del Patiens poteva aver informato anche Petrus. Mi pare, infatti, che gli effetti di luce sulle vesti che discendono in maniera diretta dal- le prove di Alberto Sotio, non possono essere spostate di molto da una crono- logia all’inizio del secolo; il rosso pro- fondo del mantello della Madonna è lo stesso della croce del duomo di Spoleto e in generale tutto il tono dell’incarnato schiacciato in superficie è tipico della tradizione lineare spoletina già dalla metà del XII secolo. Se poi si allarga il discorso all’intero corpus del pittore (cfr. il mio saggio in catalogo) il rappor- to con Sotio appare ancora più stretto. Non solo, ma anche il fatto, singolare, è vero, dei tre chiodi invece dei soliti quattro, che sembra una novità a quelle date, è testimoniato altrove e già se ne era accorto De Francovich (De Franco- vich 1937, pp. 53-54) che pubblicava un gruppo di una Deposizione lignea a San Juan de las Abadesas in Spagna, proprio per metterlo in relazione ai tanti gruppi di Deposti in Italia centrale. Quelle scul- ture si possono datare all’inizio del XIII secolo, nello stesso momento del forte sperimentalismo di Petrus.

Per concludere, credo che si possa ac- cettare senza grossi patemi la datazione di questa tavola al 1212 con la consape- volezza di non poter usare modelli sto- riografici e conseguenti griglie stilisti- che di altre regioni (come ad esempio la Toscana) alla pittura e alla scultura tra Umbria e Marche.

Bibliografia: S. Nardicchi, in Iacopone 2006, cat. V.7 (con bibliografia precedente); Utari 2013, p. 181, nota 27; Zappasodi 2016, p. 70 e p. 95, nota 9.

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Rinaldetto di Ranuccio