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Critica ai progetti di riforma : problema di efficienza generale.

36 Art 2099 c.c – Retribuzione.

4.7 Critica ai progetti di riforma : problema di efficienza generale.

In tutti i progetti di riforma manca, a nostro avviso, una prospettiva che può sembrare semplicistica ma che potrebbe rivelarsi fondamentale. Come abbiamo già osservato, il contratto di lavoro include, per legge, una componente fiscale che può incidere in modo più o meno pesante sulla retribuzione netta.

Lo stato è quindi in realtà contraente nel contratto di lavoro tanto quanto il datore di lavoro e il lavoratore, con un peso che varia a seconda della parte di retribuzione che lo stato chiede indietro sotto forma di tasse e imposte (d’ora in poi tasse, dato che non si discute del presupposto da cui discende l’obbligo di pagamento, ma del fine ultimo di qualsiasi pagamento ovvero un corrispettivo). La parte della retribuzione che va in tasse, (ma in questo caso anche tutti gli altri balzelli che in vario modo incidono sul reddito) presuppone al di la di obblighi giuridici e amministrativi, l’aspettativa di un ritorno in vari termini : servizi, giustizia, scuola, sanità, trasporti e strade, sicurezza interna ed esterna, amministrazione beni pubblici, ecc...

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attese dallo stato italiano sono disattese. E’ storia di questi giorni il ritardo nei pagamenti alle imprese per i beni e i servizi già erogati e consegnati a stato, regioni, provincie e comuni. La domanda che, per quanto semplice non pare sia ancora presente come premessa imprescindibile nei vari progetti di riforma, è la seguente: Come si può pensare di fare affidamento sull’efficienza di un contratto che ha un contraente (lo stato) tanto inefficiente e inaffidabile? Le riforme del lavoro possibili dovrebbero essere pensate come ultimo stadio della riforma complessiva dello stato, proprio per evitare che ottimi progetti finiscano per essere resi inefficaci o, ancor peggio, diventare dei boomerang a causa della situazione generale del sistema in cui la riforma stessa si troverebbe ad operare. La riforma Biagi è forse l’esempio più lampante. Partendo dall’esigenza di rimettere in moto l’occupazione si sono creati posti di lavoro facendo diminuire la disoccupazione, ma senza creare ricchezza reale (Boeri parla di crescita dell’occupazione senza crescita economica). Il mercato del lavoro nazionale, con gli altri infiniti vincoli che andavano e vanno oltre il rapporto di lavoro, ha scaricato sul contraente più debole le inefficienze, creando la pluri-citata divisione tra lavoratori di serie A (a tempo indeterminato e garantiti) e di serie B (nuovi contratti), ma aggiungerei anche C (lavoro nero). Utilizzando delle similitudini potremmo dire che iniziare una qualsiasi riforma del lavoro nella situazione generale attuale, sarebbe come provare a far realizzare un piatto di alta cucina ad un grande chef utilizzando una vecchia cucina con fornelli che hanno perdite di gas e si spengono di continuo, e un forno difettoso con i fili elettrici scoperti. Chi scommetterebbe sul risultato ?

Oppure pensando l’organizzazione statale come ad un’automobile, il sistema, lavoro – impresa – produttività, può essere visto come il motore. Ma a cosa serve il motore di una Ferrari se tutto il resto è fatto di pezzi di vecchie utilitarie o fuoriserie desuete ?

126 Conclusioni.

Qual è il modo migliore per definire un sistema di incentivi che migliori la produttività in un’impresa ? Partendo dalla lezione di Coase e di Arrow, si potrebbe forse rispondere che sistemi di incentivazione efficienti, cioè capaci di innescare un meccanismo migliorativo del processo produttivo verso un aumento di profitto, più che il mezzo sono la prova dell’efficienza dell’impresa stessa.

L’azienda in cui si contratta, si varia e si propone e si aggiorna il sistema di incentivazione è sicuramente sulla via giusta dell’ottimizzazione di tutte quelle relazioni interne che la compongono. Le regole necessarie per rendere efficienti gli incentivi sono la comprensibilità e la misurabilità e la coerenza con il proprio sistema produttivo. Mescolare incentivi che hanno come base la misurazione della prestazione con altri che si fondano sulla valutazione soggettiva è spesso un buon sistema per bilanciare difficoltà di misurazione con l’osservazione diretta. Oltre ovviamente all’approccio basato sulla definizione di rischio, intensità, monitoraggio del modello di Milgrom e Roberts, non si possono escludere aspetti meno direttamente economici (per quando formalizzabili come ha dimostrato Amartya Sen), come l’etica e la corretta valutazione dei pesi rispetto alla retribuzione generale, dei singoli incentivi nei casi in cui si decida di utilizzare un pacchetto di provvedimenti. Mantenere ben chiari gli obbiettivi è poi fondamentale per non cadere, riportando la citazione di Gibbons (1998) del lavoro di Steven Kerr (1975), nella “follia di gratificare A mentre si spera in B”. Data la mutevolezza delle situazioni nel tempo è utile variare le proposte di incentivazione e testarne l’efficacia, tenendo ben presente la possibilità di innescare un effetto ratchet: per evitare questa controindicazione è fondamentale conoscere ed essere capaci di misurare e , in una certa misura prevedere, l’andamento del business.

L’aspetto di chiarezza comunicativa e di trasparenza etica è fondamentale perché qualsiasi azione incentivante sia credibile: nessuno si impegna per uno

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sforzo aggiuntivo se non si fida del datore di lavoro riguardo alla possibilità che questo impegno venga adeguatamente retribuito. Di qui la necessità di mantenere sempre aperto il flusso e lo scambio di informazioni sia attraverso attività di team working e team building, che attraverso lo stimolo della comunicazione dei problemi, ai vari livelli aziendali, con surveys e sondaggi (anche con garanzia di anonimato). Basilare è anche in questo caso la capacità di definire il costo del livello etico e il ritorno che ne deriva, in modo da poter quantificare la disponibilità di investimenti per le azioni correttive. In generale il criterio da adottare è quello della complementarietà e della coerenza.

L’atteggiamento del legislatore italiano verso la parte variabile della retribuzione legata alla produttività è sicuramente favorevole e positivo, soprattutto negli ultimi anni. Riprova ne è l’aumento della presenza di schemi di incentivazione nelle aziende italiane (medio grandi) che porta l’Italia a metà classifica tra i principali paesi europei (come evidenziato nel citato lavoro per il CEP della London School of Economics). Purtroppo è anche da registrare, come evidenziano alcuni commentatori, che spesso gli incentivi fiscali che hanno promosso la retribuzione di produttività hanno creato una sorta di comportamento opportunistico delle imprese che hanno sfruttato i benefici fiscali più per ridurre il cuneo fiscale sulle retribuzioni che per reali azioni incentivanti. La contraddizione tra incentivi fiscali e implementazione della retribuzione di produttività è lapalissiana. La retribuzione aggiuntiva che deriva dall’incentivo deriva da un accordo che deve migliorare l’efficienza del processo produttivo e quindi il profitto. Incentivare un impresa a fare più profitto dovrebbe suonare come un ossimoro, ma evidentemente è tale l’abitudine alla contraddizione che nessuno ci fa più caso.

Il comportamento delle imprese italiane non deve stupire. Come emerge dalle analisi dei principali progetti di innovazione del sistema lavoro (come il disegno di legge 1481 o la proposta del contratto unico a garanzia progressiva di Tito Boeri e Pietro Garibaldi), la legislazione italiana sul lavoro è caratterizzata da un eccesso normativo, che complica e rende difficile definire

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il campo di azione delle imprese. La centralità della contrattazione collettiva nazionale che livella situazioni ed esigenze locali spesso molto diverse le une dalle altre (soprattutto per un paese sostanzialmente diviso a metà dal punto di vista di infrastrutture e penetrazione industriale come l’Italia), la parzialità del sistema di welfare, la rigidità in uscita delle norme che regolano il contratto di lavoro (che hanno creato una dualità tra lavoratori iper garantiti e lavoratori condannati a una precarietà perenne ), sono oggetto di questi progetti che , con alcune differenze propongono il superamento di questo sistema: layering di contratti nuovi e vecchi, contratto unico a garanzie progressive , sistema di welfare basato su agenzie di riformazione e ricollocamento finanziate dalle aziende, ma soprattutto centralità della contrattazione di secondo livello e riforma dei sindacati sono alcune delle proposte inserite in questi dettagliati progetti.

L’idea che non sembra sufficientemente centrale è la tempistica di applicazione. L’inserimento di una qualsivoglia riforma nel sistema italiano deve, a nostro avviso, tenere conto, dell’efficienza generale del sistema stesso. Sentire parlare della creazione di una Agenzia per il ricollocamento e la gestione delle risorse a questo destinate non può lasciare indifferenti nel paese delle agenzie inutili, dei progetti arenati o realizzati a metà. In realtà , utilizzando la stessa impostazione degli economisti che hanno studiato, da Coase in poi, la struttura dell’impresa e il suo funzionamento, si può estendere il ragionamento dell’affidamento del rischio nella contrattazione al rapporto di lavoro. Nel contratto di lavoro lo stato entra come parte assicurativa, dato che trattiene una quota della retribuzione (e attraverso altre tasse, dirette e indirette, si appropria di un’altra quota), promettendo in cambio tutta una serie di servizi e tutele . In altri sistemi improntati ad una maggiore autonomia dei privati (come quello degli USA), tale quota è inferiore e lo stato lascia parzialmente all’autonomia privata la possibilità di definire in alcune di queste tutele. L’intervallo di retribuzione che rimane in ballo nella contrattazione tra datore di lavoro e lavoratore è quindi maggiore. Non a caso gli USA sono il paese in cui è più alta la penetrazione degli schemi di

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incentivazione.

Dallo studio del CEP presentato in precedenza, risulta però che anche alcuni paesi con alta tassazione e sistemi di welfare molto sviluppati come Finlandia e Svezia hanno un’alta penetrazione dei sistemi di incentivazione. Questi paesi garantiscono anche un alto ritorno in termini di servizi alla popolazione in cambio di queste tasse, ovvero, ritornando al nostro modello l’assicurato (cittadino – lavoratore) ottiene tutte le garanzie promesse in ragione del premio assicurativo (tasse). La ripartizione del rischio tra lavoratore e azienda è quindi ammortizzata dallo stato, per cui si può aumentare la quota di rischio destinabile ad una retribuzione variabile.

Pensare di aumentare la produttività agendo esclusivamente sulle norme del mondo del lavoro vuol dire perdere di vista questo meccanismo generale, molto semplice, ma che esiste al di là delle norme stesse. Per questo motivo è anche altamente probabile che ogni riforma delle regole sul lavoro si risolva in un fallimento o in un’impresa incompiuta, se prima non viene ristabilita l’efficienza generale dell’ordinamento in cui viene inserita.

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