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Critiche al modello “banca universale” Fallimenti di mercato e di regolazione Il rischio sistemico: “ too big to fail ”

1. La crisi economica del 2007-2008 (cenni)

1.1. Critiche al modello “banca universale” Fallimenti di mercato e di regolazione Il rischio sistemico: “ too big to fail ”

Le vicende appena descritte hanno chiaramente fatto sorgere la convinzione, in larga parte della dottrina e nell’opinione pubblica, che il sistema creditizio internazionale – e finanziario nel suo complesso – non avesse dato buona prova di sé e perciò meritasse di essere ripensato e riformato. Sono state avanzate critiche ai modelli organizzativi adottati dalle maggiori banche internazionali e sono state messe a nudo le carenze della regolamentazione prudenziale; si è cercato, inoltre, di sviluppare modelli alternativi alla banca universale33.

Provando a tirare le fila del complesso dibattito sulla crisi, si può cominciare con l’affermare che esso si è sviluppato attorno alla questione se si fosse in presenza di un market failure o di un regulatory failure: se, cioè, la crisi del 2007-2008 possa ascriversi alla categoria dei fallimenti di mercato, e dunque la sua causa sia rinvenibile nelle dinamiche e nei rapporti tra i soggetti che compongono il mercato; o se, invece, il fallimento sia imputabile agli apparati regolatori di matrice nazionale, internazionale e europea.

100 Appare preferibile la posizione di chi ha considerato la crisi come un fallimento “generalizzato: del mercato in quanto tale, ma anche delle regole, dei soggetti

regolati, dei regolatori”34. Fallimento del mercato, in primo luogo, inteso nella sua concezione neoclassica, e cioè efficiente, razionale ed in grado di correggere i propri squilibri interni senza la necessità dell’intervento pubblico. È significativo, d’altro canto, che i problemi di portata più ampia si siano originati, come si è visto, all’interno del sistema bancario ombra, e in particolar modo sui mercati OTC, ad opera di soggetti estranei a qualunque ambito di vigilanza. Come ebbe a dichiarare il Direttore generale della Banca d’Italia nel 2009, “l’idea che segmenti non regolamentati del mercato potessero favorire

l’innovazione finanziaria e aumentare le pressioni competitive e l’efficienza dei soggetti vigilati senza pregiudizio per la stabilità si è rivelata fallace”35. D’altronde, proprio questo argomento induce logicamente a concludere che si tratti anche di un

regulatory failure: più specificamente, di una mancata regolamentazione di

alcuni segmenti del mercato, nei quali è stato lasciato libero spazio all’arbitraggio delle imprese bancarie36. Inoltre, è stata da più parti segnalata la mancanza di coordinamento delle regole e tra i regolatori nazionali ed internazionali: a livello nazionale, occorre sottolineare che molti degli Stati

34 NIGRO, Crisi finanziaria, banche, derivati, in Dir. della banca e del mercato fin., n. 2, 2009, p. 13. Cfr.

inoltre ONADO, «Smoke gets in your eyes». L’innovazione finanziaria e l’informazione: storie di «fallimenti» del mercato e dei regolatori, cit., pp. 36-37.

35 SACCOMANNI, Le istituzioni dell’Unione Europea di fronte alla crisi, intervento presso la Scuola

Superiore della Pubblica Amministrazione, Roma, 19 gennaio 2009, pp. 1-2. (disponibile all’indirizzo: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-direttorio/int-dir-2009/).

36 Cfr. BARUCCI, MORINI, Cartolarizzazioni, che cosa non ha funzionato, in BARUCCI, MESSORI (a

101 coinvolti nella crisi (Italia e Stati Uniti non fanno eccezione) conoscono un apparato di vigilanza composto da una pluralità di istituzioni di pari grado, fra loro indipendenti, alle quali sono demandati i controlli sui rispettivi settori di competenza (si intende, in generale, quello creditizio, quello assicurativo e quello finanziario). Sebbene ad una di esse (tendenzialmente, la banca centrale) spetti la competenza sulla supervisione del sistema finanziario nel suo complesso, sovente si sono verificati casi di assenza di collaborazione inter-istituzionale37 che hanno contribuito a creare “zone d’ombra” nel tessuto normativo e regolamentare del settore. La vigilanza statunitense, per di più, ha vissuto gravi problemi di coordinamento tra il livello statale e quello federale: “il complesso dei regolatori di stato e federali si è rivelato un sistema disorganico

di supervisione, all’interno del quale nessuno [di essi] possedeva una chiara definizione delle proprie competenze”38. Si è potuto verificare, così, ad esempio, che alcune operazioni di cartolarizzazione si realizzassero al di fuori della vigilanza della Fed: tra il 2004 e il 2005 più della metà dei mutui subprime furono erogati da imprese sottoposte unicamente alla supervisione statale39.

Siffatte riflessioni hanno condotto parte della dottrina a rivalutare le proprie posizioni sull’efficienza del modello della banca universale: è stato avanzato il dubbio, cioè, se l’avvenuta despecializzazione dell’impresa

37 Cfr. SALERNO, Il Sistema di Regolamentazione Finanziaria Globale: potenziali scenari dopo la crisi

finanziaria internazionale, in Dir. banca mercato fin., n. 1, 2013, pp. 128-138.

38 BAILY, LITAN, JOHNSON, The Origins of the Financial Crisis, in KOLB (a cura di), Lessons from

the Financial Crisis, op. cit., p. 82.

102 bancaria fosse stata, ad un tempo, fallimento della regolazione e fallimento del mercato. Regulatory failure, in primo luogo, perché sono stati smantellati, nell’arco di due decenni, gli strumenti della vecchia vigilanza strutturale che consentivano un controllo più oculato sulla rispondenza delle scelte imprenditoriali delle banche a parametri di pubblica utilità, trasformando la banca in “un’impresa come tutte le altre”40 – cioè a dire dotata di piena libertà operativa. Market failure, in secondo luogo, a causa dell’interconnessione tra i soggetti del mercato e la loro dimensione, operativa e territoriale.

La banca universale è, per definizione, una banca di grandi dimensioni. Il modello operativo prescelto da un’impresa siffatta (lo si è visto nel paragrafo precedente) favorisce l’impiego dell’attivo societario nella negoziazione in conto proprio, a scopo speculativo – piuttosto che nel credito all’economia reale. La speculazione, poi, incoraggiando il moral hazard e l’adverse selection41, comporta un aumento del volume d’affari delle attività finanziarie ben più che proporzionale rispetto alle altre voci attive in bilancio42; l’impresa, inoltre, è spinta ad espandersi territorialmente, alla ricerca di nuove opportunità di profitto in nuove quote di mercato, meno “sature” e disciplinate meno attentamente – o non regolate affatto. Per

40 NIGRO, Crisi finanziaria, banche, derivati, cit., p. 14.

41 Si veda retro, § 1.

42 Un rapporto del Comitato Europeo per il Rischio Sistemico del 2014 segnalava che l’attivo delle

banche europee corrispondeva a più del triplo del Prodotto interno lordo dei paesi dell’Unione (con punte di oltre il quintuplo in Gran Bretagna); di esso, ben più della metà è impiegato in titoli mobiliari, contratti derivati e nel mercato interbancario. I bilanci delle prime venti banche europee per dimensione registrano attività per più di 23.000 miliardi di dollari. Cfr. EUROPEAN SYSTEMIC RISK BOARD, Is Europe Overbanked?, in ESRB Working Papers, n. 4, 2014, pp. 3 ss. (disponibile all’indirizzo: https://www.esrb.europa.eu/pub/series/working-papers/).

103 giunta, l’espansione in parola è ulteriormente perseguita, di frequente, tramite operazioni di concentrazione societaria – le quali, peraltro, sconfessano in parte la supposta vocazione concorrenziale del mercato creditizio così come disegnato dalla regolamentazione degli ultimi decenni43. La concentrazione, il sovrautilizzo del mercato OTC e dei derivati di credito, l’espansione del mercato interbancario, la creazione del sistema bancario ombra, in definitiva, sono stati tutti fattori determinanti nell’aumentare l’interconnessione tra i maggiori gruppi bancari, e tra loro e altri intermediari finanziari44.

Imprese così configurate sono state definite too big too fail (TBTF), intendendo, con ciò, che le loro dimensioni espongono non solo il mercato finanziario, ma l’intera economia globale a rischi sistemici. La nozione di rischio sistemico45 implica un rischio “aggregato” ben maggiore della mera somma algebrica dei rischi di impresa individualmente sopportati dagli operatori del mercato: l’interconnessione genera infatti un pericolo di “effetto a catena

43 Ibidem, pp. 5-7.

44 Cfr., tra gli altri, WILMARTH, While Financial Conglomerates Are at the Center of the Crisis, in KOLB,

Lessons from the Financial Crisis, op. cit., p. 407; FILOSA, MAROTTA, Stabilità finanziaria e crisi, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 260; CASTAGNA, FEDE, Measuring and Managing Liquidity Risk, Gran Bretagna, Wiley, 2013, pp. 33-45; per una azzeccata “previsione” sull’evoluzione del sistema finanziario globale, cfr. anche HEIMANN, Istituzioni nazionali, vigilanza globale e rischio sistemico, in Quaderno di Mon. cred., n. 3, 1998, pp. 192 ss.

45 Il rischio sistemico è stato efficacemente definito nel 1998 da Heimann come “il rischio di un evento

improvviso e inatteso che può danneggiare il sistema finanziario in misura tale che ne soffrirebbe anche l’economia reale. Per essere qualificati come sistemici, gli shock devono interessare e minacciare l’intero sistema finanziario, senza limitarsi a riguardarne una piccola parte. Possono avere origine all’interno o all’esterno del settore finanziario e possono manifestarsi con l’improvviso fallimento di uno dei principali partecipanti al sistema finanziario, con un guasto tecnologico in un punto critico dei sistemi di liquidazione e pagamento, o ancora con uno shock politico […]. Simili avvenimenti possono mandare in rovina il normale funzionamento dei mercati finanziari demolendo la fiducia reciproca che rende possibile la maggior parte delle transazioni finanziarie”. HEIMANN, Istituzioni nazionali, vigilanza globale e rischio sistemico, cit., pp. 189-190.

104 distruttivo”46 su tutti i soggetti del sistema, anche a partire da eventi di portata limitata rispetto alle dimensioni complessive dei mercati, come è infatti avvenuto con la crisi dei subprime – parte trascurabile (in termini quantitativi), a ben vedere, dell’intero comparto dell’intermediazione creditizia. Il Financial

Stability Board, nel 2011, ha efficacemente definito le Global Systemically Important Financial Institutions (G-SIFIs), ossia le imprese di rilevanza globale

maggiormente esposte al rischio sistemico, quali “istituzioni finanziarie che in

caso di difficoltà o di rovinosa caduta, a causa della loro dimensione, complessità e interconnessione sistemica, causerebbero un significativo sconvolgimento del più ampio sistema finanziario e dell’attività economica. Per evitare siffatta conseguenza, le autorità non hanno avuto altra scelta – troppo frequentemente – che quella di impedirne il fallimento e mantenerle solvibili attraverso l’uso di fondi pubblici. Come sottolineato dalla crisi in corso, ciò ha deleterie conseguenze per gli incentivi privati e per le pubbliche finanze”47. Le riflessioni della dottrina e dei regolatori, dunque, si sono soffermate sulle dimensioni delle banche. La questione della dimensione, tuttavia, è solo uno dei fattori del modello della banca universale, e nemmeno il principale, ad incidere sul rischio sistemico. Molte imprese sono “sistemicamente importanti” senza essere di grandi dimensioni: può contare, ad esempio, l’esposizione debitoria della banca nei confronti di altri intermediari – in altre

46 CASTAGNA, FEDE, Measuring and Managing Liquidity Risk, op. cit., p. 33.

47 FINANCIAL STABILITY BOARD, Policy Measures to Address Systemically Important Financial

Institutions, in FSB Policy Documents, 2011, p. 1. (disponibile all’indirizzo: http://www.fsb.org/publications/policy-documents/).

105 parole, il livello di leverage – o la quota di uno specifico settore del mercato in cui la banca è dominante, senza esserlo con riferimento al sistema nel suo complesso48. Più che la grandezza della banca, quindi, ne rileva l’importanza, nei termini ora descritti; ed è un dato di fatto che tale accresciuta importanza sistemica non solo sia stata consentita dalle regolamentazioni “pre-crisi”, ma addirittura favorita. Come si è già avuto modo di osservare nel precedente capitolo, invero, l’organizzazione polifunzionale dell’impresa bancaria è stata ritenuta perfettamente rispondente alla pretesa efficienza dei mercati, in quanto adatta a favorire una migliore allocazione delle risorse e, in ultima analisi, minori costi per i risparmiatori.

La regolamentazione prudenziale approntata a partire dagli anni Ottanta, tuttavia, se ha mostrato di comprendere che la deregolamentazione avrebbe avuto l’effetto di aumentare il “normale” rischio d’impresa dei soggetti del nuovo mercato, e perciò tali rischi dovevano essere contenuti tramite, soprattutto, requisiti minimi di capitalizzazione, ha trascurato le implicazioni macroeconomiche di quella scelta legislativa. Si intende dire, cioè, che gli Accordi di Basilea – e tutte le normative nazionali (e comunitarie) che ad essi hanno fatto riferimento – hanno sottovalutato il fattore “moltiplicatore” del rischio sistemico, “affrontando problemi di fragilità e di

instabilità sistemica solo in quanto la somma di banche più resilienti rende più forte il

48 Cfr. MCCLESKEY, When Free Markets Fail – Saving the Market When It Can’t Save Itself, Gran

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sistema complessivo”49. Nella determinazione dei livelli minimi di capitale “regolamentare”, infatti, sono stati utilizzati modelli di valutazione dei rischi (in particolare il cosiddetto Value at Risk – VaR) che, pur essendo estremamente complessi, mancano di tenere in considerazione i rischi diversi da quelli derivanti dal normale svolgimento dell’attività creditizia50. Nella formulazione originaria dei primi Accordi di Basilea, addirittura, erano calcolate soltanto le probabilità di perdita derivanti dal rischio di credito (ad esso era stato poi aggiunto il rischio di mercato nel 1996)51. In altre parole, il sistema di Basilea ha ignorato le conseguenze collettive di azioni individuali singolarmente razionali52.

Tornando alla questione dell’importanza sistemica della banca universale, appare dunque chiara la ratio sottesa agli interventi pubblici post- crisi di “salvataggio” delle imprese maggiormente in sofferenza: evitare, cioè, che il fallimento anche di un solo intermediario potesse ingenerare ricadute potenzialmente “epidemiche” su tutto il sistema, mettendo a repentaglio, in ultima analisi, il risparmio dei cittadini, il sistema dei pagamenti e il credito

49 TONVERONACHI, Distorsioni strutturali della regolamentazione prudenziale delle banche, in Mon. cred.,

n. 62, 2009, p. 103.

50 Ibidem, pp. 153 ss.

51 Per una pregevole sintesi dei principali difetti della valutazione del rischio e, più in generale, della

regolamentazione prudenziale introdotta con gli accordi di Basilea, si veda MASERA, Gli standard di capitale di Basilea: soluzione o concausa dei problemi di instabilità?, Relazione presentata alla Commissione Finanze della Camera dei Deputati, 1 Febbraio 2012, pp. 6-17. (disponibile all’indirizzo: http://www.leg16.camera.it/203/)

52 “In una fase di boom creditizio è naturale che le banche tendano a concedere mutui […]: ciascuna azienda non

intende perdere quote di mercato e trova inconcepibile rinunciare ad una fonte di profitto. Ma se quel mutuo, unito a moltissimi altri, alimenta una bolla immobiliare che poi precipita l’intera economia nella depressione, la questione diventa diversa e dovrebbe in qualche modo essere considerata. Il che è impossibile in un sistema che guarda al rischio dal punto di vista del singolo intermediario”. ONADO, Alla ricerca della banca perduta, op. cit., p. 155.

107 all’economia reale. Purtuttavia, anche con riguardo alle operazioni pubbliche di ricapitalizzazione delle banche e di assicurazione dei depositi, è stato segnalato un ulteriore elemento di instabilità del sistema. Al di là dei costi sociali di tali interventi53, è stato acutamente osservato che essi possono costituire un incentivo all’azzardo morale degli intermediari: secondo la teoria del moral hazard, invero, “se l’impresa [fa affidamento sul fatto] che le estreme

conseguenze negative – il suo fallimento e dissoluzione – non accadranno [grazie

all’intervento pubblico], la sua propensione al rischio aumenterà, in quanto essa è, in

realtà, mera propensione al profitto”54.

È evidente, quindi, che i profili problematici della questione non attengono solo alla struttura del mercato del credito e delle imprese che vi operano, ma anche al suo governo e alla sua supervisione. In ultima analisi, emerge un quadro complessivo – tutt’altro che rassicurante – all’interno del quale meritano un ripensamento tutti i fattori potenzialmente “acceleratori” e “moltiplicatori” dei rischi connessi all’attività creditizia. Essi, come si è detto, sono rinvenibili in egual misura nei modelli organizzativi dell’impresa, che tendono alla diversificazione e finanziarizzazione delle attività, e negli

53 “Per evitare il contagio che metterebbe a repentaglio non solo gran parte del sistema finanziario, ma avrebbe effetti

recessivi anche per l’economia reale, sinora si è proceduto al salvataggio, il quale ha pesato sulle pubbliche finanze aggravando a dismisura nel corso di questa crisi il peso dei debiti pubblici di molti paesi”. SARCINELLI, Come difendere la globalizzazione e salvaguardare il sistema dal contagio?, in Mon. cred., n. 65, 2012, p. 37.

54 MCCLESKEY, When Free Markets Fail, op. cit., p. 25. Tuttavia lo stesso autore segnala ibidem, pp.

26 ss., che tale teoria, sebbene astrattamente valida, al riscontro con la realtà degli ultimi anni si mostri meno efficace di ciò che si pensava, e che occorra focalizzare l’attenzione anche sulla condotta dei singoli amministratori delle imprese. Sul nesso tra azzardo morale e intervento pubblico, cfr. anche SARCINELLI, Come difendere la globalizzazione e salvaguardare il sistema dal contagio?, cit., pp. 36-39.

108 apparati regolatori che hanno consentito e favorito la diffusione di quei modelli. Conseguentemente, gli sforzi della dottrina e dei legislatori – nazionali e sovranazionali – si sono concentrati, nell’ultimo decennio, sulla correzione delle maggiori storture della regolamentazione, con riferimento, in particolare, alla mancata (o insufficiente) regimentazione dell’attività più spiccatamente finanziaria delle imprese.

Occorre sin d’ora sgombrare il campo, tuttavia, da un equivoco largamente diffuso nell’opinione pubblica – e, talvolta, financo in certa letteratura – che la banca universale sia stato il solo, o il principale, “centro di diffusione del contagio” della crisi del 2008. Numerosi studi, in effetti, hanno dimostrato che le maggiori perdite conseguenti alla crollo del mercato dei derivati, e i salvataggi pubblici che ne sono conseguiti, non si sono verificati, per lo meno negli Stati Uniti, in banche a vocazione universale55. Cionondimeno, la maggiore criticità della banca universale risulta essere proprio la predisposizione di quel modello, una volta verificatosi il rischio sistemico, al “contagio” di settori del credito che altrimenti ne resterebbero indenni – ci si riferisce, evidentemente, ai depositi dei risparmiatori. Il fatto che non vi siano state bank run di proporzioni paragonabili a quelle della crisi del ’29, non significa che ciò non possa accadere in futuro. Altri studi, d’altro canto, dimostrano che nel primo decennio degli anni Duemila – sebbene le

55 Cfr., ad es., STAIKOURAS, Universal Banks, Universal Crises? Disentangling Myths from Realities in

Quest of a New Regulatory and Supervisory Landscape, in Journal of Corporate Law Studies, n. 1, 2011, pp. 150-151.

109 perdite maggiori, come detto, si siano verificate prevalentemente in imprese specializzate – sono state proprio le banche universali a sopportare i più alti rischi di tipo sistemico56. Inoltre, come è evidente, sono le banche di maggiori dimensioni che, per essere salvate dal fallimento, minacciano i più alti costi sociali.

In ultima analisi, quindi, il punto focale della questione resta l’esigenza di tenere indenne la collettività dagli intrinseci fattori di instabilità del sistema finanziario. Riprendendo le parole di Stiglitz, “più grandi le banche e maggiore

l’assunzione di rischi ad esse permessa, più forte è la minaccia alle nostre economie e alle nostre società. […] Piùlimitiamo la dimensione [delle banche], più rilassati possiamo essere su […] altri aspetti della regolazione”57.

Nelle prossime pagine, dunque, sarà effettuata una panoramica degli interventi legislativi, messi in pratica tra Stati Uniti ed Europa negli ultimi dieci anni, volti a ripristinare, almeno parzialmente, forme di specializzazione dell’attività bancaria dirette a contenere le dimensioni dei gruppi bancari e, conseguentemente, il loro rischio sistemico.