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La situazione italiana: proposte di legge della XVII Legislatura La panoramica fin qui svolta sugli interventi di riforma – riusciti, tentat

o mancati – della regolamentazione dell’attività bancaria non può che concludersi con uno sguardo al nostro Paese. Le vicende italiane, a dire il vero, paiono contrassegnate da alcune particolarità, nel modo in cui si sono

132 Ibidem, Art. 121. Segnatamente, la banca ha l’onere di dimostrare all’Autorità di vigilanza che tali

attività sono da considerarsi “necessarie allo svolgimento della sua attività di intermediario”. Esse, in ogni caso, non possono eccedere il 15% delle attività totali in bilancio e il 10% del capitale complessivo della società.

135 sviluppate, che le tengono in qualche modo distinte dal contesto internazionale, nel quale pure si sono svolte. Con ciò si intende che la crisi delle banche italiane, pur essendosi manifestata nel più ampio scenario della crisi economica globale, presenta caratteristiche da esso indipendenti e che coinvolgono fattori di instabilità insiti nella struttura del nostro sistema creditizio. Prima di passare in rassegna i progetti di legge della XVII Legislatura – nessuno dei quali ha avuto sèguito – che introducevano forme di separazione tra la banca commerciale e la banca di investimento, dunque, occorre ripercorrere, per sommi capi, la storia recente delle banche italiane.

Paradossalmente, il maggiore elemento di debolezza del nostro sistema, rappresentato dallo scarso volume dell’intermediazione finanziaria, ha funto parzialmente da “schermo protettivo”, in una primissima fase, contro il propagarsi della crisi mondiale134. Come è noto, la tendenza alla “finanziarizzazione” e diversificazione del risparmio delle famiglie italiane – unitamente alla propensione all’indebitamento – è, storicamente, inferiore alle medie dei maggiori Paesi occidentali135. È stata sempre minoritaria, d’altra parte, la presenza sul mercato di investitori istituzionali136. Semplificando, si potrebbe affermare che la contemporanea scarsità di domanda e offerta di

134 Cfr. MESSORI, Sistema bancario, ricchezza finanziaria e crisi economica in Italia, in Banca imp. soc., n. 3,

2011, pp. 363-365; ONADO, Alla ricerca della banca perduta, op. cit., pp. 216-217.

135 Ibidem, p. 363. Si vedano anche le Relazioni annuali della Banca d’Italia, 2007-2017, e l’annuale

Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane della CONSOB, 2015-2017 (rispettivamente disponibili agli indirizzi: http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relazione-annuale/index.html e http://www.consob.it/web/area-pubblica/report-famiglie).

136 Per un’ampia analisi economica e giuridica del fenomeno, si veda MACCHIATI, Perché l’Italia

136 prodotti finanziari ha contribuito ad evitare che la gran parte delle banche italiane compromettesse i propri bilanci, impegnandosi in modo eccessivo negli strumenti finanziari maggiormente critici dal punto di vista del rischio sistemico. Gli attivi dei maggiori gruppi bancari e delle banche regionali del nostro Paese hanno, invece, continuato a registrare una quota prevalente di servizi tradizionali137. L’ammontare limitato di titoli o di garanzie derivanti dai mutui subprime (poco più di 5 miliardi di euro)138 da esse detenuto, così, ha evitato, nel periodo 2008-2009, le grandi operazioni pubbliche di salvataggio che, come si è visto, hanno invece interessato altri Stati europei.

L’impatto della crisi finanziaria globale ha, però, inevitabilmente, pesato anche sui bilanci delle banche italiane: l’illiquidità dei mercati finanziari internazionali ha determinato un forte aumento del costo della provvista, erodendo i margini di interesse: di conseguenza, sono aumentati gli investimenti di natura finanziaria, volti a recuperare sufficienti margini di profitto139. Inoltre, l’aggravarsi della recessione ha pesato sulla produttività dell’industria italiana molto più che in altri Paesi: il forte calo del Pil si è riflesso, nei bilanci delle banche, in un drastico aumento dei cosiddetti Non

Performing Loans (NPL), cioè dei crediti deteriorati. Già prima della crisi,

peraltro, l’ammontare dei prestiti di dubbia restituzione si attestava a livelli

137 PIEROBON, Evoluzione dell’attività bancaria e crisi finanziaria, in BARUCCI, MESSORI (a cura di),

Oltre lo shock, op. cit., pp. 79-80.

138 MESSORI, Sistema bancario, ricchezza finanziaria e crisi economica in Italia, cit., p. 369.

137 superiori alla media internazionale140. Ciò, in gran parte, appare dovuto a carenze strutturali del sistema economico italiano, tra cui, principalmente, la scarsa attenzione da parte delle banche alla valutazione del merito creditizio – retaggio, a detta di alcuni, dell’epoca della banca pubblica e dei crediti speciali141 – e, parallelamente, la singolare struttura dell’impresa non finanziaria italiana – tendenzialmente di medio-piccole dimensioni, sottocapitalizzata, non quotata.

A tale quadro, va aggiunto il propagarsi della crisi del debito sovrano. Le tensioni innescate dalle vicende riguardanti il debito pubblico greco hanno determinato un aumento dei differenziali di rendimento fra i titoli pubblici decennali italiani e i corrispondenti titoli tedeschi fin dall’aprile del 2010. Tale aumento si è poi ampliato nell’ultimo trimestre del 2010 a causa del precipitare delle difficoltà irlandesi e dell’aggravarsi di quelle portoghesi, raggiungendo valori drammatici a metà dell’anno successivo142. I dubbi dei mercati sulla “solvibilità” del debitore pubblico, dunque, si sono presto addensati anche sull’Italia. Il nostro settore bancario è stato fortemente penalizzato da tali tensioni. I valori azionari dei gruppi bancari quotati sono crollati, infatti, soprattutto per via dell’incidenza sui propri bilanci dei titoli del debito pubblico italiano da essi posseduti143.

140 MACCHIATI, Perché l’Italia cresce poco, op. cit., p. 159.

141 Ibidem, pp. 147-150 e relativa bibliografia.

142 Cfr. MESSORI, Sistema bancario, ricchezza finanziaria e crisi economica in Italia, cit., pp. 385-386.

143 Titoli rispetto ai quali, peraltro, la regolamentazione prudenziale non prevedeva alcun

138 Su alcune società l’impatto di tale congiuntura è stato devastante: tra tutti, spicca il caso, noto alle cronache – purtroppo, anche giudiziarie –, del

Monte dei Paschi di Siena144. La banca toscana, alla chiusura del bilancio di esercizio del 2011, annuncia perdite per quasi 5 miliardi di Euro. Di lì a poco, un turn-over dei vertici societari segna l’inizio di una stagione di ristrutturazione del bilancio e della struttura aziendale, durante la quale emerge che, nell’arco di più di un decennio “sono state poste in essere operazioni

complesse di finanza strutturata, di carry trade e d’investimento a leva in titoli di Stato italiani [e operazioni su derivati con lo scopo di] occultare (diluire nel tempo) le perdite dell’area finanza e mostrare un livello di patrimonializzazione superiore a quello reale”145. Nel quadriennio 2011-2014, poi, le perdite complessive sono arrivate a più di 14 miliardi, e l’attivazione delle procedure di liquidazione è stata evitata solo grazie a continui aumenti di capitale, proseguiti fino al 2016, anno in cui, in seguito al fallimento dell’aumento annunciato per il mese di Settembre, il governo italiano ha stanziato 20 miliardi destinati al salvataggio di MPS e di alcune altre banche di dimensioni minori. Tra queste, le più compromesse sono risultate essere Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e

Banca Popolare dell’Etruria146. Per Banca Etruria, come è noto, lo Stato non è riuscito ad evitare la procedura di liquidazione che, in ossequio alle nuove

144 I cenni che seguono sulla crisi di MPS si basano sulla Relazione Conclusiva della Commissione

Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, approvata il 30 Gennaio 2018 (disponibile all’indirizzo: http://www.parlamento.it/Parlamento/1213?voce_sommario=61)

145 Ibidem, pp. 16 ss.

139 regole europee sul cosiddetto “bail-in”, ne ha direttamente coinvolto gli obbligazionisti. Essi, peraltro, sono risultati essere, in molti casi, semplici risparmiatori “vittime” di casi di mis-selling – quando non vere e proprie truffe – di prodotti altamente rischiosi147.

Orbene – riprendendo il discorso iniziale – si può comprendere perché il dibattito sull’opportunità della separazione delle attività finanziarie più rischiose sia cominciato con qualche anno di ritardo, e per cause almeno in parte differenti, rispetto agli altri Paesi europei. Come detto, infatti, la banca italiana è rimasta in buona parte ancorata, anche negli anni della crisi – pur con le eccezioni di cui si è appena parlato –, al modello tradizionale della banca commerciale: di separazione si è parlato soltanto in seguito agli scandali che hanno coinvolto, tra gli altri, uno dei maggiori – e più antichi – gruppi bancari nazionali.

La discussione in Parlamento, per giunta, non ha mai superato la fase della lettura in Commissione Finanze della Camera dei Deputati delle – pur numerose – proposte di legge, per via della sopraggiunta fine della XVII Legislatura. Tuttavia, considerato che alcuni dei partiti politici rappresentati nella Legislatura successiva hanno manifestato l’intenzione di dar seguito ai progetti di separazione, pare ragionevole ipotizzare che di dette proposte possa essere svolto, in futuro, un esame parlamentare più approfondito. Per tali ragioni, appare utile metterne in luce i tratti essenziali.

140 Innanzitutto, le proposte in parola possono essere ripartite in tre differenti classi, individuate sulla base di distinti approcci alla materia: un primo gruppo di progetti di legge intendeva modificare l’art. 10 del T.U.B.; il secondo attribuiva una delega al Governo per la riforma dell’ordinamento bancario; il terzo, infine, si proponeva di apportare più estese modifiche al Testo Unico Bancario, introducendo un’apposita disciplina della separazione148.

Le proposte del primo gruppo convergono sulla necessità di aggiungere all’art. 10 del T.U.B.149 il seguente comma 3-bis: “le banche che svolgono attività

di commercio in proprio di strumenti finanziari non possono svolgere anche le altre attività previste dal presente articolo”150. Alle banche che già esercitano l’attività di cui all’art. 10, poi, è lasciato il termine di un anno dall’entrata in vigore della modifica per dichiarare “quale tipo di attività intendono svolgere, e procedere, ove

necessario, alla riorganizzazione del proprio assetto societario”151. Si tratta, in buona sostanza, di introdurre un divieto assoluto di proprietary trading – con l’eccezione dei titoli di stato italiani – per tutte le imprese bancarie. Tale

148 Cfr. SERVIZIO STUDI CAMERA DEI DEPUTATI, Separazione tra le banche commerciali e le banche

d'affari, 7 Marzo 2017.

(disponibile all’indirizzo: http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/FI0541.htm#1040617).

149 Si veda retro, Cap. II, § 5.1.; per comodità, si riporta qui il testo dell’articolo in parola: “1. La

raccolta di risparmio tra il pubblico e l'esercizio del credito costituiscono l'attività bancaria. Essa ha carattere d'impresa. 2. L'esercizio dell'attività bancaria è riservato alle banche. 3. Le banche esercitano, oltre all'attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge”.

150 Pp.d.l. C.1742, C.2240, Art. 1. La proposta C.2240, tuttavia, aggiunge a detto articolo un secondo

capoverso, nel quale si consente, quale eccezione al divieto di “commercio in proprio”, la negoziazione di “titoli del debito pubblico della Repubblica italiana”.

141 modifica, tuttavia, difetta, in modo palese, di coordinamento con le altre disposizioni del T.U.B. che definiscono l’attività bancaria. Sarebbe stato opportuno, soprattutto, cogliere l’occasione della riforma dell’art. 10 per chiarire la definizione di “ogni altra attività finanziaria”, il cui significato si ricava oggi dall’art. 1 T.U.B., dove si legge che si intendono “attività finanziarie” anche le “operazioni per proprio conto […] in: strumenti del mercato monetario, cambi,

strumenti finanziari a termine e opzioni, contratti su tassi di cambio e tassi di interesse, valori mobiliari”. Con la modifica in esame, peraltro, si introduce un ulteriore

elemento di incertezza laddove non si precisa il significato di “commercio in proprio”: non è chiaro, infatti, se il divieto colpisca tutte le operazioni per proprio conto sugli strumenti indicati all’art. 1, ovvero solo alcune di esse, o se debba intendersi esteso anche ad altre attività. Inoltre, il legislatore non specifica se le attività di cui al nuovo comma 3-bis possano essere svolte da altre società del gruppo, laddove la banca sia organizzata nella forma della

holding – fatto in realtà assai diffuso nel sistema creditizio nazionale; se ne

dovrebbe ricavare che il divieto comporti l’obbligo, per i gruppi bancari, della dismissione delle subsidiaries che svolgono negoziazione proprietaria, o la trasformazione dell’intero gruppo in una investment bank, sul modello di quella disegnata dal Glass-Steagall Act.

Per quanto concerne il secondo e il terzo gruppo di proposte, invece, il quadro normativo risulta certamente più completo e definito. I progetti di legge-delega, in primo luogo, si occupano della definizione giuridica di “banca

142 commerciale” e “banca d’affari”. Sono banche commerciali quelle “che

esercitano l’attività di credito nei confronti dei cittadini, delle imprese, delle famiglie e delle comunità e che effettuano la raccolta di depositi o di altri fondi con obbligo di restituzione per l’esercizio dell’attività di credito”152; si intendono invece banche d’affari “quelle

che investono nel mercato finanziario svolgendo attività legate alla negoziazione e all'intermediazione di valori mobiliari in genere”153. Tutti i progetti di legge-delega dispongono il divieto per le banche commerciali di svolgere, direttamente o indirettamente, qualsiasi attività propria delle banche d'affari, delle società di intermediazione mobiliare e, in generale, di tutte le società finanziarie che non sono autorizzate a effettuare la raccolta di depositi tra il pubblico, ed inoltre due di esse (C.1605 e C.488) estendono il divieto in parola anche “alle attività

legate alla negoziazione e all'intermediazione dei valori mobiliari”154. La proposta C.762, tuttavia, ispirandosi, in qualche modo, allo schema di separazione disegnato in sede europea, consente tali attività entro il limite del 20 per cento degli asset totali della banca e comunque con una soglia massima di 10 miliardi155. È significativo, comunque, che tutte le proposte in parola concordino nel conferire al governo la delega a modificare le disposizioni del T.U.B., al fine di appianare gli equivoci sulla definizione delle attività bancarie di cui si è detto poc’anzi. La natura della separazione tra banca commerciale

152 Pp.d.l. C.488, C.1605, C.2000, C.2712, C.3647, Art. 2, lett. a); C.762, Art. 1, comma 2.

153 Ibidem.

154 Pp.d.l. C.488, C.1605, Art. 2, lett. a).

143 e banca d’affari, inoltre, così come rappresentata dai progetti in esame, pare essere pienamente giuridica e formale, e non solo funzionale: è infatti fatto divieto alla banca commerciale di detenere partecipazioni o di stabilire accordi di collaborazione commerciale di qualsiasi natura con banche d'affari, banche d'investimento, società di intermediazione mobiliare e società finanziarie; parimenti, le banche d’affari non possono partecipare al capitale delle banche commerciali156.

La proposta C.3647, poi, ha il merito di disciplinare più in dettaglio i rapporti tra le entità separate. In particolare, è stabilito il divieto di “ricoprire

cariche direttive e di detenere posizioni di controllo nelle banche commerciali da parte di rappresentanti, direttori, soci di riferimento e impiegati di banche d’affari, SIM e società finanziarie che non effettuano la raccolta di depositi tra il pubblico, [ed inoltre il

Governo è delegato a definire] i requisiti di indipendenza per il management delle

banche e prevedere il divieto di ricoprire cariche direttive e di detenere posizioni di controllo in banche diverse da quelle in cui operano”157.

Le proposte C.762 e C.2000, ancora, dispongono l'obbligo, per le banche commerciali, di operare in condizioni di sostanziale equilibrio tra le scadenze delle attività di raccolta e di impiego delle risorse finanziarie; in particolare si prevede, per le banche che effettuano la raccolta dei depositi a breve termine, il divieto di erogare finanziamenti a medio o a lungo

156 Cfr., tra le altre, P.d.l. C.2712, Art. 3, lett. c).

144 termine158: è interessante notare che, con ciò, si recupera il tratto maggiormente distintivo della legge bancaria del ’36. Tutte le proposte, infine, conferiscono la delega al Governo per l’introduzione di sanzioni per il mancato adempimento degli obblighi ora descritti, prevedendo, per le infrazioni di maggiore gravità, la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria.

I progetti di legge del terzo gruppo159, per concludere, si distinguono da quelli appena esaminati essenzialmente per due aspetti: in primo luogo, si propongono di intervenire direttamente sulla modifica del T.U.B., senza attribuzione di deleghe al governo – fatta eccezione per la predisposizione di un regime fiscale agevolato per le banche commerciali. In secundis, sebbene anch’essi dispongano la separazione formale dei due tipi di attività, consentono, tuttavia, alle banche commerciali di promuovere presso i propri clienti investimenti classificati a basso rischio, tra cui titoli di Stato e obbligazioni di società partecipate dallo Stato, purché il capitale investito non superi i due terzi del totale depositato e, comunque, non ecceda la quota massima di 250.000 euro. Per il resto, valgono le considerazioni svolte a proposito delle proposte di legge-delega, incluse le disposizioni definitorie e quelle relative all’obbligo di omogeneità temporale tra provviste ed impieghi.

158 Pp.d.l. C.762, Art. 2, lett. c), e C.2000, Art. 3, comma 2, lett. d).

145 Soprattutto con riguardo al secondo e terzo gruppo, quindi, si profilava un modello di separazione e specializzazione estremamente più marcato rispetto a quelli introdotti in altri Stati europei e in Nordamerica. Si può affermare, in buona sostanza, che l’obiettivo del legislatore italiano fosse un ritorno puro e semplice all’epoca della legge bancaria del 1936 e al “modello

Glass-Steagall”. Forse proprio in ciò, peraltro, risiede la ragione del loro

fallimento: è sì vero che nella realtà economica italiana la banca “tipica” è di medio-piccole dimensioni, ben radicata nel territorio in cui ha sede e poco o per nulla dedita ad attività di natura speculativa. Ciononostante, i bilanci di almeno tre dei gruppi bancari nazionali sono costituiti, per una parte sostanziale, da attività di natura finanziaria160; appare facile immaginare, pertanto, la reazione poco entusiasta di molti operatori del mercato ad un tentativo così drastico di separazione.

6. Separazione giuridica o funzionale e fattibilità di un “ritorno