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Dalla teoria del tipo medio alla tendenza suicidogena sociale

Il suicidio nella Sociologia di Durkheim

2.5. Dalla teoria del tipo medio alla tendenza suicidogena sociale

Durkheim, nella volontà esplicita di concepire la Sociologia quale disciplina autonoma impegnata a studiare, con metodo oggettivo, le organizzazioni sociali, attribuisce importanza determinante ai loro meccanismi di coesione così da meglio individuare la relazione tra l’individuo e la società tenendo conto dell’entità di coesione e di integrazione sociale. Quando allora mancano valori condivisi dalla collettività, come accade per quelli etici e religiosi, ne consegue una perdita di stabilità, definita appunto da Durkheim anomia quindi una mancanza di norme tale da provocare nei singoli individui stati di insoddisfazione e di angoscia. Da qui la consapevolezza di quanto siano i modelli sociali a plasmare le manifestazioni della vita individuale.

Quando si assiste a una mancanza di integrazione degli individui nella società, ne deriva una potenziale causa di suicidio che, per questo, da fatto individuale diventa un vero e proprio fatto sociale.

Durkheim allora non studia il suicidio come esclusivo fatto individuale quanto piuttosto le correnti suicidogene nel contesto di una società, per giungere alle loro manifestazioni individuali. Si conferma così l’oggetto della ricerca che è dato dal tasso di suicidi riscontrato in una specifica società, desunto da dati statistici riguardanti vari Paesi e per diversi periodi, elementi che esprimono la tendenza specifica al suicidio.

Dopo aver evidenziato l’impossibilità di generalizzare motivazioni di carattere organico e psichico o dovute all’ambiente fisico, Durkheim lega il suicidio a situazioni extrasoggettive, riguardanti allora la società, i gruppi che la compongono, gli ambienti in cui i singoli individui agiscono quotidianamente. Si giustifica così l’attenzione rivolta alla famiglia, alle confessioni religiose, all’organizzazione politica che incidono in maniera non secondaria sui tassi di suicidio. È vero infatti, secondo Durkheim, che, sulla base di una legge sociologica generale, il suicidio varia in maniera inversa in ragione del grado d’integrazione di quei gruppi sociali di cui l’individuo è parte integrante. Lo stato d’integrazione di un’organizzazione sociale riflette l’intensità della vita collettiva per cui quanto più questo aggregato assume caratteri sociali, tanto da costituire un

53 gruppo compatto e soprattutto solidale, tanto più l’individuo acquista forza nella sua lotta, preservandosi dal suicidio. Da qui, come già rilevato nel presente lavoro, il ruolo delle religioni per cui quelle ebraica e cristiana, dando luogo a una società compatta che protegge e non lascia soli i suoi membri, permettono all’individuo di preservarsi meglio dal suicidio, cosa che non accade per il protestantesimo caratterizzato da un forte individualismo, che rende l’uomo più debole.

Quando insomma l’io ha il sopravvento sulla vita collettiva, si allenta quello che unisce il singolo alla propria vita, essendosi attenuato il legame che lo unisce alla società. Può accadere altresì che un’eccessiva coesione sociale, nella quale l’io si annulla, spinga il singolo a privarsi della vita. Quando poi i ritmi di mutamento sociale si fanno particolarmente intensi, può insorgere l’anomia, tanto da causare il suicidio visto come il singolo abbia sempre bisogno di riferimenti e valori che invece vengono a mancare.

Siamo dunque nell’ambito di una lettura sociale del suicidio che Durkheim dà come definitiva nel libro III del volume sul suicidio, titolato non a caso Il suicidio

come fenomeno sociale in generale, in cui l’Autore torna sulla definitiva

confutazione del rapporto tra temperamento/nevrastenia e tasso sociale dei suicidi, così come si respingono, una volta di più, i rapporti tra andamento dei suicidi e stati dell’ambiente fisico per giungere alla conclusione secondo la quale

il tasso sociale dei suicidi si spiega soltanto sociologicamente. È la costituzione morale della società a fissare a ogni istante il contingente delle morti volontarie. Per ogni popolo esiste una forza collettiva, di una data energia, che spinge gli uomini a uccidersi. I movimenti che il paziente compie e che, a prima vista, sembrano esprimere soltanto il suo temperamento personale, sono in realtà seguito e prolungamento di uno stato sociale che manifestano esteriormente101.

Questo significa, per Durkheim, che ogni società umana possiede un’attitudine più o meno accentuata al suicidio. Ne consegue che ogni gruppo sociale manifesta verso il suicidio una tendenza collettiva che gli è propria e dalla quale scaturiscono le tendenze individuali e non essa da queste.

Come più volte rilevato, sono le correnti di egoismo, di altruismo o di anomia a travagliare un’intera società tanto da sperimentare atti di rinuncia volontaria alla vita, ma anche malinconia, depressione, quindi tendenze della collettività che, penetrando nei singoli individui li portano ad uccidersi. È dunque lo stato morale

54 della società a incidere sul tasso dei suicidi e non tanto le disposizioni morali del suicida. Afferma Durkheim in merito: “Non c’è niente che possa servire da causa occasionale al suicidio; tutto dipende dall’intensità con cui le cause suicidogene hanno agito sull’individuo”102

.

Per questo Durkheim confuta la teoria di Quètelet, convinto di poter giustificare la regolarità con cui si ripetono certi fenomeni sociali negli stessi periodi di tempo attraverso la teoria dell’uomo medio. In ogni società ci sarebbe un determinato tipo che la generalità degli individui riproduce in maniera più o meno esatta e da cui si allontana, per Quètelet, soltanto una minoranza, per cui l’invariabilità diventa la regola, mentre l’eccezione è data dal mutamento.

Quètelet chiamò tipo medio quello che si ottiene facendo la media aritmetica dei tipi individuali. Durkheim sostiene che questa teoria non permette di comprendere da dove derivi il fatto che il tipo medio si realizzi nella generalità degli individui e, anche se ciò fosse possibile, questo non spiegherebbe la regolarità con cui si riproduce il tasso sociale dei suicidi, perché, proprio per definizione, gli unici caratteri che il tipo medio può comprendere sono quelli che si riscontrano nella maggior parte della popolazione, ma il suicidio è un fatto di minoranza. Sostiene Durkheim:

Negli stessi Paesi dove il suicidio è più sviluppato, si contano tutt’al più 300, 400 casi su un milione di abitanti. L’energia che l’istinto di conservazione mantiene nella media degli uomini lo esclude radicalmente: l’uomo medio non si uccide. Ma allora, se la tendenza a uccidersi è una rarità, un’anomalia, essa è del tutto estranea al tipo medio e, quindi, anche un’approfondita conoscenza di quest’ultimo, lungi dall’aiutarci a capire come avvenga che il numero dei suicidi sia costante in una stessa società, nemmeno può spiegarci donde provenga il fatto che vi siano dei suicidi103.

Quètelet insomma fonda la sua teoria su un’osservazione inesatta; considera infatti come un evento stabilito che la costanza si possa osservare soltanto nelle manifestazioni più generali dell’attività umana. Quètelet ha dunque attribuito in maniera arbitraria alla media degli uomini una certa affinità suicida, fondandola sulle manifestazioni che non si osservano nell’uomo medio ma, soltanto in un ristretto numero di soggetti eccezionali. Durkheim conclude: “Si è dunque usata

102

Ivi, p. 360

55 l’anormalità per determinare la normalità”104. La teoria dell’uomo medio non

risolve il problema.

Per Durkheim tutte le manifestazioni individuali, per quanto indipendenti possano sembrare le une dalle altre, sono in realtà il prodotto di una stessa causa o di uno stesso gruppo di cause, che dominano gli individui. Esiste per questo, nell’ambiente comune in cui gli individui vivono,

una qualche forza che le fa propendere tutte nella stessa direzione e che, con un’intensità più o meno grande, fa sì che il numero dei suicidi singoli sia più o meno elevato. Gli effetti mediante i quali si rileva quella forza non variano secondo gli ambienti organici e cosmici, ma esclusivamente secondo lo stato dell’ambiente sociale. È chiaro che essa è collettiva105.

Ne deriva che ogni popolo possiede, collettivamente, una tendenza al suicidio che gli è propria e da cui deriva il numero più o meno elevato di suicidi che da questa dipendono.

Durkheim prende allora in esame il rapporto che può instaurarsi tra suicidio e omicidio. In primo luogo egli evidenzia come “il suo suicidio sia un tributo alla civiltà e sicuramente in Europa sia di solito più pronunciato nelle nazioni che hanno raggiunto una più alta civiltà”106. L’Autore cita l’esempio dell’Italia dal

1870 e quindi dal momento in cui è diventata una delle protagoniste della civiltà europea, abbia visto salire il numero dei suicidi da 788 casi a 1653 con un aumento del 109 % in 20 anni107.

Durkheim verifica altresì come, in meno di cinquanta anni l’incremento dei suicidi sia stato molto alto, visto come essi siano triplicati, quadruplicati, addirittura quintuplicati a seconda dei Paesi. Questo significa che l’organizzazione sociale è cambiata in misura profonda e un’alterazione così rapida non può essere patologica, visto come il mutamento non avvenga all’improvviso, ma sia frutto di “un lento e quasi insensibile susseguirsi di modificazioni”108

.

È comunque da considerare come determinante il processo di trasformazione che, quando diventa davvero troppo rapido, può generare una situazione di anomia tanto da incrementare la tendenza al suicidio. Durkheim giunge così a

104 Ivi, p. 364 105 Ivi, p. 365 106 Ivi, p. 433 107 Cfr. Ivi, p. 434 108 Ivi, p. 436

56 cogliere come non si debba credere che rendere la vita più agevole permetta di contenere i suicidi, non dipendendo questi dalle difficoltà che l’uomo incontra nell’esistenza. “Se oggi ci si uccide più che nel passato, non è certo perché si debbano fare sforzi più dolorosi per mantenersi; invece è perché non sappiamo più dove si fermino i bisogni legittimi e non scorgiamo più il significato dei nostri sforzi”109

.

Una volta definito il tema del suicidio, Durkheim si preoccupa di comprendere quale sia e se ci sia una relazione suicidio/omicidio. Esaminando il fenomeno, egli verifica che laddove aumentano i suicidi non c’è necessariamente un pari accrescimento del fenomeno degli omicidi perché tutto dipende dal valore delle norme. Laddove infatti si dà applicazione corretta alle leggi, ma soprattutto si agisce sugli elementi deterrenti della violenza, gli atti di uccisione di persone inevitabilmente diminuiscono. Questo è d’altra parte legato al tipo di educazione morale che caratterizza una società, mentre questo non ha particolare rilevanza nei confronti del suicidio.

Più in particolare Durkheim rileva, come regola generale, il fatto che “laddove è molto sviluppato l’omicidio, si crea una specie di immunità contro il suicidio”110

. A titolo di dimostrazione, Durkheim cita la Spagna, l’Irlanda e l’Italia i tre Paesi europei dove ci si uccide meno, ma sono anche quelli in cui si uccide tanto; si tratta infatti dei Paesi in cui il numero delle uccisioni supera quello delle morte volontarie. In genere inoltre, per Durkheim, anche le guerre incidono sulla tendenza al suicidio, mentre questo non vale per l’omicidio.

L’esempio è dato dalla Francia dove nel 1870 le uccisioni, che negli anni precedenti erano state in media 119, salgono rapidamente a 133 e poi a 224 nel 1871 con un aumento dell’88%, per ricadere a 162 nel 1872. La diminuzione viene attribuita al disordine dell’amministrazione giudiziaria per cui alcuni delitti erano destinati a rimanere sconosciuti e addirittura alcuni non sarebbero sfociati in una condanna.

Assai curiosa risulta infine la differenza tra suicidi e omicidi in città o in campagna. Dai dati presi in esame Durkheim rileva come il suicidio sia un fenomeno cittadino che rurale, mentre per gli omicidi vale il contrario. Egli trova

109 Ivi, p. 454 110 Ivi, p. 415

57 che, nel 1887, mettendo insieme uccisioni, parricidi e infanticidi, nelle campagne si erano commessi 11,1 delitti di quel genere, mentre in città soltanto8,6 e le cifre sono destinate a rimanere all’incirca uguali nel 1880.

Per quanto concerne poi l’influsso della religione sulla tendenza al suicidio, è stato bene evidenziato come mentre il cattolicesimo diminuisce tale tendenza, il protestantesimo invece l’accresca. Per gli omicidi accade il contrario visto come essi siano più frequenti nei Paesi cattolici che in quelli protestanti. Soltanto nell’Alto Palatinato si verifica il fenomeno contrario.

Ugualmente accade per la vita familiare che ha un potere di contenimento dei suicidi per risultare invece stimolatrice dell’omicidio. Si può dunque affermare che la famiglia abbia comunque un ruolo fondamentale visto come costituisca una sorta di baluardo di difesa dal suicidio, mentre può addirittura incitare l’omicidio.

Evidentemente nella famiglia l’influenza moralizzatrice che salva dal suicidio e quindi dovrebbe anche distogliere i componenti da ogni genere di delitto, viene invece neutralizzata da un’influenza che li spinge a uccidere dovuta generalmente alla vita stessa della famiglia.

Durkheim può concludere che, in taluni, casi il suicidio può coesistere con l’omicidio, ma nella maggior parte dei dati esaminati risulta come omicidio e suicidio si escludano a vicenda. “Talora reagiscono allo stesso modo all’influenza delle stesse condizioni, talora reagiscono in senso inverso e i casi di antagonismo sono i più frequenti”111

. Questo è dovuto, per Durkheim, alla diversa natura dei due atti, ma soprattutto al fatto che esistono specie diverse di suicidio, alcune in qualche modo affini all’omicidio e altre che invece lo respingono.

Sicuramente, per Durkheim, il tipo di suicidio più diffuso al suo tempo era quello egoistico provocato da un’individualizzazione esasperata per cui l’unico fine della propria esistenza è se stesso, ma questo non può bastargli, tanto da rendergli la vita priva di significato. L’omicidio al contrario è un atto violento e carico di passionalità per cui esso ha poco spazio rispetto al suicidio. Così il suicidio egoistico e il suicidio dipendono da cause che sono antagoniste tra loro per cui non può accadere che, laddove il suicidio si sviluppa con facilità, sia alto anche il tasso degli omicidi. Al contrario il suicidio altruistico e l’omicidio

58 possono svilupparsi in parallelo perché dipendenti da condizioni abbastanza vicine. “Quando si è allenati al disprezzo della propria vita, non si può stimare molto quella altrui”112

. Comunque perché si possa giungere al suicidio occorre che l’altruismo sia davvero intenso ben più forte di quello che può spingere all’omicidio.

In ultima analisi Durkheim prende in esame il suicidio anomico, che provoca uno stato di esasperazione che, “a seconda delle circostanze può volgersi contro il soggetto stesso o contro gli altri; nel primo caso si ha il suicidio nel secondo l’omicidio”113. Molto dipende dall’educazione morale di chi compie l’atto e

quindi dalla maggiore o minore resistenza. Per Durkheim un uomo di mediocre moralità preferisce uccidere che uccidersi. Per questo motivo, nei Paesi di intensa civiltà, in cui l’anomia è a un livello molto alto, accade che le uccisioni diminuiscano con la stessa rapidità con cui si accrescono i suicidi. Se allora suicidio e omicidio variano in un rapporto inverso, questo dipende da correnti sociali opposte e soprattutto dai livelli più o meno alti di moralità.

112 Ivi, p. 422 113 Ivi, p. 423

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Capitolo 3