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Il rapporto follia-suicidio

Il suicidio nella Sociologia di Durkheim

2.3. Il rapporto follia-suicidio

Durkheim confuta il legame che spesso viene posto tra follia e suicidio intanto per la consapevolezza di quanto, per suicidio, si intenda un atto che la vittima compie con consapevolezza del risultato. Il folle non ha questa prerogativa.

Esaminando comunque i dati a disposizione e riflettendo su questa tipologia di rapporto, Durkheim sostiene che, se ci fosse una disposizione esclusivamente individuale verso il suicidio, una sorta di mania ossessiva, si dovrebbe parlare di

monomania, per cui un singolo individuo, magari lucido per certi aspetti del suo

comportamento, non lo sarebbe esclusivamente per una predisposizione folle al suicidio. Per Durkheim questo risulta inaccettabile, visto come si sappia quanto, in realtà, la vita psichica di un individuo sia un tutto unitario così da respingere l’idea che necessariamente un folle sia predisposto al suicidio. Di particolare rilievo risultano le considerazioni di Durkheim su questa tematica, visto come egli sostenga che, per parlare di pazzia del suicida, occorra che essa sia unicamente rivolta alla soppressione della propria vita; se questa fosse generica, i suoi oggetti sarebbero molteplici e non necessariamente destinati a determinare il suicidio. Da qui il richiamo alla monomania tipica appunto di una persona sana per il resto, ma affetta da una condizione patologica in un solo aspetto, quello relativo alla propria esistenza. Sostiene in merito Giovanni Cattanei, parafrasando le affermazioni di Durkheim:

Nel monomane ricorre una differenza rispetto al sano, uno stato mentale su uno sfondo normalissimo, determinato con rilievo eccessivo; quasi un troppo di vigore di dantesca memoria. Passione eccessiva quella del monomane, capace di ossessionare il soggetto con la sua insistenza e forza, privandolo della sua autonomia. Essa si fa prevalente su altre funzioni psichiche, occupa talmente il malato, e riesce a superare e vincere l’istinto di conservazione.73

Torna così la consapevolezza di quanto si dovrebbe pensare a una parcellizzazione della mente, in parte sana e in parte malata, ma Durkheim si

39 richiama all’unità della psiche che garantisce quella della persona. Esclusa dunque la monomania suicida, Durkheim giunge ad affermare che non esiste uno stato psicopatico nel quale si possa individuare con certezza un rapporto regolare con il suicidio secondo la distinzione operata generalmente dagli psicologi, a partire da Moreau De Tours. Da qui il successivo passaggio alla ricerca delle motivazioni sociali che, secondo Durkheim, sono costantemente presenti, per concludere che lo stato mentale, come la follia, può facilitare il gesto estremo senza tuttavia esserne la causa diretta. Sostiene ancora Giovanni Cattanei: “Un malato, in eguali circostanze, è più disposto a suicidarsi di quanto non lo sia il sano; però non può dirsi che la sua condizione lo determini a darsi la morte”74

. Basti pensare alla nevrastenia che può predisporre al suicidio visto come essa spinga il soggetto a soffrire, in quanto il dolore nasce da una violenta scossa psicologica o da una pressione troppo intensa del sistema nervoso. Indubbiamente la soglia del dolore cambia a seconda dell’individuo, risultando più alta in chi possiede un sistema nervoso solido, più bassa in chi lo abbia malato. Il malato di nervi sperimenta il dolore laddove altri ancora non lo sentono, così che l’esistenza diventa una fatica insopportabile. Particolarmente significativi sono i passi che Durkheim dedica a questa tipologia di malati, ritenuti intelligentissimi e quindi molto produttivi sul piano cognitivo, ma incapaci di trovare una relazione soddisfacente con il mondo. Questa sensibilità eccessiva permette, in vari casi, a tali malati di arricchire profondamente il patrimonio culturale e umano della società, ma a costo di sofferenze personali altissime. L’esistenza diventa allora difficile, mentre l’instabilità personale dà luogo al sovraccarico di ansie che può sfociare nel suicidio. Tuttavia, se è vero che in presenza di un numero maggiore di folli si registrano più suicidi, può valere anche l’idea che non sia il tipo psicologico individuale a produrre il suicidio, ma che questi soggetti siano più ricettivi alle influenze esterne che sono allora le cause vere del suicidio e che trovano nella persona malata di nevrastenia un terreno più favorevole. Al di là di questo, per Durkheim, non si instaura necessariamente un rapporto causale tra questi dati.

Così, ad esempio, nelle società meno progredite, in cui la follia compare più raramente, si riscontra comunque una frequenza alta di suicidi. Durkheim in

40 queste pagine relative alla nevrastenia, testimonia una particolare attenzione a tali malati, destinati a incredibili sofferenze, ma quasi sempre grandi innovatori, particolarmente inclini alle attività intellettuali, ma inadatti alla vita pratica:

Strumento di progresso, perché refrattario alle abitudini e all’immobilismo, il nevropatico feconda la storia e non si elimina da sé in quanto essere asociale. È anzi immerso nella società quant’altri mai e, sulla sua patologia, egli può radicare svariate tendenze. Predisposizione generica, la nevrastenia non basta da sola a determinare il suicidio: bisogna che alcune cause operino su questa base organica per dirigerla verso il gesto estremo.75

Così Durkheim, mentre nega una disposizione ereditaria al suicidio, rifiutando altresì il legame tra tasso suicida e razza, parallelamente confuta le tesi degli alienisti che si richiamano al legame tra follia e suicidio. Altrettanto forte è il rifiuto di una relazione tra suicidio e condizioni climatiche o ambientali, come già rilevato. Quando Durkheim afferma infatti che la maggior punta di suicidi avviene nei mesi estivi, egli non allude a temperature elevate che siano capaci di orientare l’organismo umano al suicidio, poiché invece è proprio in quei mesi che la vita sociale si intensifica, evidenziando in maniera più forte le difficoltà di quanti non sanno reggere al confronto con una vita sociale più intensa così da acquisire più forte consapevolezza dei propri limiti. Questo porta allora Durkheim a spostare l’attenzione sul suicidio come fenomeno sociale, un fenomeno di tipo collettivo che dipende necessariamente da cause sociali. In questo caso, pur avendo ammesso come l’atteggiamento suicida possa essere contagioso, tuttavia Durkheim respinge l’idea che, alla base del suicidio, stia il processo dell’imitazione. Per Durkheim questa è un fenomeno che si verifica in maniera automatica limitandosi alla riproduzione di atti, senza darne spiegazione. Si legge ancora in Giovanni Cattanei: “Esiste sì una certa contagiosità del suicidio, potendosi esso propagare da una persona all’altra, pure non è questa contagiosità a costituire il tasso sociale dei suicidi. Originerà casi individuali, ma non influirà sulle tendenze collettive, capaci di influenzare gruppi e macro- società”.76

Durkheim insomma ammette che il suicidio possa verificarsi facilmente per via di contagio, ma questo non dà luogo a effetti o conseguenze sociali. “Ne deriverebbe una depauperazione dell’influenza sociale esercitata dall’imitazione,

75 Ivi, p.18 76 Ivi, pp. 21-22

41 che non altre influenze essa potrebbe esercitare, e le virtù che si sogliono attribuire ad essa, risulterebbero immaginarie”.77Ad esclusione di rarissime eccezioni, l’imitazione non rappresenta quindi, per Durkheim, un fattore originario del suicidio e non ha effetto se non quello di manifestare una condizione che è la causa vera dell’atto. Dunque l’imitazione non è in grado, generalmente, di produrre o modificare qualcosa; essa soprattutto non riesce a propagare il suicidio così da influire in maniera sensibile sul tasso sociale; può soltanto originare casi individuali, per cui la forza dell’imitazione è estremamente trascurabile.