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Il suicidio secondo Durkheim: una definizione ancora attuale?

Considerazioni critiche sul Saggio “Il Suicidio”

4.1. Il suicidio secondo Durkheim: una definizione ancora attuale?

Émile Durkheim, nello sviluppo del proprio pensiero, mentre è fortemente legato al contesto storico della Terza Repubblica francese, per la quale avverte una forte esigenza di rinnovamento, testimonia, già a partire da Le forme

elementari della vita religiosa come il dio di cui egli parla non sia né un dio

trascendente, ma neppure un dio incarnato nell’individuo, caro agli illuministi, quanto piuttosto un dio che si identifica nella Società che allora assume, agli occhi di Durkheim, un ruolo determinante.

Dunque egli attribuisce uno spazio estremamente significativo al sociale, che prende origine dalle vicende del singolo, ma per acquistare leggi proprie su un piano superiore, tanto da dirigere dall’esterno la vita del singolo. L’individuo, infatti, entra in società facendo violenza alla propria natura e dunque subendo una coercizione dall’esterno che, per Durkheim, è necessaria e quindi legittima. Così l’uomo si muove entro due direzioni, da una parte, la natura individuale, dall’altra, quella sociale177. Ed è proprio la società a rendere migliori i comportamenti collettivi, a condizione che essa intervenga in maniera attiva. L’individuo allora può conseguire una condizione più elevata solo in virtù di una costrizione esterna, che però si configura come evento costruttivo che libera il singolo dall’influenza del caso. Così l’individuo acquista valore e significato soprattutto in relazione a un tutto che è la società.

In tale contesto Durkheim ha dimostrato come il suicidio sia un comportamento tendenzialmente presente in ogni società e, particolarmente, in quella a lui contemporanea nella quale il pericolo più evidente è dato dal ritmo accelerato della vita quotidiana, che sembra correre verso l’anomia quando ci si preoccupi soltanto dell’espansione produttiva e dell’estensione del mercato, senza

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Cfr. E. Mangone, Negazione del sé e ricerca del senso. Il suicidio tra dato empirico e

85 che si lavori in vista di un godimento collettivo dei beni prodotti, ma prevalga l’individualismo esasperato che può allora sfociare nel suicidio.

L’oggetto di analisi di Durkheim non è tuttavia il suicidio come atto individuale, ma il tasso di suicidio come fatto sociale. Le correnti suicidogene traggono origine dalla collettività, poiché i fenomeni individuali hanno cause sociali; anche il suicidio, in quanto fatto sociale, non può essere spiegato avvalendosi dell’etica o della psicologia. I fatti sociali sono indipendenti e vincolanti rispetto agli individui e quindi esteriori e costrittivi. Limitarsi al fatto sociale, non risulta oggi più sufficiente a dare una spiegazione onnicomprensiva.

Più volte è stato rilevato come sia necessario, in termini culturali, ricorrere anche a una Sociologia delle motivazioni, da estendere alle credenze, agli schemi cognitivi, alle simbologie che, come afferma Barbagli “in tempi e luoghi diversi, hanno definito e limitato le possibili scelte degli individui riguardo al suicidio”178. Durkheim costruisce una tipologia di suicidio, egoistico, altruistico, anomico, fatalistico utilizzando un metodo di tipo comparativo, che lo aiuta a osservare le tendenze collettive verso il suicidio, rimandandole a una serie di variabili sociali, ma le cause sono spesso postulate a priori perché egli le fa risalire a uno squilibrio tra forze sociali centrifughe, date dall’eccesso di individualismo, e forze centiprete costituite dall’eccesso di pressione sociale179. Durkheim insomma considera la forma delle forze sociali in relazione alle strutture sociali, per indagare il modo in cui le relazioni sociali influiscono sul livello di integrazione sociale. Egli dunque non si limita a interrogarsi sulle cause, ma sottopone a indagine anche le relazioni di causa-effetto; non cade, tuttavia, nel determinismo sociale; la libertà dell’individuo ha ancora spazio perché Durkheim non cerca, come fanno invece Comte e Spencer, leggi universali che guidano la costituzione dei fatti sociali, ma si impegna a rintracciare, per ciascun fatto, le cause della sua genesi.

Egli sicuramente attribuisce grande peso alle dimensioni normative e cognitive dell’agire sociale. Poiché i fatti sociali sono esterni all’individuo, essi mostrano il loro carattere normativo anche attraverso il loro valore simbolico. È questo a permettere le relazioni sociali e la comunicazione, poiché si forniscono agli

178 M. Barbagli, Norme, credenze, significati: una risposta, in “Rassegna italiana di

sociologia”, L, 4, 2009, p. 706.

86 individui cose comuni e condivise così che ciascuno possa prevedere le azioni, il pensiero e le emozioni degli altri.

Comunque le norme sociali non si impongono agli individui, perché esiste una pluralità di percorsi biografici e le differenti risorse sociali, i diversi vincoli che influenzano dall’esterno l’individuo permettono comunque scelte libere sul piano individuale. Durkheim giunge così a legare il suicidio ai livelli di integrazione sociale, ma soprattutto dà una spiegazione eziologica del suicidio perché classifica le cause che lo producono. Questo non significa che le motivazioni personali non siano importanti perché esse servono al ricercatore per ipotizzare le cause, costruire un modello eziologico180 ed evitare combinazioni di pura fantasia, secondo lo stesso Durkheim.

A questo si accompagna la consapevolezza di quanto Durkheim abbia sempre sottolineato la crescente autonomia dell’individuo nelle società moderne. Non si affida a motivazioni etiche, ma sociologiche, mettendo sempre in evidenza il legame fra integrazione e forme di solidarietà. Durkheim ha, per questo, indagato le condizioni storiche, culturali e sociali che influenzano una scelta così personale come quella del suicidio, quindi la decisione di uscire dalla vita sociale. Egli insomma si interroga su scelte drammatiche, per ragionare però sulle principali Istituzioni che favoriscono l’integrazione sociale, tenendo conto del loro cambiamento nel tempo, per mettere in luce l’aumento progressivo dell’individualismo. Basti soltanto pensare al tema dell’anomia, che permette a Durkheim di evidenziare come non necessariamente ci sia corrispondenza tra coscienza individuale e coscienza collettiva. Da qui il nesso da istituire tra integrazione sociale e regolazione.

Durkheim definisce dunque il suicidio come un fatto sociale dipendente dalle modalità di integrazione o meno degli individui nella società, e dalla soggezione di questi alle regole delle forze morali della coscienza collettiva. Non sempre però, in sede sociologica, si è accettata l’idea di spiegare il suicidio attraverso una serie di variabili sociali da ricondurre a forze morali. Lo stesso Baechler sostiene che la comprensione del suicidio può fondarsi soltanto su una descrizione

180 Cfr. F. Rositi, Suicidio: logiche istituzionali e logiche motivazionali, in “Rassegna italiana

87 fenomenologica ottenuta dall’osservazione e dalla ricostruzione del significato che quanti si suicidano attribuiscono alla propria scelta181.

Si va dunque verso una piegatura più soggettivista delle Scienze sociali e questo è visibile anche dal modo in cui è cambiato il concetto di anomia rispetto all’interpretazione di Durkheim per il quale il termine rimandava a una proprietà della società, mentre, più tardi, l’anomia è stata considerata come un tratto della personalità o un insieme di comportamenti, comunque un attributo interno agli individui, così da separarsi dalle teorie della società. Il concetto che, per Durkheim, caratterizzava uno stato del sistema sociale, è stato poi applicato a quello dell’attore individuale e quindi ai suoi atteggiamenti e stati d’animo.

Addirittura per Boudon e Viale182, Durkheim ha dato una spiegazione del suicidio fondata su una razionalità di tipo individuale, e quindi su un’analisi psicologica in contraddizione con i suoi stessi principi metodologici. Così, ad esempio, Durkheim avrebbe assunto che in un ciclo economico espansivo, in cui la posizione finanziaria di molte persone sembra migliorare, queste cambino le loro aspettative relativamente agli obiettivi a cui mirare, illustrando il nesso tra momenti di boom economico e alti tassi di suicidi. Questo dimostrerebbe il rilievo assunto dalla razionalità soggettiva anche nella spiegazione di comportamenti apparentemente irrazionali. In tal modo la volontaria rinuncia alla vita è prevalentemente legata alla realtà sociale, in cui Durkheim individua condizioni che sono veramente pericolose. Non più dunque una scelta individuale, ma un fatto sociale, in cui è riconoscibile la pressione di idee condivise a livello collettivo.

Non si tratta di considerare le motivazioni individuali, ma soprattutto le cause e quindi i fatti sociali, poiché scelte individuali estreme, come togliersi la vita, sono riconducibili a dinamiche sociali quando la società sia considerata una realtà diversa dai singoli o comunque dalla loro aggregazione.

Tuttavia, in sede critica, si esprimono oggi perplessità già a livello della definizione che Durkheim dà del suicidio “Si chiama suicidio ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto

181 Cfr. J. Baechler, Suicides, Basic Blackwell, Oxford, 1980, pp. 20-22

88 dalla vittima stessa consapevole di produrre questo risultato”183

. Questa definizione pone alcune limitazioni poiché in primo luogo il suicidio viene ristretto a quei casi in cui l’effetto finale sia la morte della persona, per cui il suicidio viene definito a partire dal risultato. Ci si domanda allora se l’individuo che aveva volontà di morire differisca da quello che aveva tale volontà e che, nel contempo, raggiunge la morte. Ecco perché al termine suicidio, nel tempo, si sono affiancati termini come tentato suicidio o suicidio mancato. Farmer nel 1988184 affermava che la definizione di Durkheim esclude tutti i casi in cui l’individuo raggiunge volontariamente la morte per mano di altri, tanto da darne una definizione propria: “Il suicidio denota ogni comportamento che cerca e trova la soluzione a un problema esterno nell’attentare alla vita di un soggetto stesso”.

Indubbiamente parlare di suicidio rimanda sempre a una serie di fattori molto complessi e non sempre indagabili come fatti puramente sociali. Questo significa che la complessità del fenomeno ha, come inevitabile conseguenza, il fatto di sfuggire a ogni tentativo che abbia la pretesa di essere conclusivo. Sosteneva Jaspers nel 1948: “Ogni singolo suicidio come fatto incondizionato non si presta a essere compreso e spiegato in maniera sufficiente secondo una legge causale di validità generale, ma possiamo solamente cercare di ricostruire e mettere insieme alcune circostanze che hanno reso possibile il suicidio”185

.

Senza entrare nel merito di interpretazioni di ordine psicologico, rimanendo invece in ambito sociologico, è stato Jean Baechler, nell’opera “I suicidi” del 1975 a superare la definizione di Durkheim affermando che non si possa parlare di suicidio in assoluto, ma che esistano vari comportamenti autodistruttivi, ciascuno dei quali rispecchia la risposta dell’individuo a una specifica richiesta in una situazione data. Ne consegue allora che non esiste il suicidio, al contrario i suicidi.

183 É. Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale, op. cit., p. 11 184

R. D. T. Farmer, Assessing the epidemiology of suicide and para-suicide, in “British Journal of Psychiatry”, 153, 1988, p. 18

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