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Le tesi di Marzio Barbagli: oltre il metodo durkheimiano

Considerazioni critiche sul Saggio “Il Suicidio”

4.4. Le tesi di Marzio Barbagli: oltre il metodo durkheimiano

Nell’ambito della valutazione critica del metodo adottato da Durkheim si collocano ora gli studi di Marzio Barbagli che, nel testo Congedarsi dal mondo. Il

suicidio in Occidente e in Oriente, mentre evidenzia il ruolo importante assunto

da Durkheim nell’ambito della sociologia intesa come studio dei fatti sociali, al tempo stesso rileva l’impossibilità di limitarsi oggi al metodo da lui definito per studiare il complesso fenomeno del suicidio.

Sicuramente, anche per Barbagli, Durkheim rimane uno dei padri fondatori della Sociologia, ma ritiene che le due sole cause alle quali Durkheim fa risalire l’innalzarsi o meno del tasso dei suicidi, siano non esaustive. Si tratta del grado di integrazione sociale e di quello di regolamentazione.

Nel primo caso l’integrazione è costituita sia dalla quantità sia dalla forza dei vincoli che uniscono un soggetto a vari gruppi, per cui il tasso dei suicidi è basso quando l’integrazione risulta equilibrata, per aumentare invece quando è scarsa, ma anche eccessiva. Si fa risalire a questa motivazione il suicidio egoistico per cui l’individuo tende a isolarsi essendosi allentati, se non addirittura spezzati, i legami con gli altri esseri umani, perché la società non si rivela sufficientemente integrata. Ne consegue un allentamento, ma soprattutto un indebolimento del legame che unisce il singolo individuo alla propria vita, così che egli è portato a uccidersi di fronte al precipitare delle circostanze.

Se invece l’integrazione è eccessiva, si ha, per Durkheim, il suicidio altruistico, cosa che accade in genere presso i popoli primitivi nei quali è forte la subordinazione dell’individuo al gruppo, per cui l’io si confonde con una cosa

203

104 diversa da se stesso e il polo della condotta viene a collocarsi in un gruppo di cui l’individuo è parte. Presso questi popoli, se l’individuo si uccide, lo fa perché ne sente il dovere.

La seconda causa a cui Durkheim si richiama, è la regolamentazione sociale, cioè la presenza di norme che definiscono i diritti e i doveri di quanti occupano le diverse posizioni sociali. Queste norme sono necessarie perchè, per istinto, l’uomo ha desideri illimitati, dunque insaziabili.

Per Durkheim, se una società è troppo poco regolatrice, si ha il suicidio anomico, particolarmente in momenti di accentuato cambiamento, quando le norme si indeboliscono.

Sostiene in merito Barbagli: “La mancanza di regolamentazione provoca sofferenza negli uomini e fa crescere il numero dei suicidi anomici”204

. Quando invece la regolamentazione è accentuata, si può avere il suicidio fatalista, quello tipico dei soggetti che non vedono un futuro davanti, hanno passioni fortemente compresse da una disciplina oppressiva, suicidio a cui Durkheim dà limitata importanza riconducendolo agli sposi troppo giovani, alle donne sposate ma senza figli, agli schiavi.

Sul piano critico spesso si afferma che non esistono grandi differenze tra l’integrazione e la regolamentazione sociale tanto da rendere superflua la distinzione tra suicidio egoistico e suicidio anomico o almeno diventa difficile individuare la differenza tra questi tipi di suicidio. Lo stesso concetto di integrazione non risulta definito da Durkheim in maniera esauriente.

Se poi si guarda ai dati utilizzati dallo stesso Durkheim per i suoi studi sul suicidio, occorre tener presente come questi sottostimino spesso il numero reale dei suicidi e questo dipende dall’efficienza o meno dell’apparato di registrazione dei dati stessi, ma anche dall’atteggiamento che le popolazioni hanno nei confronti del suicidio. Sostiene ancora Barbagli:

Dunque, secondo alcuni studiosi, se il tasso di suicidio aumenta da un decennio all’altro, è solo perché l’apparato di registrazione è diventato più efficiente e non perché il grado di integrazione sociale sia diminuito. Se tale tasso è minore in un Paese che in un altro, è perché nel primo i

204 M. Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, op. cit., p. 10.

105 suicidi sono meno accettati e maggiore è la tendenza a nasconderli, e non per qualche altra differenza di natura sociale o culturale205.

Secondo Barbagli, questo tipo di critica è in parte accettabile visto come, in effetti, i concetti proposti da Durkheim non sempre risultino definiti con rigore.

È altrettanto vero che le statistiche sul suicidio e le variazioni dei tassi dipendono spesso da cambiamenti verificatesi nel sistema di registrazione.

Secondo Durkheim, relativamente al fenomeno del suicidio, nel futuro sarebbero prevalse due grandi tendenze; da una parte, la scomparsa del suicidio altruistico, tipico dei popoli primitivi, in relazione alla progressiva riduzione della subordinazione dell’individuo al gruppo. Già alla fine dell’Ottocento, di questo restavano pochi esempi nell’esercito, ma nei decenni successivi sarebbero scomparse. Sarebbero, invece, aumentati il suicidio egoistico e quello anomico, in stretto rapporto con lo sviluppo delle società industriali, soggette a repentini cambiamenti, all’alternarsi di fasi di espansione e di crisi dell’economia. Secondo Durkheim, infine, sarebbero diminuite l’integrazione e la regolamentazione sociale.

Il tempo non sembra avergli dato ragione, poiché, come sostiene Barbagli, negli ultimi quaranta anni del Novecento, si sono verificate due tendenze del tutto opposte.

Inaspettatamente, i suicidi altruistici hanno assunto una rilevanza straordinaria. Non solo il loro numero è rapidamente cresciuto e la loro diffusione territoriale si è enormemente ampliata, ma, in molti Paesi del mondo, essi hanno avuto conseguenze politiche e sociali mai viste prime. Nello stesso tempo, nell’Europa occidentale, la frequenza dei suicidi (egoistici e anomici) è progressivamente diminuita206.

Barbagli fa risalire questi eventi all’11 Giugno 1963 quando, a Saigon, un monaco buddista si dette fuoco morendo tra le fiamme per protestare contro il governo. “Da allora, il suo gesto è stato ripetuto centinaia di volte in India, in Vietnam, in Corea, ma anche negli Stati Uniti o in Cecoslovacchia, dove, il 16 Gennaio 1969, lo studente universitario Jan Palach si uccise, dandosi fuoco, per opporsi all’occupazione del suo Paese da parte dell’Unione Sovietica”207

.

205 Ivi, p. 12 206 Ivi, pp. 12-13 207 Ivi, p. 13

106 Altrettanto si può dire di quanto si è verificato il 23 Ottobre 1983, a Beirut, quando un militante di Hezbollah ha sacrificato la propria vita lanciandosi, con un camion carico di bombe, contro un edificio, quartier generale dei marines. E la cronaca dei nostri giorni è costellata da eventi simili, di chi si fa esplodere, uccidendo tante persone, in nome di Allah e dei propri doveri nei confronti dei gruppi religiosi di appartenenza.

Le missioni suicide hanno, come protagonisti, uomini, donne, bambini che rinunciano alla vita per colpire i nemici del proprio popolo. Invece, a partire dal 1964, c’è stata una flessione del tasso dei suicidi in Gran Bretagna, della durata di dieci anni, per poi riprendere, a metà degli anni ottanta, in Danimarca, ma anche in Germania, Svezia, Francia, Austria, Svizzera, a partire dalle classi sociali più elevate delle grandi metropoli, per poi allargarsi a tutta la popolazione. Secondo Barbagli, “questi due grandi e inaspettati processi di segno opposto dimostrano l’ineguatezza della teoria che ha dominato incontrastata nelle Scienze sociali per oltre un secolo e che resta ancora oggi la stella polare per chi si inoltra in questo difficile campo di ricerca”208

.

A questo si accompagna il fatto che sia il rilievo assunto dai suicidi altruistici in gran parte del mondo, sia il decrescere rapido di quelli egoistici e anomici debbano essere necessariamente dovuti a quanto Durkheim aveva sottolineato, cioè alle variazioni dell’integrazione e della regolamentazione sociale.

I suicidi altruistici, come è dimostrato dagli studi di Barbagli, non si verificano soltanto in presenza di un eccesso di integrazione o quando sia presente un rapporto di totale subordinazione dell’individuo al proprio gruppo; si parla, infatti, di altre cause, poiché negli ultimi quaranta anni persone istruite, abituate a mettersi in rete, a parlare più lingue, hanno dato la vita per una causa collettiva, così da aiutare il proprio popolo a combattere i nemici. Si tratta di persone ben integrate, spesso dotate di alta cultura.

Questo spiega perché, secondo Barbagli, occorra andare al di là del metodo di Durkheim e addirittura pensare a forme diverse di suicidio rispetto a quelle teorizzate da Durkheim. Dopo di lui sono state proposte altre interpretazioni,

107 rovesciando addirittura l’ordine che Durkheim aveva dato alla ricerca. Egli infatti aveva fornito una classificazione eziologica delle cause che producono il suicidio. Invece si è ritenuto che bastasse risalire ai propositi degli individui per distinguere tra suicidi egoistici e altruistici. Durkheim, aggiungendo altri due tipi di suicidio, fa riferimento soltanto alle cause sociali che lo hanno determinato.

Alla prova dei fatti, però, la classificazione eziologica non è risolutiva; lo potrebbe essere soltanto se le cause individuate, cioè un eccesso o un difetto di integrazione o regolamentazione, fossero le uniche esistenti, ma per Barbagli non lo sono. Egli, infatti, si serve di una tipologia diversa, fondata sui propositi degli individui e sul significato che essi attribuiscono al proprio comportamento209. Sostiene in merito:

Sperando che risulti più chiara, al termine di questo libro, mi limito qui a dire che essa prevede quattro diversi tipi di suicidi, prendendo in considerazione due dimensioni di tali propositi: le persone per e quelle contro le quali ci si toglie la vita. I primi due tipi attengono alle persone per le quali si compie questo gesto. Essi conservano il nome di egoistico e di altruistico e corrispondono a quelli proposti non da Durkheim, ma da George Henrj Savage, cioè si riferiscono solo alle intenzioni degli individui e non alle cause (sociali) che li provocano: ci si può congedare dal mondo solamente per se stessi o anche per gli altri.210

Oggi quindi, in campo sociologico, si tende a superare il tipo di ricerca condotto da Durkheim per spostare l’attenzione dalle motivazioni di ordine sociale del suicidio a quelle personali dell’individuo. Barbagli aggiunge altri due tipi di suicidio che riguardano le persone contro le quali ci si toglie la vita, ad esempio per vendetta. Sostiene che, nel 1602, il gesuita Matteo Ricci narrò che in Cina, uomini e soprattutto donne si uccidevano per fare male ad altri. “I missionari, i mercanti e gli esploratori europei hanno ritrovato questo uso in molte popolazioni dell’Asia, dell’Africa e delle due Americhe”211

.

In epoca contemporanea, ci sono coloro che si uccidono per far male agli altri, ma sotto la spinta di motivazioni individuali, come nel caso degli episodi narrati da Matteo Ricci; esistono però anche coloro che si suicidano per una causa collettiva, di tipo politico o religioso considerata nobile. Nel primo caso si parla di

suicidio aggressivo, nel secondo come arma di lotta.

209 Cfr. Ivi, p. 15 210

Ibidem

108 Così Barbagli pensa di poter evitare i limiti della metodologia di Durkheim sia nella classificazione dei suicidi e delle loro cause, sia anche per uscire dalla preoccupazione di Durkheim, legata al contesto storico in cui egli vive, che la società europea si disgregasse.

Per questo Durkheim ha pensato il suicidio come sintomo di una malattia della società, mentre l’ansia di ottenere il pieno riconoscimento della Sociologia da parte del mondo accademico lo ha spinto a ignorare l’apporto delle altre Scienze umane. Barbagli ritiene invece che l’aumento di morti volontarie, verificatosi all’inizio del Novecento, non sia dovuto a processi di disgregazione sociale e per questo occorre tener conto anche delle ricerche portate avanti dagli storici e dagli antropologi, dagli psicologi e dagli esperti di politica. “Forse più ancora di altre azioni umane, il suicidio dipende da un gran numero di cause psicosociali, culturali, politiche e anche biologiche e deve essere analizzato da angolazioni assai diverse”212

.

Dunque, a livello contemporaneo, il suicidio non viene più analizzato soltanto come problema di ordine sociologo, ma richiede l’apporto integrato delle ricerche di più scienze. Per Barbagli il metodo di Durkheim si avvale soltanto di alcune categorie sociologiche, quelle definite strutturali, ma trascura quelle culturali. Per questo, agli occhi di Durkheim, il suicidio egoistico è dovuto alla mancanza di integrazione, quello anomico all’assenza di regolamentazione, quello altruistico a un problema di integrazione e di regolamentazione, “ma, in questo senso, vede gli individui come esseri passivi, assolutamente dipendenti da queste norme: un’idea oggi difficilmente accettabile”213

.

Per Barbagli sui diversi tipi di suicidio assumono maggiore influenza le motivazioni culturali che non le due variabili durkheimiane dell’integrazione e della regolamentazione. Sostiene Barbagli:

Fra Paesi e periodi storici, oltre che fra gruppi sociali, vi sono differenze nei repertori culturali che definiscono e limitano la gamma di scelte possibili degli individui riguardo al suicidio. Gli aspetti più rilevanti di questi repertori mi sembrano quattro: le intenzioni di chi si toglie la vita, il modo in cui lo fa, il significato che egli e gli altri attribuiscono al suo gesto, i riti che vengono celebrati prima e dopo che questo è stato compiuto214.

212 Ivi, p. 17 213 Ibidem 214 Ibidem

109 Su queste basi Barbagli oltrepassa il metodo durkheimiano cercando strade nuove per motivare il suicidio.

Nel corso di una conversazione di Domenico Tosini con Barbagli è emersa comunque la convinzione di quest’ultimo che Durkheim abbia ancora da insegnare molto perché lo schema di fondo da lui utilizzato, in cui si sottolinea l’importanza dell’integrazione sociale, è ancora utile a comprendere le cause del suicidio. La tipologia del suicidio che è di tipo eziologico, costituisce tuttavia un ostacolo per comprendere fino in fondo il fenomeno del suicidio stesso trattandosi di una soluzione rigida. Barbagli intende infatti tener conto non soltanto dei risultati della ricerca sociologica, ma anche di quella storica, visto come egli ritenga che i sociologi non si accontentino soltanto di narrazione, ma tentino di trovare regolarità e quindi siano interessati alle generalizzazioni. Questo non accade in discipline come la Storia, che tuttavia ha offerto un contributo rilevante all’analisi del suicidio. Barbagli è convinto che la ricerca sociologica contemporanea sia debole.

Soltanto il testo di Baudelot e Establet dal titolo “Suicidio. Il rovescio del

nostro mondo”215

fa il punto sulle trasformazioni in corso e considera la diminuzione dei tassi di suicidio negli ultimi venti anni nei paesi occidentali.

Generalmente invece i sociologi contemporanei presentano dati indirizzati a riconfermare la tesi di Durkheim, secondo la quale l’integrazione riduce il rischio di suicidio, ma non si impegnano a individuare la causa della diminuzione dei tassi di suicidio. Invece la ricerca storica appare più innovativa insieme a quella psicologica.

Barbagli conclude che non si possa ridurre tutto a un approccio di tipo sociologico vista la complessità del fenomeno che allora richiede la combinazione di impostazioni diverse tra loro. Egli afferma ad esempio che i sociologi dovrebbero fare maggiormente i conti con i fattori psichiatrici che potrebbero molto contribuire alla spiegazione del complesso problema del suicidio216.

215 Cfr. C. Baudelot, R. Establet, Suicidio. Il rovescio del nostro mondo,

http//Journales.openedition.org//lecture/302, consultato il 23/03/ 2018

216

Cfr. M. Barbagli, D. Tosini, Suicidio e globalizzazione, in “Periodico Unitn”, 113, http//periodicounitn.unitn.it, consultato il 16/04/2018

110

Conclusioni

Il tema del suicidio acquista nel pensiero di Émile Durkheim un ruolo non secondario, trattandosi della prima indagine empirica svolta su un aspetto della società a lui contemporanea, che incide fortemente sull’ordine sociale ed è, a sua volta, influenzato dai livelli di coesione e di integrazione.

Il tema si colloca dunque nel più ampio contesto degli obiettivi che Durkheim si poneva, legati, da una parte, al timore che la società dei Paesi europei del suo tempo si disgregasse e, dall’altra, al desiderio e all’impegno di far conseguire alla Sociologia il pieno riconoscimento del mondo accademico, in quanto scienza vera e propria, indipendente dalla filosofia.

Il suicidio, agli occhi di Durkheim, diventa espressione di una sorta di disordine sociale e quindi non tanto di un disagio individuale, quanto piuttosto di condizioni strutturali che rimandano a cause precise, quali l’integrazione e la regolamentazione sociale.

Indubbiamente il pensiero di Durkheim si lega in misura profonda ai tratti storici di un periodo segnato da veri e propri sconvolgimenti, soprattutto in Francia, prima dalla caduta del Secondo impero, l’esperienza della Comune parigina, poi anche l’affare Drayfus, che scosse l’opinione pubblica francese e non solo. Se a questo si accompagna la provenienza familiare di Durkheim, che appartiene alla classe rabbinica, meglio si comprende quanto il tema dell’ordine abbia toccato nel profondo uno studioso deciso a occuparsi di quei fatti sociali, che sono osservabili e da studiare con il metodo delle scienze già allora affermate.

Durkheim, consapevole di vivere in un’epoca di transizione e di crisi, ritiene necessario costruire un nuovo ordine sociale e, di conseguenza, anche una nuova morale in virtù della pressione delle cause interne alla società che la rendono necessaria insieme a un’altrettanto improrogabile riforma delle Istituzioni sociali.

È compito della Sociologia come scienza occuparsi dei fatti sociali che, pur essendo di natura morale, sono esteriori e costrittivi sia rispetto allo scienziato, per cui egli li può osservare, sia rispetto agli attori, sui quali esercitano una costrizione del tutto particolare. Basti fare riferimento a quelle correnti suicidogene che, secondo Durkheim, determinano il tasso di suicidio; esse hanno vita indipendente dagli individui, ma esercitano su di loro una costrizione che

111 provoca il suicidio. Per questo Durkheim può definire il fatto sociale come ogni modo di fare, più o meno fissato, in grado di esercitare sull’individuo una costrizione esterna.

L’attenzione è dunque duplice perché, attraverso l’analisi empirica del fenomeno del suicidio, Durkheim dà testimonianza di come non si possa trattare di un atto legato a intenzioni individuali, quanto piuttosto a condizioni sociali, ma al tempo stesso come il suicidio costituisca un problema importante per l’ordine sociale in quanto indice di crisi della società quando questa sia angustiata da cambiamenti troppo rapidi che minacciano sia l’esistenza della società stessa sia quella degli individui. Così Durkheim individua alcune forme di suicidio sulla base del criterio dell’integrazione e della regolamentazione; così esso può diventare di natura egoistica in mancanza di integrazione, altruistico quando si verifica un eccesso di subordinazione alle norme, anomico quando queste siano del tutto assenti. Tali principi sottintendono la necessità delle norme, poiché gli individui, sottratti a ogni disciplina esterna, sarebbero in eterna lotta tra loro, essendo smisurati i loro desideri. Questi ultimi sono fonte di disgregazione dell’ordine, tanto da rendere necessaria quella costrizione esterna che è assicurata dalla società.

Così Durkheim subordina il singolo al gruppo mentre l’ordine diventa normativo e consensuale perché fatto proprio dagli individui. Si giunge, per questo, a spiegare in termini sociali il suicidio, che è invece generalmente un fenomeno interpretato a partire da motivazioni di carattere personale.

Il testo di Durkheim sul suicidio tiene allora conto del particolare contesto storico, della necessità di studiarlo come fatto sociale direttamente osservabile, affidandosi a quei dati statistici che in vari Paesi venivano pubblicati su questo drammatico evento e dagli scritti di Autori contemporanei come quello di Enrico Morselli dal titolo “Il suicidio”. Si tratta dunque di una ricerca empirica condotta da Durkheim, che però si richiama a dati statistici di prima, ma anche di seconda e terza mano, a cui quindi il sociologo forse chiedeva troppo.

Durkheim non aveva a disposizione strumenti statistici adeguati e questo è sicuramente un limite, ma rimane la consapevolezza di quanto Il suicidio costituisca il primo grande esempio di ricerca su base statistica nella storia della

112 Sociologia, nella quale si opera il tentativo di verificare ipotesi che nascono e derivano da una precisa teoria sociologica. Da qui l’impegno di Durkheim a studiare il tasso del suicidio nei diversi Paesi per rilevare come esso risulti notevolmente costante. Questo rafforza ulteriormente la necessità di respingere il criterio delle motivazioni individuali che sono invece mutevoli. Durkheim così, nella pars destruens dell’opera, contesta il rapporto tra stati psicopatologici e suicidio, tra quest’ultimo e l’alcolismo, tra il suicidio e i fattori genetici; nega anche il ruolo dei fattori climatici come la temperatura e rifiuta il fenomeno