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I limiti di un’indagine di tipo eziologico

Considerazioni critiche sul Saggio “Il Suicidio”

4.3. I limiti di un’indagine di tipo eziologico

Per Durkheim scopo della sociologia è quello di spiegare i fatti sociali e questo può verificarsi soltanto facendo riferimento ad altri fatti sociali precedenti. Ciò significa cercare la spiegazione della vita sociale nella natura stessa della società.

La spiegazione nelle Scienze sociali, come del resto in quelle naturali, diventa individuazione di catene causali che allora esistono indipendentemente da qualsiasi attribuzione di cause ipotizzata dal ricercatore, visto come tali collegamenti siano dati in sé, che dipendono dalla natura delle cose e non dalle ipotesi dello studioso. Le relazioni causali sono allora universali e necessarie e non hanno bisogno di interpretazione.

Su queste basi Durkheim può affermare che, anche nelle Scienze sociali, è possibile formulare vere e proprie leggi attraverso la ricerca delle cause necessarie, comunque sempre antecedenti al fenomeno che si intende spiegare.

Nell’opera Il suicidio Durkheim si avvale di un’analisi causale, condotta a livello macroscopico, che mette in relazione gli effetti sociali con le cause di tipo sociale. Indubbiamente questo limita in parte il suo lavoro, poiché gli interessa esclusivamente specificare una serie di modelli utili a cogliere le cause sociali del suicidio. I modelli utilizzati da Durkheim non sono quelli tipici delle Scienze sociali contemporanee visto come egli si limiti a confrontare la variabile dipendente tasso di suicidi con quella di una tra le possibili variabili indipendenti, come può essere il tasso degli alienati, per poi riesaminare in modo sistematico questa relazione, ma in condizioni differenti, come su tipi di religioni diverse, per i maschi e per le femmine. È come se Durkheim introducesse una terza variabile per controllare se questa produce variazioni nel tipo di relazione osservata all’inizio tra la variabile dipendente, il tasso sociale di suicidi, e quella indipendente, il tasso degli alienati.

Per definire i modelli di Durkheim basta osservare che nella relazione tra tasso

dei suicidi (variabile dipendente) e tasso di alienati (variabile indipendente), viene

introdotta, una per volta, una serie di variabili di controllo, ad esempio il sesso e la nazionalità, che mostrano l’inesistenza di una relazione causale tra le due variabili iniziali. Per Durkheim, infatti, una relazione di causa/effetto non è mai definitiva

95 se il legame tra due variabili in quella sequenza viene individuato soltanto in qualche caso isolato.

Esistono, per questo, posizioni critiche nei confronti del metodo durkheimiano, poiché è il punto di partenza a non risultare sempre convincente, quello secondo il quale i fatti sociali siano dati in sé, presenti nella natura delle cose, per cui anche il suicidio può essere soltanto considerato come fatto sociale e non legato a fattori extrasociali, come invece si afferma soprattutto in sede psicoanalitica.

Durkheim addirittura, nel suo modo di procedere per indagare le cause delle variazioni del suicidio nelle diverse società, ricorre spesso a elaborazioni molto complesse. Ad esempio, quando si sofferma sulle variazioni di suicidio nelle società matrimoniali, per comprendere quale tipo di relazione esista tra stato civile e tasso dei suicidi, egli ricorre a molte variabili supplementari fino a trovare quella che determini differenze davvero significative. Sostengono in merito Acocella e Cellini: “Il risultato finale è che, a parità di età, anche se sono più preservate dal suicidio le persone sposate senza figli rispetto a quelle celibi della stessa età, e questo accade in misura più elevata per gli uomini, la probabilità di ricorrere al suicidio diminuisce in misura sensibile se siano presenti figli”191

. Durkheim allora opera la sua inferenza, secondo la quale il matrimonio ha soltanto una scarsa influenza sull’immunità degli sposati rispetto al suicidio, poiché in realtà sono i figli a fare la differenza. Così i vedovi con figli risultano più preservati dal suicidio degli sposati senza figli. Dal punto di vista del modello, questo significa che Durkheim condiziona il rapporto tra stato civile, variabile indipendente, e tasso dei suicidi, variabile dipendente, per mezzo della variabile

sesso, tenendo costante la variabile classe di età che porterebbe a

un’interpretazione sbagliata.

Durkheim introduce anche una quinta variabile di controllo, che è data dalla

presenza/assenza di figli così da specificare l’aspetto della variabile indipendente

che influenza direttamente quella dipendente. Certamente Durkheim non si limita a individuare, per una sola volta, una relazione tra le variabili, poiché in realtà egli replica quella stessa osservazione, ma in situazioni e contesti diversi, così da evitare che la relazione possa scaturire dal caso. Quando, ad esempio, Durkheim

96 analizza il suicidio egoistico, egli rileva come in Francia i tassi di suicidi dei protestanti siano più alti di quelli dei cattolici, ma ripete la comparazione tra religione e suicidio moltissime volte. Per questo acquista significato e forza la generalizzazione che egli opera, essendo motivata da innumerevoli dati empirici, ma in mancanza di dati utili, interviene l’interpretazione. Così egli si vede costretto a utilizzare altre variabili, magari latenti, che lo obbligano all’interpretazione e quindi a utilizzare le proprie conoscenze per dare un significato alle relazioni stesse. Ad esempio, come già sottolineato, parlando del suicidio egoistico, egli rileva in maniera empirica alcuni aspetti che incidono sui tassi di suicidio, come l’essere o meno coniugati, la presenza o assenza di figli che allora vengono utilizzati come variabili indipendenti per indagare le cause del tasso di suicidio. Poiché attraverso l’analisi Durkheim trova che ciascuno di tali aspetti assume lo stesso effetto sul tasso di suicidi, allora ricorre all’interpretazione affermando come, a influenzare il tasso, sia il grado di integrazione che essi favoriscono. In questo modo egli trova una causa unica.

Sostengono ancora Acocella e Cellini: “Durkheim assume quindi che questi aspetti della società familiare favoriscono o sfavoriscono l’integrazione nella società stessa, ma allo stesso tempo afferma che essi sono segnali di un certo grado di integrazione”192

.

Per Durkheim la condizione negativa vissuta dalla società francese gioca un ruolo non secondario sulla variazione del tasso di suicidi, ma è altrettanto vero che essa in qualche modo misura lo stato stesso di crisi. “Il tasso di suicidi è quindi allo stesso tempo effetto dell’assenza di integrazione e indicatore di questa”193

. Se allora un indicatore può essere al tempo stesso considerato causa o effetto del concetto che sta a indicare, allora il rapporto di indicazione e la relazione causale si collocano a due diversi livelli, poiché il primo è di natura semantica e può essere sottoposto a controllo empirico soltanto attraverso la mediazione delle valutazioni del ricercatore e di quelle della comunità scientifica; invece la relazione causale è legata a un modello e può essere sottoposta direttamente a controllo empirico.

192 Ivi, p. 7 193 Ibidem

97 Occorre sottolineare inoltre che, pur considerando Durkheim l’esperienza empirica come centrale, certe dimensioni latenti non sono sempre rilevabili a livello empirico, per cui il procedimento di indicazione dei concetti può avvenire soltanto a livello teorico, tanto che Durkheim deve basarsi sulle conoscenze già acquisite.

Se allora il lavoro svolto da Durkheim è senza dubbio innovativo per i suoi tempi, non sempre la metodologia di ricerca gli garantisce risultati efficacemente rispondenti alla realtà. Avendo egli osservato, in Francia, una relazione tra il numero di persone che vivono di una propria rendita, e il tasso di suicidi, più elevato nei dipartimenti in cui più alto era il numero di benestanti, Durkheim inferiva che i poveri si uccidono meno, ma si tratta di un errore legato a un modello di tipo ecologico.

Un limite altrettanto evidente è dato poi dal modo in cui Durkheim utilizza le statistiche ufficiali194. Seguendo il metodo induttivo, egli ritiene che esse possano cogliere bene l’aspetto coercitivo, ma anche esteriore che caratterizza ogni fatto sociale. Durkheim muove dalla convinzione che ci sia corrispondenza tra fatto empirico e il dato statistico che lo rivela, per cui le statistiche ufficiali costituiscono una misura esatta della distribuzione del suicidio in rapporto al fatto che i fenomeni vengono descritti in dipendenza dalla natura delle cose, che può essere conosciuta attraverso l’osservazione, non influenzabile dalle convinzioni di chi osserva, ma soltanto da quello che si osserva nel mondo.

Così la formulazione di un concetto richiede che ne siano delineati i caratteri esteriori e percettibili con immediatezza. Dunque la formulazione di un concetto ha sempre un fondamento empirico. Poiché però i concetti hanno carattere epistemologico, perché caratterizzati da elementi naturali e fissi, essi sono immutabili e indipendenti dall’attività conoscitiva dell’uomo. Così il sociologo non si avvale dei concetti come strumenti del pensiero e quindi utili o meno, quanto piuttosto come rappresentazioni fedeli della realtà e anche uno specchio fedele delle gerarchie che in queste esistono.

Su queste basi allora Durkheim si convince che il pensiero sia in grado di cogliere le essenze osservando le caratteristiche che si ripresentano in maniera

194

98 costante nella realtà, per cui essa diventa il modo per creare inferenze che non sempre sono invece sorrette dai dati. In genere si è portati a rilevare come Durkheim non faccia distinzione tra il modo di procedere delle Scienze sociali e di quelle naturali.

In realtà nelle Scienze sociali è quasi impossibile istituire nessi fra affermazioni nelle quali si registrano la presenza e la forma dell’influenza causale esercitata da una variabile su un’altra, come accade invece nelle Scienze sperimentali, quelle naturali, cioè senza alcun intervento delle conoscenze del ricercatore poiché molte interpretazioni dipendono dalle sue conoscenze. Le spiegazioni però non sono pensabili come vere o false, ma solo come plausibili proprio perché dipendono dall’interpretazione. Inoltre nelle Scienze sociali

le pretese di universalità, che per Durkheim si basano sull’assunto circa la sostanziale uniformità della natura, si scontrano con i limiti epistemologici della disciplina rintracciabili nella non fungibilità dell’unità di analisi (dal momento che un individuo non è rappresentativo di tutti gli altri individui), nella mancanza di un accordo universale sulle definizioni operative di un qualsiasi concetto (che devono essere quindi adattate alla situazione spazio-temporale in cui si fa ricerca) e, infine, nella difficoltà di distinguere in modo netto le variabili rilevanti da quelle irrilevanti; questo comporta spesso l’impossibilità di includere in un modello tutte le possibili variabili che, in un certo modo, influenzano un determinato fenomeno195.

L’aspetto che più colpisce dell’approccio analitico di Durkheim è il fatto che, talvolta, le sue scelte metodologiche portano a generalizzazioni in qualche misura azzardate.

Se sul piano metodologico si possono individuare possibili limiti, rimane comunque la consapevolezza di quanto la ricerca portata avanti da Durkheim mantenga tutta la sua significatività, tanto da costituire, per quanti si avvicinano a problematiche di carattere sociale, un punto di riferimento imprescindibile.

Rimane altresì la chiarezza di una scelta di fondo, prioritaria, per Durkheim, quella di muovere sempre dai fatti sociali, quelli che egli definisce cose, per evidenziarne la concretezza e risalire poi alle dovute generalizzazioni. Questo porta alla scelta del metodo induttivo, su cui talvolta possono non esserci condivisioni. Tuttavia occorre ammettere che Durkheim è sempre stato fedele a questa impostazione.

99 Relativamente, invece, ai contenuti dell’indagine riguardante il suicidio, è indubbio come Durkheim abbia avuto la capacità di affrontare in modo nuovo fenomeni individuali, considerati talvolta abnormi e fatti risalire generalmente a caratteristiche irrazionali dei singoli individui, se non addirittura a forme di malattie mentali. Durkheim ha il merito di affermare, dimostrandolo, che essi sono da far risalire, nel loro complesso, a un fatto sociale specifico, cosicchè, analizzati in ambito sociologico, vengono ricondotti a un insieme specifico di cause di carattere socio-culturale.

Indubbiamente il Saggio sul suicidio risente di critiche dovute alla specifica impostazione da cui il ricercatore muove. In ambito neuropsichiatrico, ad esempio, si continua ad affermare che il suicidio è sempre l’espressione di una malattia mentale di accentuata gravità, come la schizofrenia o la depressione, se non addirittura si risale a una malattia cerebrale di natura genetica.

In questa prospettiva la lezione di Durkheim appare inaccettabile, visto come il sociologo attribuisca fenomeni comportamentali individuali a specifici fatti sociali, la cui spiegazione fa riferimento a circostanze sociali ben precise. C’è dunque, intorno all’indagine di Durkheim, da considerare una precondizione; si può infatti essere d’accordo quando si privilegi l’impostazione sociologica mentre, in ambito psichiatrico, il saggio di Durkheim non può essere accettato come valido.

Allo stadio attuale degli studi su varie forme di disagio psichico, come quelli riguardanti il comportamento alimentare oppure disagi che si esprimono in attacchi di panico, gli studi di Durkheim possono risultare utili data l’ampia diffusione di questi fenomeni che contrastano con qualsiasi ipotesi genetica per far invece pensare a cause di carattere sociale.

Se allora, sul piano metodologico, sono state espresse critiche appropriate, una scienza del disagio psichico non può ancora oggi non tener conto degli studi di Durkheim. Basti soltanto pensare alla distinzione che egli opera tra suicidio egoistico, altruistico e suicidio anomico, su cui si può essere più o meno d’accordo, senza tuttavia mettere in dubbio il fatto che essa si fonda su un assunto fondamentale, secondo il quale nei suicidi entra in gioco, in ogni caso, il grado di integrazione dell’individuo nella società. Durkheim lo definisce a partire dal

100 sociale, che può promuovere un’eccessiva individualizzazione oppure inibirla in nome dell’appartenenza sociale, ma anche non riuscire a proteggerla quando si verifichino cambiamenti improvvisi e profondi.

Dunque il lavoro di Durkheim sul suicidio mantiene tuttora un’importanza significativa, anche se sono inevitabili, a distanza di tempo, sviluppi ulteriori che danno del suicidio interpretazioni più ampie. In questi ultimi anni infatti è cambiato anche il modo di costruire spiegazioni. Il suicidio, ad esempio, è un fenomeno che può dare luogo a una classe di spiegazioni di carattere argomentativo così che potrebbe essere sufficiente ricorrere a meccanismi individuali e quindi interne al soggetto per mostrare le ragioni di questo comportamento. Si tratta di modelli di spiegazione causale che allora interpretano il suicidio come fatto individuale, senza entrare comunque nel merito di teorie psicologiche e psichiatriche.

Può essere significativa in questo senso un’analisi di quello che è definito determinismo individuale di matrice neurobiologica nei rapporti con la genetica.

Quest’ultima infatti è la scienza che cerca di cogliere nella struttura interna dell’individuo i fattori che determinano il destino di ciascuno. Esistono studi, come quelli di Jamison196, che evidenziano come molte famiglie presentino, al loro interno, un’alta presenza di suicidi così da motivare su questa base il ruolo della genetica sui comportamenti suicidari. In questi casi si valuta la trasmissione di tratti del Dna che influenzerebbero in maniera significativa l’atto del suicidio. I genetisti, per negare ed eliminare l’influenza dei fattori socio-ambientali e rilevare al contrario una predisposizione genetica al suicidio, hanno confrontato statistiche riguardanti questo fenomeno in gemelli monozigoti con gemelli dizigoti. I primi hanno uno stesso materiale genetico, mentre per i dizigoti non è così. Per i genetisti la presenza di un tasso di suicidio più alto nei primi che nei secondi, renderebbe elevata la probabilità dell’esistenza di un fattore genetico predisponente al suicidio 197.

196

Cfr. K. R. Jamison, Nights Fall Fast, Alfred A. Knopf, New York, 1999

197

Cfr. T. Vitale, Fatti sociali, individualismo cognitivo e determinismo individuale, in “Sociologia e ricerca sociale”, n° 95, 2011, p. 50

101 A sua volta Roy198 ha dimostrato come il suicidio di entrambi i gemelli sia 8,5 volte più frequente fra i monozigoti che tra i dizigoti. Lo stesso Roy e altri studiosi, compiendo una ricerca su 176 coppie di gemelli delle quali 9 si erano suicidate, ha evidenziato come 7 fossero di gemelli monozigoti e due di gemelli dizigoti.

Già nel 1994 comunque Nielsen e altri avevano spiegato l’ereditarietà del suicidio, avendo identificato un gene responsabile di aiutare la sintesi della seretonina, la cui mancanza sarebbe la causa delle evidenze riscontrate negli studi dei gemelli.

Fino a qui ci si è mossi secondo una prospettiva genetica, mentre la neuro- biologia ha proceduto, nell’indagine sul suicidio, analizzando il tessuto del cervello di individui morti. In queste ricerche sono stati osservati i sistemi dei neuro-trasmettitori cerebrali e si è riscontrata in molti dei campioni osservati, la diminuzione dei livelli di seretonina e di acido5-idrossiindolacetico e le anomalie del sistema serotoninergico sarebbero l’espressione di una predisposizione verso comportamenti suicidari199.

Perfino la farmacologia si è occupata delle problematiche suicidarie. Sono stati soprattutto Baldessarini e Tondo, nel 1998200, a studiare il trattamento con litio in riferimento al rischio di suicidio. Hanno dimostrato come, nel corso della terapia con litio diminuisse di circa sei volte l’incidenza dei comportamenti suicidari.

Questi studi sono stati più volte confermati per cui la terapia con il litio avrebbe un effetto protettivo. Anche l’anoressia e, più in generale, i disturbi del comportamento alimentare insieme alla depressione non sarebbero da far risalire a cause sociali, ma al determinismo individuale.

Si tratta ovviamente di ricerche che negano lo statuto sociale e relazionale dei fatti sociali, per far risalire il suicidio alla singola realtà dell’individuo. Manca tuttora comunque un’elaborazione incrociata tra fattori genetici e posizioni sociali dei suicidi; sarebbe forse interessante che varie conoscenze del sapere genetico e

198

Cfr. A. Roy, D. Nielsen, G. Rylander, M. Sarchiapone, N. Segal, Genetics of Suicide in

Depression, “Journal of Clinical Psychiatry”,60, suppl. 2,1999, pp. 12-20

199

Cfr. Ibidem

200 Cfr. R. J. Baldessarini, L. Tondo, Antisuicidal Effect of Lithium Treatment in Major Mood

Disorders, in Jacobs, Harvard Medical School Guide to Assessment and Intervention in Suicide,

102 anche di quello farmacologico fossero studiate come variabili della spiegazione di Durkheim. Egli definisce il suicidio come un fatto sociale che dipende dalle modalità di integrazione o meno degli individui nella società, ma anche dal livello di soggezione di questi alle regole della coscienza collettiva. Rispetto a questo molti sociologi hanno continuato a dubitare sulla possibilità di fondare una scienza dei fenomeni morali. Così, ad esempio, si sostiene l’importanza di analizzare come i singoli individui diano senso e significato al proprio suicidio e a quello degli altri.

In tale contesto i dati etnografici sarebbero gli unici concretamente osservabili per cui occorrerebbe affidarsi a una descrizione fenomenologica come risultato dell’osservazione e della ricostruzione del significato che chi si suicida attribuisce alla propria scelta. Anche in questo caso allora si va verso un’interpretazione soggettivistica del suicidio.

A questo si accompagna poi il modo in cui, in ambito sociologico, è andato modificandosi il concetto di anomia. Mentre per Durkheim essa costituisce una caratteristica e una proprietà della società stessa, oggi è considerata o un tratto della personalità oppure un insieme di comportamenti, in ogni caso è sempre un attributo interno agli individui. Attualmente è difficile distinguere anche il concetto di anomia da quello di alienazione. A questo si aggiunge il fatto che lo utilizzano anche gli studiosi di matrice psicologica. Sostiene in merito Tommaso Vitale: “Il concetto di anomia si è prima individualizzato e poi ‘psicologizzato’, separandosi dalle teorie della società: il concetto che, con Durkheim, caratterizzava uno stato del sistema sociale è stato applicato più tardi allo stato dell’attore individuale e poi ai suoi atteggiamenti e stati d’animo”201

.

Particolari sono poi il giudizio e l’interpretazione che del testo di Durkheim Il

suicidio hanno dato Boudon e Viale nel 2000. Essi infatti sostengono che

“illustrando il nesso tra momenti di boom economico e alti tassi di suicidio, Durkheim abbia una spiegazione basata sulla razionalità di tipo individuale, fondata perciò su un’analisi psicologica, in contraddizione con i suoi principi metodologici”202

. Secondo i due Autori, Durkheim avrebbe sostenuto che, in un

201 Ivi, p. 60

202 R. Boudon, T. Viale, in T. Vitale, Fatti sociali, individualismo cognitivo e determinismo

103 ciclo economico espansivo, nel quale la situazione finanziaria di molte persone migliora, queste ultime cambiano le proprie aspettative sugli obiettivi da raggiungere. Durkheim insomma “avrebbe introdotto implicitamente l’ipotesi secondo cui le persone formulerebbero le proprie incertezze estrapolando, dal