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Il Suicidio di E. Durkheim. Storia, aspetti critici, attualità.

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UNIVERSITA’ DI PISA

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

Tesi di laurea

Il Suicidio di E.Durkheim.

Storia, aspetti critici, attualità

CANDIDATA

Mariastella Stanco

RELATORE

Prof. Andrea Borghini

(2)

1

INDICE

Introduzione

2

Capitolo 1 Durkheim e la sociologia come scienza

1.1. Émile Durkheim nel complesso quadro storico di fine Ottocento 4 1.2. La Sociologia come scienza 9 1.3. Il metodo sociologico e le sue regole 12 1.4. Società, Stato, Educazione 17

Capitolo 2 Il suicidio nella Sociologia di Durkheim

2.1. La consapevole rinuncia alla vita come fatto sociale

24

2.2. I fattori extrasociali del suicidio: l’ereditarietà

31

2.3. Il rapporto follia-suicidio

38

2.4. Dai suicidi della follia ai tipi sociali di suicidio

41

2.5. Dalla teoria del tipo medio alla tendenza suicidogena sociale

52

Capitolo 3 Il suicidio tra educazione morale e religiosa

3.1. I fondamenti di una morale laica

59

3.2. Gli elementi costitutivi della morale durkheimiana

66

3.3. Il significato del dovere e del bene

75

3.4. Il ruolo della religione secondo la morale laica

78

Capitolo 4 Considerazioni critiche sul Saggio “Il Suicidio”

4.1. Il suicidio secondo Durkheim: una definizione ancora attuale?

84

4.2. Il problema del metodo: osservazioni critiche

89

4.3. I limiti di un’indagine di tipo eziologico

94

4.4. Le tesi di Marzio Barbagli: oltre il metodo durkheimiano

103

Conclusioni

110

(3)

2

INTRODUZIONE

Il suicidio costituisce, da sempre, un atto variamente interpretato nei diversi contesti culturali, tanto da rappresentare, a seconda dei luoghi, dei valori dominanti in una società, un comportamento eroico, o, al contrario, un’azione discutibile, da ripudiare soprattutto in ambito religioso.

Interrogarsi oggi su questo fenomeno che aumenta o diminuisce a seconda dei tempi storici, delle condizioni sociali, delle situazioni soggettive, significa in primo luogo comprendere se sul tasso di suicidi giochino un ruolo determinante i fattori sociali oppure quelli prettamente individuali. Porsi tali interrogativi, documentandosi, vuol dire incontrarsi inevitabilmente con un Autore e con un’opera titolata non a caso “Il Suicidio”, quindi, con Émile Durkheim. Se è vero infatti che i tempi cambiano, così come gli apporti degli studi delle Scienze umane, tanto da modificare anche i modi di intendere le cause dell’aumento o meno delle tendenze suicidogene, è altrettanto vero che un punto di riferimento è dato dall’opera di Durkheim di cui, in questo lavoro di tesi, si cerca di cogliere ancora una possibile attualità.

Per dare risposta a tale interrogativo, nel primo capitolo si esamina il quadro storico di fine Ottocento che tanto influisce sullo sviluppo del pensiero dell’ Autore, soprattutto la realtà della Francia, della guerra franco-prussiana, con gli eventi della Comune parigina, insieme al ruolo progressivamente assunto dalla Sociologia come scienza.

L’attenzione di Durkheim per il suicidio si lega infatti al compito affidato alla Sociologia impegnata a studiare i fatti sociali come cose e quindi a muoversi in direzione empirica. Da qui l’interesse per il metodo sociologico e le sue regole così da comprendere il peso del tasso di suicidi in rapporto alla divisione del lavoro, al livello di regolazione e coesione della società stessa.

È nel secondo capitolo che si affronta e si analizza più a fondo il modo in cui Durkheim considera il suicidio, inseparabile dai cambiamenti rapidi che caratterizzano la società a lui contemporanea, tanto da generare talvolta un’assenza di norme che pesa sulle scelte individuali. Si esaminano le tipologie di suicidio senza perdere di vista le critiche mosse da Durkheim a quanti sostengono come responsabili di questo atto motivi extrasociali, quali l’ereditarietà, ma anche

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3 la follia. L’analisi delle tipologie di suicidio, inteso come fatto sociale, è a sua volta da riconnettere al problema dell’ordine che viene a costituire una preoccupazione di forte valore morale visto come la Francia di Durkheim sia quella che toglie la religione dalle scuole e favorisce lo sviluppo di una morale laica. La morale può diventare così uno strumento di coesione sociale e di sicurezza per tutti gli individui. È quanto si esamina nel capitolo terzo nel quale il problema del suicidio e l’educazione morale diventano elementi interconnessi, entrambi da far risalire al bisogno di una società che garantisca il bene comune attraverso la costrizione delle sue regole. Su queste basi diventa possibile comprendere quanto il suicidio occupi, nel pensiero di Durkheim, un ruolo importante avendo dato luogo all’unica indagine empirica portata avanti dall’Autore e sia espressione del ruolo autonomo assunto dalla Sociologia come scienza che studia appunto i fatti sociali. Da qui, nel capitolo quarto, le considerazioni critiche, da più parti sostenute, a partire da Barbagli, su un testo “Il Suicidio” che, pur mantenendo un ruolo di primo piano in ambito sociologico, può apparire oggi non più esaustivo alla luce di nuove ricerche e di un modo integrato di intendere l’apporto delle Scienze umane, in particolare una Sociologia dotata di strumenti più o meno affinati d’indagine, della Psicologia, dell’Antropologia e del Diritto.

(5)

4

Capitolo 1

Durkheim e la sociologia come scienza

1.1. Emile Durkheim nel complesso quadro storico di fine Ottocento.

La complessità e il significato dell’opera di Émile Durkheim appaiono inseparabili dal più ampio contesto storico-culturale in cui egli vive e porta avanti studi di tipo sociologico strettamente connessi alle vicende che caratterizzano la Francia di fine Ottocento e primo quindicennio del Novecento, a loro volta legate alla situazione europea che avrebbe portato al primo conflitto mondiale.

Durkheim, di origine ebraica con un padre rabbino, sperimenta in primo luogo l’austerità di una condizione di vita fortemente segnata dall’idea dell’ordine, della solidarietà, del valore del dovere e della religione all’interno delle relazioni umane. Sostiene in merito Stefania Mariani:

Se si volesse racchiudere in poche parole il senso della riflessione di Durkheim, si potrebbe ricordare che egli fu figlio di un rabbino e discendente di una famiglia di rabbini. È a queste radici che occorre ricondurre il costante impegno etico che caratterizza tutta la sua opera, quel duplice bisogno di comunione tra gli uomini e di legge che costituisce un tratto distintivo della sua personalità1.

E Luciano Cavalli aggiunge: “Il suo problema fondamentale di sociologo fu quello dell’ordine: in concreto quello di dare una nuova base morale al popolo francese, già che le antiche credenze erano in crisi”2

.

A sua volta il clima di fine secolo, che ha prima sperimentato la fiducia ottimistica nei poteri di progresso della scienza attraverso il Positivismo, vive ormai l’intensa delusione di una cultura filosofica apparsa incapace di tener conto delle singole individualità, della psicologia di ogni soggetto, dei suoi stati emozionali. Non è un caso che il primo Novecento veda il dispiegarsi degli studi freudiani e, in particolare, la nascita della Psicoanalisi, che sposta l’attenzione dai fenomeni oggettivi alla complessità dell’Io in cui le pulsioni, il mondo istintuale,

1

S. Mariani (a cura di) Durkheim. Dizionario delle idee. La sociologia tra riflessione

metodologica e impegno etico-politico, Editori Riuniti, Roma, 1998, Introduzione, p. VII.

2 L. Cavalli in Durkheim. Il suicidio. L’educazione morale, Utet, Torino,1969, Introduzione, p.

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5 tutto quanto si colloca al di sotto della soglia della coscienza condiziona fortemente il comportamento umano. Pur non approdando a questi principi, Durkheim è comunque anche consapevole della debolezza dell’utilitarismo di Spencer, che non accetta, ed è il contatto con figure di primo piano, quali Bergson e Boutroux, ad assumere un peso determinante nello sviluppo del suo pensiero. È particolarmente l’incontro con il pensiero di Comte a dare un forte impulso, una svolta decisiva agli indirizzi di studio di Durkheim, che vorrà occuparsi di un’analisi scientifica, anzi empirica, dei fatti sociali e quindi del funzionamento della società. Comte aveva evidenziato, non a caso, il ruolo insostituibile della sociologia e Durkheim fa propria questa convinzione per poi svilupparla secondo parametri diversi. “Soprattutto dal punto di vista metodologico, Durkheim si pone come il continuatore del sociologo di Montpellier, nel suo sforzo di studiare positivamente i fenomeni sociali”.3

È d’altra parte la condizione storica della Francia a rafforzare in questo studioso la volontà di valorizzare studi di tipo sociologico, che avrebbero permesso di affrontare i problemi di un ordine sociale nuovo, di cui lo Stato francese necessitava dopo il crollo del Secondo Impero. Era stata infatti la sconfitta di Sedan del 1870 a far cadere definitivamente quell’Impero a sfondo borghese che Napoleone III era riuscito a creare. L’invasione prussiana aveva profondamente scosso la coscienza nazionale francese e, pur avendo dato luogo alla Terza Repubblica, aveva senza dubbio lasciato un forte desiderio di rivincita, tanto da alimentare un acceso nazionalismo.

Durkheim sente in misura accentuata le conseguenze di eventi storici così drammatici e, convinto del valore e dell’utilità della nuova Repubblica, essendo egli un liberale moderato e repubblicano, interiorizza con forza l’idea di una Francia capace di vendicare l’onta di Sedan e al tempo stesso di assicurare un contesto sociale ordinato, civile, in grado di venire incontro al bisogno di un mondo diverso. Il suo nazionalismo non è dunque quello di tipo etnico che segnò in misura profonda gli inizi del Novecento in vari Stati europei, per fondarsi al contrario sull’idea di una Francia del riscatto morale e sociale, in grado di affermarsi al pari delle monarchie assolute dominanti in Europa.

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6 Nel 1870 quando Emile aveva appena dodici anni, l’apparente grandezza della Francia fu scossa brutalmente: le armate prussiane frantumarono il glorioso esercito francese, l’unificazione tedesca venne a limitare assai la posizione della Francia in Europa. Non solo: ma la Comune di Parigi dimostrò quanto fosse precaria l’unità nazionale, dopo lo sviluppo del proletariato industriale. Da queste prove sorse la III Repubblica, borghese e laica, ereditando i problemi della doppia guerra, esterna e interna: il problema dell’ordine era forse più in evidenza per il nuovo regime4.

Si tratta, senza dubbio, di un periodo storico molto travagliato che, a livello europeo, ma anche mondiale, vede affermarsi l’imperialismo, soprattutto quello tedesco, sempre accompagnato dalla corsa agli armamenti, dalla conquista ossessiva di nuovi territori. In Durkheim trova invece spazio un nazionalismo che si alimenta di un’esigenza di affermazione soprattutto rispetto alla Germania.

Indubbiamente la vita della Terza Repubblica va poi più ampiamente connessa a quanto, anche sul piano economico-sociale, si stava sviluppando negli Stati Uniti e in Europa. È questo il momento della nascita delle società di massa, che pongono problematiche nuove rispetto al passato, fortemente legate al fordismo, alla diffusione della seconda rivoluzione industriale con un’attenzione specifica alla divisione del lavoro, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta, ma anche allo sviluppo di quei movimenti operai e dei sindacati che avrebbero, da quel momento, posto in primo piano le rivendicazioni salariali, l’esigenza di orari lavorativi più umanamente accettabili, le otto ore di lavoro, e perfino la nascita dei movimenti femministi. Sostiene in merito Marina Cedronio:

L’idea che la società del suo tempo attraversi un periodo di crisi gravissima e che l’azione di riforma sia funzione di una conoscenza razionale dei fenomeni sociali è nello stesso tempo, per Durkheim, una dolorosa constatazione e anche un modo per far valere la sociologia. Quest’ultima può aiutare a produrre modelli culturali, orientando l’opinione pubblica5.

Siamo dunque entro tempi storici complessi che, mentre vedono cadere valori in cui le società ottocentesche si erano a lungo riconosciute, faticano al tempo stesso a crearne di nuovi. Non è un caso che Durkheim, mentre afferma il primato della società sul singolo individuo, porti avanti con determinazione i suoi studi sulla divisione del lavoro sociale, sul ruolo delle religioni e perfino sul tema del suicidio, non più un problema di natura soggettiva e individuale, ma il cui

4 Ivi, p. 9.

5 M. Cedronio, La società organica. Politica e sociologia di Émile Durkheim, Bollati

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7 progressivo aumento si lega, secondo Durkheim, al contesto sociale, alla maggiore o minore forza aggregatrice di una società. “L’andamento dei suicidi dipende essenzialmente da condizioni sociali.[…] Il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione della società”6.

Scrive sempre, a questo proposito, Durkheim nel suo Saggio su Montesquieu e

Rousseau del 18917: “La parte che esprime la società, ed è identica in tutti, è

estesa e potente; ciò che, al contrario, si riporta a noi soltanto e ai nostri affari personali è limitato e senza forza”8

.

Se a questo si accompagna, all’interno delle vicende francesi, l’affare Dreyfus del 1894, legato all’accusa di spionaggio nei confronti di un ufficiale francese di origine ebraica, vittima di un’ingiusta persecuzione, meglio si comprende quanto anche il nazionalismo di tipo etnico alla lunga abbia giocato un ruolo nella storia della Terza Repubblica.

Il capitano Alfred Dreyfus, appartenente allo Stato Maggiore francese, era stato infatti accusato di essere spia dei tedeschi. Processato, condannato, degradato, era stato deportato nell’Isola del Diavolo. L’essere ebreo aveva reso ancora più debole il suo profilo di patriota. Le accuse si basavano in realtà su una perizia calligrafica di un’unica lettera, poi rivelatasi falsa.

Durkheim, di origine ebraica, non poteva rimanere insensibile di fronte a un evento così drammatico, che aveva determinato anche la reazione decisa di intellettuali come Émile Zola, autore della famosa lettera J’accuse. Anche Durkheim si fa paladino dell’innocenza dell’ufficiale, ma il clima entro il quale l’episodio si era verificato testimoniava comunque la delicatezza storica del momento e, soprattutto, il clima agitato di una Repubblica, che doveva fare i conti con il nazionalismo ormai imperante anche nel resto d’Europa tanto da favorire un atteggiamento nazionalistico diffuso, che però, fino a quel momento, in Francia non aveva mai assunto aspetti e dimensioni di tipo etnico. Sostiene Marina

6

R. Guiducci in Durkheim. Il suicidio, Rizzoli, Milano, 1994, Introduzione, pp. 22-23.

7 Cfr. É. Durkheim, Montesquieu et Rousseau, Prècurseurs de la sociologie, Rivière, Paris,

1953.

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8 Cedronio: “L’ipotesi della crisi consente a Durkheim di presentare la sociologia come adatta a comprendere e a risolvere i problemi sociali e gli permette di proporre un modello di società, da lui definito organica, per sottolineare che in essa lotta e tensioni sono transitorie, dovute a un momento di rapida trasformazione sociale”.9

Quando poi il mondo, inteso soprattutto come vecchio continente, si indirizzerà verso la guerra, un conflitto considerato mondiale, ma in realtà tale da coinvolgere in particolare le nazioni europee, Durkheim, che sempre aveva mantenuto l’ansia di riscatto contro la Prussia, diventata ormai Germania, colpevole dell’invasione della sua terra, saluterà la guerra come una importante occasione di riscatto. Sarà un attivista convinto attraverso pubblicazioni, opuscoli, conferenze a favore di un conflitto nel quale tuttavia egli perderà un figlio, fino a morirne di dolore nel 1917.

Aspetti particolarmente significativi del pensiero e dell’opera di Durkheim scaturiscono dunque sia dal contesto storico in cui egli vive, sia dagli eventi biografici, in un rapporto di interscambio reciproco. Basti richiamarsi ancora alla sua origine ebraica, ma anche al ruolo di rabbino svolto dal padre e verso il quale inizialmente egli stesso viene indirizzato anche se poi, colto da una crisi religiosa, egli approderà a una posizione laicistica e agnostica mantenuta fino alla morte.

Questo tuttavia lo porterà sia a riflettere e prendere posizione nei confronti dell’affare Dreyfus, sia a meditare sul ruolo della religione nella società. Non è un caso che gli eventi relativi a Dreyfus avessero riacceso, alla fine del secolo XIX, il nazionalismo, ma anche le discussioni antisemite. Questo spinge Durkheim ad affrontare il problema della religione nella sua globalità nell’opera Le forme

elementari della vita religiosa, pubblicata nel 1912.

Ugualmente l’evento della Comune parigina, il tentativo di realizzare da parte degli operai le idee marxiste, portano Durkheim ad affrontare il tema della divisione del lavoro sociale proprio negli anni in cui si era già verificata la grande delusione della sconfitta di Sedan, che aveva determinato la perdita, da parte della Francia, della regione dell’Alsazia, quella da cui proveniva la famiglia del sociologo.

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9 Sono dunque gli eventi storici a dare un indirizzo specifico agli studi di Durkheim, ma questo testimonia, molto presto, i suoi interessi costanti per i problemi sociali. Da qui l’esigenza di pensare la sociologia come vera e propria scienza autonoma, e quindi soprattutto dalla filosofia, dotata di un suo metodo, attenta a uno studio empirico dei fatti sociali. Sostiene Sabino Acquaviva:

“L’opera di Durkheim parte dall’assunto che sarà poi caro alla sua pedagogia e sociologia dell’educazione, che è possibile dimostrare l’esistenza di fondamenti sociali (o collettivi) della solidarietà e della morale sociale. Dunque l’esistenza e la validità oggettiva dei valori morali sarebbe scientificamente dimostrabile; in particolare, per la società a lui contemporanea, si potrebbe dimostrare la fondamentale morale della divisione del lavoro, e dunque della base essenziale del suo modo di essere.10

Così, mentre il tema della divisione del lavoro costituisce, oltre a un volume specifico, la scelta della tesi di dottorato sostenuta nel 1893, frutto delle letture e delle esperienze compiute a Parigi, ugualmente l’incontro con Jean Jaurès, futuro leader del partito socialista francese, rafforza in lui l’attenzione ai problemi della società.

1.2. La Sociologia come scienza

L’aspetto più determinante del pensiero di Durkheim sta nella volontà di individuare l’oggetto di studio della sociologia ed è significativo poi il modo in cui, nel testo Le regole del metodo sociologico del 1895, egli definisca il fatto

sociale come “qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare

sull’individuo una costrizione esteriore; o anche un modo di fare che è generale nell’estensione di una data società, pur possedendo un’esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali”11.

I fatti sociali consistono quindi in modi di agire, di pensare e di sentire, che sono esterni all’individuo, ma dotati di un potere di coercizione in virtù del quale essi si impongono su di lui. Molto presto, dunque, Durkheim si pone il problema del metodo e comprende l’importanza di una scienza, quale la sociologia, che abbia non soltanto un proprio particolare campo d’indagine, ma sia dotata

10 S. S. Acquaviva in Durkheim. Breviario di sociologia, Newton Compton Italiana, Roma,

1971, Introduzione, p. 9.

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10 operativamente di un metodo oggettivo di studio, una volta delimitato con chiarezza l’oggetto su cui lavorare, quindi i fatti sociali. Si legge in Stefania Mariani:

La costituzione della sociologia come scienza fu una vera e propria sfida personale di Durkheim. Benché questa disciplina fosse nata con il Positismo di Saint-Simon e Comte e sebbene avesse avuto insigni rappresentanti in John Stuart Mill e in Herbert Spencer, è esplicita in Durkheim la convinzione che i sociologi si siano ben poco preoccupati di caratterizzare il metodo che impiegano nello studio dei fatti sociali e che sia ormai giunto il momento di uscire dalle generalità filosofiche e di analizzare i fenomeni sociali come gli altri fenomeni naturali, applicando a essi quel ragionamento sperimentale che aveva dato importanti risultati nelle altre scienze.12

Ci sono insomma, fin dall’inizio, in questo Autore l’impegno, l’interesse, ma soprattutto l’interrogativo di fondo di come sia possibile liberare gli studi sociali da giudizi e valutazioni di tipo soggettivo per delineare un modo oggettivo ed empirico di occuparsene. Non si tratta di un cammino semplice negli anni in cui Durkheim porta avanti i propri studi, nonostante il ruolo assunto dal Positivismo.

Sicuramente lo studio dell’opera di Comte aiuta Durkheim a delineare meglio il ruolo della sociologia, ma rimane in lui la questione del metodo affrontata in maniera costante e con sempre migliore convinzione.

A livello biografico è l’incontro con Wilhelm Wundt, durante il soggiorno in Germania per studiare lo stato delle scienze sociali e dell’insegnamento della filosofia in quel Paese, a determinare la progressiva convinzione della possibilità di condurre lo studio della società su basi scientifiche, visto come Wundt avesse fondato, a Lipsia, il primo laboratorio di ricerche sperimentali in psicologia. Se questo era possibile per la psicologia, Durkheim si convince che valga la pena tentare la ricerca di un metodo scientifico anche per la sociologia. Dopo aver conseguito l’agrégration in filosofia, che gli consente di insegnare nei licei, in questo caso a Sens, Durkheim chiede un anno di congedo per recarsi in Germania, ai fini di una conoscenza scientifica di quella società per occuparsi, in particolare, della ricerca di un metodo che gli permettesse di spiegare i fatti sociali. Questo avviene però nel contesto più ampio di una società, quella francese, che aveva

12 S. Mariani, Durkheim. Dizionario delle idee. La sociologia tra riflessione metodologica e

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11 dovuto affrontare in tempi assai rapidi la dissoluzione di antichi valori e l’urgenza di trovarne di nuovi.

Quando Durkheim torna in Francia, dopo aver pubblicato, nel 1895, il suo testo

Le regole del metodo sociologico, egli accetta la nomina dalla scuola di Troyes

dove pubblica sulla Rivista filosofica due articoli importanti dal titolo Gli studi

recenti di scienza sociale e La scienza positiva della morale in Germania. Ma il

20 luglio 1887 Durkheim era già stato chiamato a insegnare pedagogia e scienza sociale all’Università di Bordeaux, dove, nel 1896, diventa titolare della cattedra di Scienze sociali, la prima istituita nelle Università francesi.

Questo dunque testimonia come egli abbia contribuito, in maniera molto forte, a dare alla sociologia un ruolo autonomo, sia rispetto alla filosofia, sia alla pedagogia.

Ed è proprio il lungo soggiorno a Bordeaux, ben quindici anni, quello più proficuo sul piano dell’attività intellettuale, costantemente rivolta a dimostrare che è possibile una Sociologia che si affidi all’indagine empirica, sappia testimoniare la propria efficacia ai fini della comprensione e dell’interpretazione dei fatti

sociali.

Nel primo Corso tenuto nel 1887 all’Università di Bordeaux, Durkheim aveva affrontato il tema della solidarietà sociale, per poi occuparsi della famiglia e della natura dei legami di parentela, passando poi, dal 1896 al 1900, alla trattazione dell’argomento relativo alla fisica del diritto e dei costumi. Ed è proprio in quegli anni che Durkheim presenta, precisamente nel 1895, una mappa del suicidio in Francia considerato non come dipendente dalla libertà individuale, ma un vero e proprio fatto sociale da studiare nelle sue motivazioni altrettanto sociali, per infine occuparsi, l’ultimo anno in cui rimane a Bordeaux, dell’origine e della natura della religione13.

Non è altrettanto casuale che le maggiori opere di Durkheim siano pubblicate proprio in questo periodo, La divisione del lavoro sociale. Studio

sull’organizzazione delle società superiori, accompagnata, come accadeva allora

nelle discussioni delle tesi di dottorato, da un testo latino, in questo caso Quid

Secundatus politicae scientiae instituendae contulerit e cioè Contributo di

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12

Montesquieu alla costituzione della scienza sociale, mentre nel 1895 Durkheim

pubblica Le regole del metodo sociologico e, nel 1897, Il suicidio. Studio di

sociologia. È proprio in quello stesso anno che egli fonda la Rivista L’Année sociologique da lui diretta fino al 1910, mentre viene aperta la Biblioteca di sociologia contemporanea presso la Casa editrice Alcan. Si tratta di una delle

prime e più importanti riviste a carattere sociologico, che raccoglie intorno a sé studiosi di elevata importanza, quali Lucien Febvre, Marcel Granet, Claude Lévi-Strauss, Georges Davy e vari altri. Questo non significa che Durkheim non spazi in altri campi di studio, in particolare la filosofia, tanto da essere nominato, nel 1902, supplente di filosofia di Fernard Buisson a Parigi, per diventare titolare quattro anni più tardi, e che, nel 1913, sarebbe diventata Cattedra di sociologia

della Sorbona14.

A Parigi l’attività di Durkheim non è comunque particolarmente proficua come a Bordeaux, visto come egli debba affrontare atteggiamenti universitari poco favorevoli a far conseguire alla sociologia un proprio spazio autonomo nei confronti della filosofia. Sarà poi l’evento traumatico della prima guerra mondiale a colpire duramente Émile Durkheim per la perdita di un figlio in guerra tanto da morirne a Fontainebleau nel 1917.

1.3. Il metodo sociologico e le sue regole

Nel pensiero di Durkheim trovano indubbiamente spazio forti richiami alla sociologia di Comte e, in misura minore, a quella di Spencer. Si tratta infatti di due studiosi che si differenziano tra loro, pur rimanendo nell’ambito della filosofia positivistica. Mentre infatti Comte parla di un’evoluzione unilineare verso uno stadio finale, quello che egli definisce “positivo”, utile a valutare passato e presente, ma anche la qualificazione negativa della resistenza allo stadio positivo, per Spencer l’evoluzione è indefinita verso un adattamento a condizioni mutevoli che perciò richiedono aggiustamenti nuovi e costanti. In questo modo il passato ha il suo motivo di essere e anche ciò che del passato rimane nella realtà presente, per cui ogni situazione ha comunque una configurazione adeguata alle

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13 cause che l’abbiano determinata. Dunque i mutamenti che avvengono nella realtà sono sottoposti alla legge evolutiva e, mentre possono essere estremamente numerosi nei tempi lunghi, soltanto una loro piccola parte diventa possibile a breve scadenza. Ne consegue che la società, determinata dalle caratteristiche delle unità che la compongono, ma anche l’organismo sociale non possono essere mutati senza che lo siano anche i loro elementi costitutivi.

Per Spencer insomma la teoria dell’evoluzione, applicata alla società, è destinata a determinare un effetto di stabilizzazione. Così il cammino della società non è possibile da deviare dal proprio corso anche se questo non implica che le azioni degli uomini, essendo fattori naturali sorti nel corso dell’evoluzione, debbano essere trascurate, al contrario da esaminare singolarmente come fattori che possono sollecitare le forze destinate a produrre il mutamento. Sono insomma elementi attivi dell’evoluzione, tali da poterne accelerare o ritardare il corso.

Durkheim, seguendo in linea generale il Positivismo di Comte e Spencer, è portato tuttavia a sviluppare in maniera del tutto personale il suo studio sulla società; egli ribadisce infatti l’autonomia del sociale rispetto alla sua conoscibilità.

Ne consegue un campo di osservazione interessato a unità più limitate rispetto alla società, per cui oggetto di studio della sociologia diventano i fatti sociali. Il loro carattere è fin dall’inizio, per Durkheim, quello dell’esteriorità e costrittività rispetto al singolo individuo. Questi, infatti, li trova già costituiti e non può esimersi dall’accettarli così come sono e quindi tenerne conto. Diventa allora problematica la loro modificazione, essendo dotati, in grado diverso, della supremazia morale e materiale esercitata dalla società sui suoi membri.

Questo non significa che l’individuo non partecipi alla loro genesi, tuttavia perché, secondo Durkheim, si abbia un fatto sociale, è necessario che vari individui mettano insieme la loro azione così che da questa unione derivi un prodotto nuovo. Si tratta di modi collettivi di agire e di pensare che, al di là dell’individuo, sono dotati di una realtà cui conformarsi in ogni momento, visto come siano “cose dotate di un’esistenza propria”15

. Questo significa che essi sono modelli sui quali riversare la nostra condotta e i nostri comportamenti.

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14 Così fatti sociali diventano la morale, la religione, la famiglia, il diritto, tutte le Istituzioni, pur nella consapevolezza di quanto essi rimandino a vari altri fenomeni, a prima vista molto meno identificabili per cui, oltre a quelli evidenti, la sociologia, nel suo sviluppo, ne può identificare di nuovi, così da sottrarli a un’indagine e analisi spesso esclusivamente di tipo psicologico.

Durkheim dunque rivendica alla sociologia, il diritto, la competenza nello studio di fenomeni che, in vari casi, non vengono a questa associati. Ne consegue come, in virtù dei fatti sociali in quanto sempre produzioni collettive ma più facili da delimitare, nell’analisi sociale si possa ottenere una riduzione della generalità, così da giustificare il principio secondo il quale Durkheim dà avvio alla specializzazione in Sociologia.

Questa scienza, nata inizialmente come ricerca totalizzante, riesce ad articolare il proprio lavoro al suo interno; da qui i diversi ambiti sociologici in relazione ai

fatti sociali che vengono esaminati.

È proprio nel primo numero della rivista L’Année sociologique del 1896 che Durkheim parla di sezioni della Sociologia, dando indicazioni per poterle ancora meglio distinguere16. Si potrà allora parlare di Sociologia giuridica, Sociologia del lavoro, ma anche Sociologia religiosa e dell’educazione.

Questo permette a Durkheim, muovendo dal principio del primato sociale su ogni fenomeno individuale, ma anche come risultato dell’aggregazione di tutti i

fatti sociali, di realizzare studi a carattere monografico sul suicidio, sulla divisione

del lavoro, sulla vita religiosa. Rimane fermo il principio secondo il quale sui fatti

sociali domina la società come contesto e come principio per spiegarli, ma

sicuramente ogni fatto sociale mantiene una propria individualità tematica ben diversa, dunque, dalle grandi sintesi operate da Comte e da Spencer. Mentre in questi Autori l’unità omnicomprensiva della Sociologia doveva essere data come certa in via teorica, in Durkheim il primato della società viene confermato attraverso verifiche tratte da fatti sociali empiricamente osservati.

Se allora si può parlare in Durkheim di specializzazione sostanziale, altrettanto vale per il problema del metodo. Mentre Comte e Spencer si erano limitati ad affidarsi al criterio sperimentale, senza andare oltre, Durkheim scrive addirittura

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15 un testo, Le regole del metodo sociologico, per individuare i criteri sistematici da seguire quando si compiano indagini sociologiche. In questo volume, dopo aver confermato come le caratteristiche specifiche dei fatti sociali siano l’esteriorità e la costrittività, egli fissa precise regole necessarie per individuare e analizzare correttamente i fatti sociali. La prima richiede che essi siano considerati come

cose17. Questo pone l’esigenza, come corollario, di rimuovere tutte le prenozioni

cioè quei concetti che si siano formati al di fuori della scienza e, per necessità, non abbiano niente di scientifico, liberandosi “dalle false evidenze che dominano lo spirito del volgo, scuotendo una volta per tutte il giogo di categorie empiriche che una lunga assuefazione rende spesso tiranniche”.18 Il secondo corollario di questa regola esprime invece la necessità di definire con precisione il fenomeno che è oggetto di studio. Per questo Durkheim può affermare: “Occorre assumere sempre come oggetto di ricerca soltanto un gruppo di fenomeni precedentemente definiti mediante certi caratteri esterni ad essi comuni, e comprendere nella stessa ricerca tutti quelli che rispondono a questa definizione”.19

In terzo luogo, occorre ben delineare il concetto di esteriorità e di autonomia dei fatti sociali: “Quando il sociologo si accinge a esplorare un qualsiasi ordine di fatti sociali, egli deve sforzarsi di considerali dal lato in cui si presentano isolati dalle loro manifestazioni individuali”.20

La regola iniziale, quella di considerare i fatti sociali come cose, è allora determinante poiché le altre si richiamano sempre ad essa. Non a caso la seconda è relativa alla distinzione tra normale e patologico per cui “un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato considerato a una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di questa specie, considerate alla fase corrispondente della loro evoluzione”.21

Si tratta forse di una regola assai arbitraria poiché nella valutazione della patologia o della salute di una società entrano spesso elementi molto personali e soggettivi per cui trasferirli nell’analisi della società può causare l’utilizzo di punti di vista i più diversi, ma che sono al tempo stesso legittimi, rimanendo comunque arbitrari. Per la terza regola ci si affida alla costituzione dei

17 Cfr. Ivi, p. 35. 18

E. Durkheim, Breviario di sociologia, op.cit., p. 82.

19 Ivi, p. 85. 20 Ivi, p. 96. 21 Ivi, p. 116.

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16 tipi sociali; secondo Durkheim, “si comincerà col classificare le società in base al grado di composizione che esse presentano, prendendo come punto di partenza la società perfettamente semplice o a segmento unico; all’interno di queste classi verranno distinte varietà differenti, a seconda, che si verifichi la coalescenza dei segmenti iniziali”.22

Anche in questo caso rimane il dubbio che un segmento sociale non sia in realtà semplice, ma dato da una complessa successione e sintesi di elementi, per cui non soltanto non è facile la nozione di semplicità, ma si rischia di cadere nell’arbitrarietà e nel soggettivismo.

Durkheim si preoccupa poi di una quarta regola per fornire una spiegazione organica dei fatti sociali, così che “quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve”.23 Questo richiede altresì che la causa sia ricercata anche tra i fatti sociali antecedenti mentre la funzione di un fatto sociale va individuata nel rapporto che esso ha con qualche scopo sociale24.

Ne consegue che il concetto di spiegazione va in una duplice direzione, poiché occorre individuare le cause dei fenomeni secondo la regola rigorosa della scienza, ma ciò va integrato con lo studio delle funzioni che un fatto sociale svolge, ed è questo a completare il percorso dell’interpretazione. A sua volta è evidente come le cause legate a un fenomeno che diventi un fatto sociale possano essere anche diverse dalle funzioni che esso svolge.

Infine Durkheim si preoccupa, con la quinta regola, della presentazione della prova. Se è vero che a uno stesso effetto corrisponde sempre una stessa causa, è altrettanto vero che un fatto sociale complesso, si può spiegare “soltanto a condizione di seguirne lo sviluppo integrale attraverso tutte le specie sociali”.25

Questo determina i principi portanti del metodo per cui ne consegue una separazione inevitabile tra Filosofia e Sociologia poiché quest’ultima diventa una scienza naturalistica, causale, oggettiva, mentre la Filosofia è legata a dimensioni particolari per proiettarsi “ in direzioni generalizzanti , nelle quali entrano facilmente le passioni.”26 22 Ivi, p. 138. 23 Ivi, p. 148. 24 Cfr. Ivi, p. 163. 25 Ivi, p. 171. 26 Ivi, p. 182.

(18)

17 Dunque la Sociologia si deve liberare da ogni residuo filosofico e perseguire il proprio scopo. Durkheim conclude che, per la Sociologia, “è venuto il momento di rinunciare ai successi mondani e di assumere il carattere esoterico che conviene a ogni scienza. Essa acquisterà così in dignità e in autorità ciò che forse perderà in popolarità”.27

Così Durkheim rimane un positivista tanto da riconoscere l’importanza degli studi di Comte e di Spencer per l’impianto dato a questo scienza, poiché anche per lui la società ha proprie leggi di evoluzione e un proprio ordine naturale che va salvaguardato per cui, relativamente alle Istituzioni sociali, egli mantiene un atteggiamento conservatore poiché occorre accettare le norme, comprendere la loro necessità, essere obbedienti quando si sia consapevoli della causa, ma anche disciplinati perché questo sta alla base della morale. La Sociologia ha comunque un contatto diretto con le questioni pratiche cui dare risposte legate a un’analisi scientifica, tesa a migliorare le condizioni dell’esistenza.

1.4. Società, Stato, Educazione

Per Durkheim la società è un insieme integrato di parti, chiamate a collaborare tra loro per assicurare il corretto funzionamento del meccanismo generale, da cui i diversi settori ricevono vita e significato.

Torna così in primo piano la consapevolezza di quanto la società, come un tutto solidale, dia spiegazione delle diverse componenti al suo interno, ma soprattutto le preceda in senso logico e storico. Dunque i singoli fatti sociali si comprendono quando si analizzi il contributo da loro assicurato al mantenimento dell’insieme, quindi per il servizio reso nell’economia dell’intero sistema. Questo spiega l’attenzione di Durkheim, sul piano metodologico, allo studio della natura delle diverse Istituzioni sociali ricercando le cause e le funzioni che esse assolvono. Insomma studiare un fenomeno sociale significa chiedersi da cosa derivi e a cosa serva. Sostiene in merito lo stesso Durkheim:

Ci serviamo del termine funzione, preferendolo ai termini scopo o fine proprio perché i fenomeni sociali generalmente non esistono in vista dei risultati ultimi che producono. Ciò che

(19)

18 dobbiamo determinare è se sussiste una corrispondenza tra il fatto considerato e i bisogni generali dell’organismo sociale e in cosa consista questa corrispondenza, senza preoccuparsi di sapere se essa sia stata intenzionale o meno. Tutte le questioni relative all’intenzione sono d’altra parte troppo soggettive per poter essere trattate scientificamente28.

Durkheim afferma così la validità del ricorso allo stesso schema di spiegazione che adottano le scienze della natura, per cui lo studio delle funzioni va a integrare quello delle cause e, se un fenomeno esiste, deve comunque avere le proprie cause. Da qui l’importanza di ricercarle e di comprendere al tempo stesso le funzioni di un fenomeno sociale, poiché queste ultime danno la misura del fenomeno osservato in relazione alla totalità dell’organismo sociale rispetto al quale esso si configura come un organo reso necessario da un bisogno. D’altra parte quest’ultimo non è mai da ritenere soddisfatto perché esso va considerato a fianco di altri bisogni, così che uno significa tanti e tanti bisogni convergono e concorrono al funzionamento dell’organismo. Ne consegue che ogni bisogno diventa un fatto collettivo per cui l’organismo, è a sua volta, il presupposto del bisogno e della funzione. Questo fa comprendere quanto Durkheim mantenga, anche nella terminologia, vari aspetti del Positivismo, soprattutto un legame con Comte e Spencer e quindi quello di una visione organicistica, ma al tempo stesso, poiché egli riduce il campo d’indagine a fenomeni circoscritti, indicando la via empirica come strumento per la spiegazione, egli riesce a trovare una mediazione tra le concezioni rigidamente organicistiche e una visione più analitica della composizione sociale.

Da qui anche il significato rilevante dei fatti sociali, che Durkheim ha ben definito nel testo Le regole del metodo sociologico quando afferma che “un fatto sociale è ogni modo di fissare, fissato o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esterna o anche un modo di fare che è generale nell’estensione di una data società, pur avendo un’esistenza propria indipendente dalle manifestazioni individuali”.29

Durkheim non intende anticipare le conclusioni della scienza attraverso una concezione filosofica, al contrario indicare quali siano i segni esteriori che permettono di riconoscere i fatti di cui la scienza sociale è chiamata a occuparsi,

28 E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, op. cit., pp. 95-97. 29 Ivi, p. 19.

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19 così che lo studioso li possa individuare là dove essi sono, senza confonderli con altri. Egli insomma intende delimitare il campo della ricerca. Intanto l’osservazione dei fatti sociali chiede di considerarli come cose, di cui ricercare la causa efficiente e la funzione, avvalendosi dei fatti sociali antecedenti e non degli stati della coscienza individuale. Questo è determinante perché poi si possano cogliere i meccanismi di coesione dei fatti sociali in funzione dell’organismo totale e quindi della società.

Si legge in Stefania Mariani: “Ma la concezione della Sociologia come analisi scientifica di organizzazioni sociali storicamente date implicava un’immediata attenzione per i meccanismi di coesione di queste stesse organizzazioni: il tema della solidarietà sociale appariva così in primo piano”.30Da questo scaturisce l’attenzione specifica di Durkheim al tema della divisione del lavoro sociale, in un contesto storico in cui si sviluppavano, parallelamente, atteggiamenti fortemente individualistici e le idee socialiste tanto da richiedere con urgenza un esame attento della relazione tra individuo e società, in un momento in cui il movimento sindacale e quello operaio si stavano riorganizzando dopo l’esperienza della

Comune parigina, con una rilevante priorità attribuita alla questione sociale e

quindi alla possibilità di conciliare gli interessi individuali con quelli sociali come problema improrogabile per la Sociologia. È quanto Durkheim si impegna a fare confrontandosi con le tesi degli utilitaristi e con quelle della dottrina socialista.

Non a caso egli scrive La divisione del lavoro sociale, testo nel quale rifiuta l’individualismo utilitaristico, superando nel contempo il rapporto antitetico tra individuo e società attraverso l’analisi delle forme arcaiche di organizzazione sociale, quelle che egli definisce società a solidarietà meccanica e quelle delle moderne società industriali, fondate sulla divisione del lavoro, che egli chiama a

solidarietà organica. Nelle prime esiste una completa identificazione tra il singolo

e il proprio gruppo di appartenenza; nelle seconde le funzioni si differenziano, tanto da favorire lo sviluppo delle personalità individuali, fattore che tuttavia non entra in contrasto con l’integrazione delle funzioni, che dà luogo a una nuova forma di coesione sociale. Sostiene ancora in merito Stefania Mariani:

30 S. Mariani in É. Durkheim. Dizionario delle idee. La sociologia tra riflessione metodologica

(21)

20 Sembrerebbe dunque profilarsi una visione ottimistica dello sviluppo delle moderne società industriali e per questo non sono mancate accuse di conservatorismo nei confronti del sociologo francese. In realtà, il punto di vista di Durkheim appare più complesso: la divisione del lavoro sociale può promuovere lo sviluppo individuale ed essere fonte di coesione soltanto se si realizzano condizioni di giustizia ed eguaglianza, soltanto se a tutti vengono offerte le stesse opportunità, se nessuna classe sociale usa la propria forza per imporre contratti iniqui.31

Questo non significa però che Durkheim faccia proprie le idee socialiste, alle quali non riconosce mai valore scientifico, pur ammettendo che il socialismo come fatto sociale, movimento unitario che intende mettere in discussione l’assetto economico contemporaneo, sia importante e carico di conseguenze, perché conta soprattutto il fatto di essere movimento unitario. Si può condividere col socialismo l’idea di subordinare le funzioni economiche a interessi sociali, ma questo risultato, per Durkheim, non si ottiene né attraverso la rivoluzione, né con una migliore distribuzione delle ricchezze, al contrario con la moralizzazione della vita economica. Durkheim parla per questo nelle Lezioni di sociologia di una morale professionale da ricostruire per superare l’anomia delle società industriali moderne. Si tratta insomma di ricostituire il tessuto morale delle società contemporanee che vanno sempre più spesso incontro a forme esasperate di individualismo. Per questo Stefania Mariani può affermare, in merito alle posizioni di Durkheim: “La sua collocazione può apparire incerta; lo si può considerare- come è stato fatto-un conservatore o un progressista; le sue proposte possono essere giudicate discutibili e legate a condizioni storiche contingenti. Resta comunque il fatto che i temi ai quali è dedicata la sua riflessione, sono molto spesso quelli sui quali ancora ci interroghiamo”.32

L’attenzione rivolta da Durkheim al bisogno di una società migliore nella quale le sue diverse parti siano ben integrate ai fini del migliore funzionamento della stessa, chiama in causa quei principi morali che rimandano ai doveri dei singoli individui. Sul piano sociologico le regole morali sussistono sempre in rapporto a specifiche situazioni di esperienza. Anche in questo caso allora non sarebbe possibile comprendere la natura dei fenomeni morali se non riuscissimo a determinare, con cura, le condizioni dalle quali esse dipendono.

31 Ivi, pp. XI-XII. 32 Ivi, p. XIV.

(22)

21 In Sociologia, comunque, un criterio etico è sempre un principio che prescrive una particolare forma di fede razionale rispetto al valore inteso come norma per l’agire umano che va definito come bene etico.

Per il sociologo in generale la morale è data da un insieme di precetti, che sono espressi in un dato tempo e in un preciso contesto storico, validi perché capaci di guidare la condotta e identificabili soltanto attraverso ricerche concrete. Durkheim, è spinto, per questo, a ben definire la relazione tra morale e diritto, secondo una linea di continuità. Afferma infatti:

Noi crediamo che questi due domini siano troppo intimamente uniti per poter essere radicalmente separati. Tra di essi si producono continui scambi; ora delle regole morali diventano giuridiche, ora delle regole giuridiche diventano morali. Molto spesso il diritto non può essere avulso dai costumi che ne costituiscono il substrato, né i costumi dal diritto che li realizza e li determina. E infatti nessun moralista si è spinto fino a porre tutto il diritto al di fuori della morale. La maggior parte riconosce un carattere morale alle prescrizioni giuridiche più generali ed essenziali.33

Tuttavia non esiste un criterio preciso che permetta di operare una selezione del tutto corretta. Infatti sia le regole morali sia quelle giuridiche sono legate a sanzioni che, apparentemente, non differiscono le une dalle altre; cambia però il modo in cui esse sono amministrate perché, mentre le sanzioni morali sono applicate da tutti e da ciascuno, quelle giuridiche necessitano di corpi definiti.

Questo non impedisce però che, alle sanzioni morali, non si possano aggiungere quelle giuridiche, ma per Durkheim l’elemento distintivo tra morale e diritto è dato dalla modalità della sanzione.

Anche la religione in questo senso appartiene al campo delle norme, pur distaccandosi dalla morale e dal diritto per un suo richiamo a ciò che non si può direttamente sperimentare, a esseri soprannaturali, a forze dello stesso genere e anche a luoghi. Comunque, sul piano sociologico, la religione rimane un insieme di credenze e di riti che obbligano chi ha fede a comportarsi in un determinato modo. In campo religioso si offrono principi da seguire nella vita quotidiana e spesso si tratta di principi sanzionati.

In tale contesto altrettanto importante diventa, per Durkheim, la riflessione sociologica relativamente allo Stato, che egli dapprima definisce come “un gruppo

33 É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1971, pp.

(23)

22 di funzionari sui generis, tra i quali si elaborano rappresentazioni e volizioni che impegnano la collettività, benché non siano affatto opera della collettività.”34 Per Durkheim lo Stato è la sede della coscienza più nobile rispetto a quella collettiva che è invece incerta. “Lo Stato è un organo speciale incaricato di elaborare certe rappresentazioni che valgono per la collettività; queste si distinguono da altre rappresentazioni per il loro più alto grado di coscienza e di riflessione. Lo Stato è l’organo stesso del pensiero sociale”35. E quest’ultimo è orientato politicamente

perché lo Stato nasce per dirigere la condotta collettiva; il suo compito primario è quello di chiamare l’individuo a una superiore esistenza morale e questo è possibile perché è lo Stato ad aver costruito l’individuo, sottraendolo alla tirannia dei poteri familiari, locali, e imponendosi come un potere che detta legge per tutto il corpo sociale.

Così lo Stato libera le personalità dei singoli cittadini e quindi non può esserci contrasto tra Stato e individuo. Esso è infatti l’organo del pensiero sociale e della disciplina morale; per questo è la fonte della solidarietà tra gli uomini.

Il singolo individuo ha dunque bisogno dello Stato nel più ampio contesto di una società che, pur basandosi su una costrizione dall’esterno sui singoli individui, non può reggersi nel tempo soltanto su questo principio tanto da richiedere il consenso, da parte dei suoi membri, su alcuni fini che superano gli interessi individuali.

Questo attribuisce grande valore all’ educazione poiché il bambino, fin da piccolo, è capace e pronto a rispondere all’azione della società, ma gli atteggiamenti che regolano l’agire sociale non sono presenti in quanto tali se non come potenzialità generali, per cui l’educazione, secondo Durkheim,

non è una pura questione di far sviluppare una capacità di azione e di risvegliare tendenze latenti che sono lì in attesa dell’occasione per esprimersi. Piuttosto noi abbiamo a organizzare dal nulla stati psichici che non sono latenti nella costituzione originaria del bambino. Tuttavia, anche se la natura non lo orienta in partenza in un modo che ci lascerebbe solo il compito di osservare e controllare un normale processo di crescita, se la natura ci ha lasciato praticamente tutto da fare, è anche evidente che non potremmo riuscire nel nostro compito se tutto nel bambino fosse contro di noi e se egli fosse completamente ribelle ai vincoli che vogliamo imporgli36.

34 É. Durkheim, Lezioni di sociologia, Puf, Parigi, 1869, p. 86. 35 Ivi, p. 89.

(24)

23 Così l’essenza della condotta viene identificata nel suo carattere sociale, quindi dipendente dall’azione della società, poiché questa non è una realtà integrativa dell’individuo, ma costitutiva di lui stesso. La natura umana si sviluppa solo in quanto natura sociale, che si esprime nel riconoscimento di un insieme di norme e quindi di un ordine che oltrepassa la volontà del singolo individuo per diventare l’essenza stessa dell’uomo, che supera così il suo essere una realtà biologica, per cui l’ordine sociale diventa un ordine morale intrinseco all’agire umano.

Ciò significa che, per Durkheim, l’uomo si realizza come essere sociale e la partecipazione al sociale presuppone la comunicazione quindi il consenso intorno a rappresentazioni condivise della realtà che diventano norme e orientamenti dell’azione per tutti i membri di un gruppo. Queste però non rispondono ai bisogni dell’individuo in quanto essere biologico, perché essi variano nello spazio e nel tempo; le norme poi non sono imposte e mantenute con la costrizione, ma si reggono sul valore morale che esse assumono per gli individui, poiché questi le condividono. Tale fine si raggiunge attraverso l’educazione e il processo di socializzazione.

(25)

24

Capitolo 2

Il suicidio nella Sociologia di Durkheim

2.1. La consapevole rinuncia alla vita come fatto sociale

Studiando i fatti sociali come cose, Durkheim si interessa a uno di questi perché fatto sociale ricorrente, accertato, sul piano storico, come presente in tutte le società umane e non eliminabile. Si tratta del suicidio, a cui il sociologo dedica un’opera dallo stesso titolo, pubblicata nel 1897.

L’impegno primario è intanto quello di definire cosa si debba intendere per suicidio, rifiutando spiegazioni di tipo psicologico che tendono a considerare spesso questo atto come non intenzionale, quindi impulso irrazionale perché effetto di debolezza mentale, mentre Durkheim è convinto che esso sia legato a una libera scelta.

Si chiama infatti suicidio un atto in cui la vittima è autore della propria morte; ciò che accomuna tutte le possibili forme di questa suprema rinuncia è dato dal fatto che l’azione è compiuta con cognizione di causa. Per questo Durkheim può dare una definitiva definizione del suicidio inteso come “qualsiasi tipo di morte che derivi direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo compiuto dalla vittima stessa, la quale sapeva che esso doveva produrre tale risultato”37.

Ciò permette a Durkheim di migliorare una definizione precedente, ma incompleta, secondo la quale “si chiama suicidio qualsiasi tipo di morte che derivi, mediamente o immediatamente, da un atto positivo o negativo compiuto dalla vittima stessa”38. Durkheim motiva in questo modo il cambiamento:

È questa una definizione incompleta, che non fa distinzione tra due tipi di morte assai diverse. Non possiamo collocare nella stessa classe e trattare allo stesso modo la morte dell’allucinato che precipita da un’alta finestra credendola al livello del suolo, e quella di un uomo sano di mente che si colpisce in piena consapevolezza. Le cause di morte sono insite fuori di noi molto più che in noi e ci colpiscono soltanto se ci avventuriamo nella loro sfera di azione.39

Poiché l’intenzionalità è una categoria non facilmente osservabile, Durkheim pone l’elemento del sacrificio sicuro della vita con cognizione di causa quale

37 Cfr. L. Cavalli in É. Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale, cit. p. 63 38 Ivi, p. 61

(26)

25 tratto distintivo del suicidio. Da qui appunto la sostituzione degli avverbi

mediatamente o immediatamente con direttamente o indirettamente, ma anche e

soprattutto l’aggiunta relativa alla vittima comunque consapevole che quell’atto provochi un preciso risultato. Sostiene in merito lo stesso Durkheim: “Ogni possibile forma di questa suprema rinuncia ha in comune questo, che l’atto che la consacra viene compiuto in piena consapevolezza; la vittima, qualunque sia la ragione che l’ha indotta ad agire così, al momento di agire sa ciò che deriverà dalla sua condotta”.40

Sulla base delle sue ricerche e indagini di tipo sociologico, lavorando su quelle evidenze che sono date dai tassi sociali dei suicidi, non dunque quelli individuali, Durkheim può altresì sostenere la presenza di una tendenza al suicidio in qualsiasi società e in ciascun momento della sua storia.

Ogni società, a ogni momento della sua storia, ha dunque una caratteristica attitudine al suicidio. L’intensità relativa di questa attitudine si valuta facendo il rapporto tra la cifra globale delle morti volontarie e quella della popolazione di ogni età e sesso. Chiameremo questo dato numerico tasso della mortalità-suicida proprio della società considerata.41

Il suicidio così non deriva da una somma di stati individuali, per cui è legittimo pensare come lo studio di questa predisposizione sia di specifica competenza della sociologia. Sostiene a questo proposito Durkheim:

Se anziché scorgervi unicamente avvenimenti privati, isolati gli uni dagli altri, che richiedono ognuno un esame a sé, si contemplasse l’insieme dei suicidi commessi in una determinata società, in una determinata unità di tempo, si constaterebbe che il totale così ottenuto non è una semplice somma di unità indipendenti, un tutto da collezione, bensì un fatto nuovo e sui generis, avente una sua unità e individualità, una propria natura quindi e, per di più, una natura eminentemente sociale.42

Affidarsi ai tassi sociali significa istituire un rapporto tra il tasso annuale dei suicidi per ogni diecimila abitanti con altri fatti sociali parimente misurabili quali l’educazione, l’appartenenza religiosa, lo status sociale, la provenienza etnica, il sesso, l’età e lo stato civile.

40 Ivi, p. 62 41 Ivi, p. 67 42 Ivi, p. 65

(27)

26 Per ciascuna di queste categorie Durkheim calcola un coefficiente di preservazione, quindi la maggiore o minore vulnerabilità rispetto al pericolo di suicidarsi.

Un fenomeno così particolare e anomalo come il suicidio, seguendo le regole del metodo sociologico, diventa oggetto di studio per poi dare spiegazioni delle condizioni della normalità. Così, ad esempio, tassi alti di suicidio possono contribuire a motivare la mancanza di solidarietà e di protezione sociale.

Durkheim persegue allora, anche in questo campo, lo scopo che egli attribuisce alla Sociologia, quello di studiare con metodo rigorosamente obiettivo le organizzazioni sociali e i fatti sociali che le caratterizzano. Questo lo porta a osservare e individuare con attenzione i meccanismi di coesione tipici di quelle stesse organizzazioni, ma anche in misura più ampia la relazione tra individuo e società. Sostiene in merito Marzio Barbagli:

La teoria di Durkheim riconduce tutte le variazioni nella frequenza delle morti volontarie a due soli grandi cause: l’integrazione e la regolamentazione sociale. L’integrazione è costituita dalla quantità e dalla forza dei vincoli che uniscono un individuo ai vari gruppi. Il tasso di suicidio è basso quando questa integrazione è equilibrata, mentre aumenta sia quando è scarsa sia quando è eccessiva43.

La seconda causa è costituita dalla regolamentazione sociale. Secondo Durkheim, i nostri desideri sono illimitati e, per definizione, insaziabili. Per questo in ogni società esistono le norme che pongono freno alla nostra sete inestinguibile. Si legge ancora in Barbagli: “Sono appunto le norme a definire i diritti e i doveri di coloro che occupano le diverse posizioni sociali e a stabilire le ricompense che spettano a queste persone”44

. Ciò significa che la mancanza di regolamentazione, mentre provoca difficoltà e sofferenze negli uomini, fa crescere il numero di suicidi. Su queste basi Durkheim procede alla classificazione delle tipologie di suicidio.

Egli pone dunque al centro della propria indagine sia l’entità di coesione sia quella di integrazione sociale così da individuare i fondamenti di un ordine sociale che nasce da una collettività capace di condividere alcuni valori, quali quelli

43 M. Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il Mulino,

Bologna, 2009, Introduzione, p.10

(28)

27 religiosi ed etnici; la loro mancanza produce inevitabilmente una perdita di stabilità, che Durkheim definisce anomia, assenza di norme, tanto da provocare nei singoli individui insoddisfazione, se non addirittura angoscia. La mancanza di integrazione degli individui nella società può allora diventare una delle fondamentali cause del suicidio che, da puro atto individuale, si trasforma in fatto

sociale.

Si spiega così la volontà di Durkheim di studiare il fenomeno del suicidio non come atto unicamente individuale, ma a partire dalle sue origini sociali fino a giungere alle manifestazioni individuali. Da qui l’importanza del tasso di suicidi riscontrato in una specifica società, così da attenersi a dati statistici, per diversi Stati e periodi, in grado di esprimere la specifica tendenza al suicidio.

Per evitare qualsiasi fraintendimento, prima ancora di definire la propria teoria, Durkheim confuta tesi diffuse secondo per le quali il suicidio sarebbe un fenomeno determinato da condizioni psichiche e organiche al tempo stesso, ma anche tipiche dell’ambiente fisico. Non si tratta di un rifiuto aprioristico, ma del frutto di un’analisi e discussione, destinate a rendere inaccettabili quelle stesse tesi. Non si può infatti generalizzare l’idea che l’individuo, colpito da disturbi psichici, sia meno preservato dal suicidio, ma soprattutto non si può estendere la convinzione che gli stati psicopatici siano determinanti per generare il suicidio.

Se la tendenza al suicidio, per sua natura speciale e definita, costituisse una varietà di pazzia, sarebbe una pazzia parziale e limitata a un unico atto. Perché essa possa caratterizzare un delirio, questo dovrebbe vertere unicamente su quel solo oggetto, giacché se ve ne fossero molteplici non vi sarebbe ragioni di definirlo con quello piuttosto che con gli altri. Nella terminologia tradizionale della patologia mentale questi deliri limitati si chiamano monomanie. Monomane è il malato perfettamente sano di coscienza tranne in un punto, che presenta una sola tara e nettamente localizzata.45

Questo vale ugualmente per le condizioni climatiche o per il succedersi delle stagioni, pur dovendo ammettere come, generalmente nel periodo estivo, siano più frequenti le tendenze al suicidio, ma anche nei momenti in cui siano più intensi i rapporti sociali. Durkheim afferma a tale proposito:

Né in inverno, né in autunno il suicidio raggiunge il suo massimo, bensì nella bella stagione, quando più ridente è la natura e la temperatura è più dolce. L’uomo preferisce lasciare la vita nel

(29)

28 momento in cui essa è più facile. Se, infatti, dividiamo l’anno in due semestri, uno comprendente i sei mesi più caldi (da marzo ad agosto incluso) l’altro i sei mesi più freddi, è sempre il primo a registrare il maggior numero di suicidi. Non v’è paese che faccia eccezione a questa legge. La proporzione è, a un dipresso, la stessa ovunque: su 1000 suicidi annuali ve ne sono circa 590-600 commessi durante la bella stagione e soltanto 400 nel resto dell’anno.46

Questo dipende non tanto dal clima, quanto dal fatto che, intensificandosi i rapporti sociali, l’individuo prende atto più facilmente della propria incapacità a collocarsi attivamente in essi. Per Durkheim comunque sono le temperature estreme, in taluni casi a favorire lo sviluppo del suicidio. “Si capisce, del resto, che gli eccessi di ogni genere, i cambiamenti bruschi e violenti che sopravvengono nell’ambiente fisico turbino l’organismo, sconvolgano il gioco normale delle funzioni e determinino così una sorta di delirio, durante il quale può sorgere e realizzarsi l’idea del suicidio se nulla la contiene”.47

Sono tuttavia i dati statistici a testimoniare come la temperatura non sia la causa fondamentale delle oscillazioni dei tassi di suicidio che si rilevano. I dati, messi a disposizione da Durkheim, dimostrano infatti che ci si uccide molto di più in primavera che in autunno benché faccia ancora assai freddo. Su 1000 annuali, in Francia si hanno, in primavera, 284 suicidi; in Italia 297, mentre in autunno in Francia sono 227 e in Italia 196.48

Se poi si vanno a guardare i dati mensili, Durkheim sostiene che le variazioni sono soggette a una legge applicabile a tutti i paesi d’Europa e che è la seguente:

“ A partire dal mese di Gennaio incluso, l’andamento del suicidio è regolarmente ascendente di mese in mese fino verso Giugno e regolarmente discendente a partire da questo momento fino alla fine dell’anno”.49

Durkheim contesta così l’affermazione secondo la quale il suicidio raggiungerebbe il suo culmine nei mesi più caldi, Luglio e Agosto, “anzi a cominciare da Agosto inizia a diminuire molto sensibilmente. Parimenti nella maggior parte dei casi esso non raggiunge il punto minimo in Gennaio, che è il mese più freddo, ma in Dicembre”50.

46 Ivi, p.136 47 Ivi, p.140 48 Cfr. Ivi, p.141 49 Ibidem 50 Ivi, p.142

(30)

29 Durkheim può concludere che non esiste un rapporto tra le variazioni termometriche e quelle del suicidio. Egli può dunque affermare: “D’altra parte, se la temperatura avesse l’influenza che si suppone, dovrebbe farsi sentire anche nella distribuzione geografica dei suicidi, e i Paesi più caldi dovrebbero esserne più colpiti”.51

Poiché inoltre la maggior parte dei suicidi si verifica nel mezzo della giornata, si potrebbe pensare che questo dipenda dall’azione del sole e della temperatura. In realtà, consultati i dati statistici, Durkheim rileva come quelli compiuti nel momento del massimo calore siano assai meno numerosi di quelli della sera. Così Durkheim può concludere che:

Se le morti volontarie diventano più numerose da Gennaio a Luglio, non è perché il caldo eserciti un’influenza perturbatrice sugli organismi, ma perché la vita sociale è più intensa. […] Ma non è l’ambiente fisico a stimolare la tendenza al suicidio direttamente né, soprattutto, a influenzare l’andamento dei suicidi, il quale dipende essenzialmente da condizioni sociali.52

Messe da parte queste ipotesi, Durkheim ribadisce la propria convinzione secondo la quale il suicidio è fenomeno legato a situazioni extrasoggettive, che invece riguardano la società, i gruppi che la compongono in cui ciascuno si trova a interagire quotidianamente.

Da qui l’attenzione alle confessioni religiose, alla famiglia, alla società politica che, per Durkheim, rivestono un ruolo significativo nei tassi di suicidio. Si spiega così l’importanza attribuita al livello d’integrazione dei gruppi di cui l’individuo fa parte.

Lo stato d’integrazione di un gruppo sociale riflette l’intensità della vita collettiva, per cui tanto più il gruppo è compatto e solidale, tanto più il singolo individuo diventa forte e capace di preservarsi dal suicidio.

Si spiega ugualmente così l’attenzione di Durkheim al concetto di solidarietà e all’incidenza che i cambiamenti rapidi e improvvisi a livello sociale rivestono nell’innalzamento del tasso di suicidi. Il sociologo ne dà spiegazione sostenendo che essi turbano l’azione regolatrice della società.

Se c’è una crisi, coloro che ne sono colpiti devono imparare un nuovo modo di vivere: ma prima che la società abbia rifatto la loro educazione morale, molti si suicidano. Se c’è invece

51 Ivi, p. 143 52

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