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Svolti tutti i controlli, il giudice dovrà pronunciarsi sulla richiesta.

Se per qualunque ragione ritenesse di rigettarla, emetterà un’ordinanza brevemente motivata: se è vero che, come la giurisprudenza ha precisato, la messa alla prova non è un diritto assoluto dell’imputato, è altrettanto vero che il suo rigetto non dovrebbe essere completamente discrezionale. Il motivo del rifiuto dovrebbe emergere chiaramente, così da consentire un controllo sulla legalità della decisione – se lo si vorrà sollecitare.

L’atto non avrebbe particolari effetti sul piano processuale: le attività continuerebbero così come programmate in udienza preliminare o in dibattimento; il fascicolo tornerebbe invece al pubblico ministero affinché rieserciti l’azione penale nel caso in cui l’esame sia svolto in fase d’indagine.

In ogni caso, l’ordinanza dovrebbe essere trasmessa a cura della cancelleria del giudice all’UEPE, che potrebbe così chiudere il fascicolo e archiviarlo a dovere.

175 Più interessante è l’ordinanza che ammette il rito: anch’essa dovrà dare conto del percorso logico seguito per ciascuna valutazione prescritta. Per quanto riguarda l’ammissibilità, il gioco è presto fatto: si dovrà accertare l’appartenenza del reato ipotizzato al giusto novero, si dovrà riconoscere la tempestività della richiesta e l’assenza di condizioni soggettive tali da precludere l’accesso al rito.

Anche rispetto alla parte “storica” dell’ordinanza, basterà precisare che non si sono rintracciate cause di proscioglimento tali da condurre a una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p., senza dilungarsi in un’analisi degli atti d’indagine.

Gli altri controlli presentano però un grado di discrezionalità maggiore, cui dovrebbe corrispondere un diverso tenore della motivazione: sarebbe necessario spiegare perché il programma è idoneo e a cosa si riaggancia la prognosi di non recidiva che è necessario formulare. Scorrendo i provvedimenti, tuttavia, ci si trova spesso dinanzi ad affermazioni non del tutto cristalline: l’idoneità del programma diventa un’affermazione secca, priva di spiegazioni e tutt’al più accompagnata da una disamina dei requisiti legali che dovrebbe rispettare. Ad esempio, si dà spesso atto della previsione del lavoro di pubblica utilità, che il codice penale pone come obbligatorio. La Cassazione, del resto, ha avallato questo stile motivazionale, a meno che non si tratti di modifiche decise direttamente dal magistrato e approvate poi dall’interessato: in quel caso, al giudicante è richiesta una spiegazione più circostanziata, che dia conto del perché delle sue scelte in rapporto alle specificità del caso38.

Un discorso analogo vale per la previsione di non pericolosità del soggetto: ricorrono formule piatte, che valorizzano la tendenziale assenza di precedenti penali e, genericamente, la «personalità dell’imputato»; a volte nemmeno le macchie della fedina penale riescono a vincere l’ermetismo del giudicante: non mancano i provvedimenti di concessione che non spendono una parola a spiegare perché i reati già accertati sono stati ritenuti irrilevanti. Altre ordinanze trattano invece la stessa situazione con l’auspicabile trasparenza, spiegando magari che i precedenti sono risalenti nel tempo o che non risultano tipologicamente affini all’accusa per cui si procede.

Delle motivazioni sfuggenti, tuttavia, non sono unicamente responsabili i magistrati che le vergano: come abbiamo visto, la legge non dà loro obiettivi concreti rispetto ai quali misurare il programma, o strumenti che li aiutino nel predire la pericolosità del richiedente. Il legislatore è stato il primo a essere vago, impreciso; non meraviglia quindi che la prassi s’appiattisca su formule tanto recise quanto poco informative.

Passiamo alla parte dispositiva dell’ordinanza, che è quella più gravida d’effetti: per cominciare, dichiarerà il processo sospeso e determinerà la durata dell’interruzione. La precisazione sembra banale, ma in pratica c’è voluto tempo per chiarire questo assetto: i giudici ritenevano infatti che dovesse essere l’UEPE a decidere per quanto tempo dovesse essere eseguito il programma; i funzionari (e i dirigenti) di servizio

176 sociale, al contrario, ritenevano fosse compito del giudice stabilire in concreto la durata del periodo di prova. L’incidente è probabilmente frutto di mentalità disallineate: gli Uffici erano abituati a lavorare con la magistratura di sorveglianza, muovendosi in un ambiente in cui la pena è già un numero definito; i giudicanti restavano probabilmente legati alle logiche dell’applicazione della pena su richiesta, che chiede loro di approvare o respingere un piano già steso in tutti i possibili dettagli.

La legge, d’altro canto, non è esplicita: al giudice spetta l’ultima parola, ma non è chiaro a chi tocchi la prima. Sul piano pratico, è da un lato l’Ufficio a dover confezionare il programma e – soprattutto – a sapere per quanto tempo è disponibile l’ente per i lavori di pubblica utilità. D’altro canto, la salvaguardia della proporzione rispetto al fatto è attribuita al giudice, che non si trova a dover vagliare un accordo steso tra l’imputato e un collega magistrato: il piano di trattamento è preparato da funzionari di servizio sociale. Non hanno la stessa preparazione tecnica, non sono tenuti a conoscere il diritto o la procedura penale e non hanno a disposizione il fascicolo del pubblico ministero. La loro visione del fatto si baserà sull’imputazione e su quanto l’imputato racconta, non su tutta la mole degli atti d’indagine. Tutto sommato, sembrerebbe meglio lasciare ai magistrati il dovere di determinare la durata della messa alla prova, lasciando che l’UEPE ne definisca i contenuti, e la soluzione sembra essere stata recepita tanto a livello ministeriale39 e da alcuni protocolli: la restituzione degli atti all’Ufficio affinché precisi la durata del trattamento dovrebbe quindi essere un retaggio del passato. Resta però un segno di questo malessere. Una sentenza relativamente recente, nel precisare i limiti dell’onere di motivazione che il giudice deve soddisfare sul punto, s’individua proprio questo punto come discrimine: se è il giudice che, modificando il programma, decide la durata della sospensione, dovrà render conto delle ragioni che lo hanno spinto a quella precisa determinazione; se invece si limita a recepire il piano per come redatto dall’UEPE, potrà semplicemente considerarlo idoneo, senza ulteriori spiegazioni40. La distinzione, tuttavia, sembra basarsi su un equivoco: il programma non determina la sua stessa durata, e anche se lo facesse, la responsabilità ultima cade sul giudice, non su un funzionario di servizio sociale che non è formato per stabilire la proporzione tra fatto e trattamento, che non ha avuto accesso al fascicolo e che non ha alcun onere di motivazione.

Anche su questo punto sono state le linee guida a snellire notevolmente i lavori: le cornici “para-edittali” elaborate dai testi non servono solo a promuovere una certa omogeneità del trattamento, ma anche a indicare a colpo sicuro in quale “fascia” si trova il reato per cui si procede41. Il giudice potrà quindi dare all’UEPE istruzioni più precise, individuando sin dalla prima udienza la categoria in cui cade l’accusa:

39 V. Relazione sullo stato d’attuazione, 2017.

40 Cass., sez. III, 19 settembre 2017, n. 55511, Zezza, cit.

41 Per i problemi di uniformità che la tecnica comporta, v. Cap. IV, § 2.4; per la sinossi di queste tabelle, v. Appendice 2.

177 anche gli accordi con l’ente, a quel punto, potrebbero basarsi su una stima verosimile del periodo di sospensione che il giudice stabilirà.

I dati, tra l’altro, mostrano che l’assoluta maggioranza delle misure non oltrepassa l’anno di durata; sono tuttavia in aumento le misure che vanno oltre a questa soglia: nel 2018, il 20,2% delle misure ha infranto la barriera dei 365 giorni raggiungendo un picco senza precedenti42. La differenza sembra però spiegabile guardando alla diversa composizione della domanda: i reati contro la persona e quelli etichettati dal ministero come ‘ordine pubblico, armi, giustizia’ – che sembrano provocare un allarme sociale decisamente maggiore rispetto alle infrazioni del codice della strada – hanno registrato un deciso aumento43. La fascia relativamente più gettonata, tuttavia, resta quella che va dai tre ai sei mesi di sospensione.

Quanto ai contenuti del programma, questi non sono di norma richiamati nel dispositivo dell’ordinanza, ma dalla sola motivazione: anche le eventuali modifiche saranno da cercare nel corpo del testo e non saranno integrate in un unico documento. Per avere un’idea precisa di quali sono le prescrizioni da portare a termine, quindi, sarà necessario osservare il programma, ma anche leggere l’ordinanza intera alla ricerca dei possibili interventi del giudice.

Si dispone invece l’interruzione del corso della prescrizione, che resterà sospesa insieme al processo. Val la pena sottolineare che, fin qui, il tempo dovrebbe continuare a scorrere utilmente, nonostante gli stratagemmi che alcuni uffici hanno adottato per anticipare il congelamento ed impedire che il reato s’estingua nello spazio che va dalla presentazione della richiesta al suo vaglio definitivo44.

L’ordinanza contiene poi alcuni avvisi all’imputato: lo si informa del fatto che, al ricorrere di determinati presupposti, la misura potrà essere revocata e gli si ricorda il dovere di recarsi nuovamente all’UEPE per la firma del verbale di presa in carico, l’atto che dà formalmente esecuzione alla misura.

Diversi protocolli esigono che il giudice dia un termine all’imputato per il compimento di questa attività, che normalmente s’attesta sui 10-15 giorni.

L’atto dispone poi ricordando all’UEPE che è tenuto a informare il giudice con una determinata cadenza – la legge dice: almeno trimestrale – oltre che a dover comunicare tempestivamente ogni possibile causa di revoca.

L’ordinanza fisserà infine l’udienza successiva, posta normalmente oltre lo scadere del termine di sospensione. Alcuni protocolli, in più, suggeriscono di lasciare qualche mese di spazio tra lo spirare della

42 I dati sulla durata in giorni del periodo di sospensione sono riportati dal grafico L. 43 Per i dati sui tipi di reato oggetto di messa alla prova, v. grafico I.

44 V. per tutti il protocollo di Verona, che prevede l’interruzione della prescrizione già a partire dal vaglio positivo d’ammissibilità della domanda all’udienza in cui questa sarà valutata. Sul punto c’eravamo già soffermati al Cap. IV.

178 sospensione vera e propria e il riavvio delle attività: un “cuscinetto” potrebbe sempre servire per recuperare ore perse in qualsiasi vicissitudine sorta durante l’esecuzione45.

L’ordinanza, infine, dovrà essere trasmessa all’UEPE a cura della cancelleria del giudice, in un passaggio di carte che sembra ancora imperfetto. Può infatti succedere che, tra un adempimento e l’altro, l’ordinanza non sia trasmessa e l’UEPE non venga a conoscenza della decisione tramite i canali ufficiali. Un rimedio facile è quello previsto da alcuni protocolli che, per sicurezza, pongono l’obbligo di trasmissione dell’ordinanza anche al difensore dell’imputato. Raddoppiando le fonti d’informazione, si dimezza il rischio ma qualche caso continua a cadere nei crepacci del sistema. Per esempio, un soggetto è riuscito a svolgere l’intera prova “in incognito”, senza che l’UEPE lo sapesse: nessuno aveva trasmesso l’ordinanza d’ammissione e, in più, l’imputato non s’era messo in contatto con il funzionario di servizio sociale per la firma del verbale di presa in carico. L’Ufficio aveva quindi archiviato la pratica mentre l’imputato si recava regolarmente a svolgere il lavoro di pubblica utilità presso l’ente designato. Il nodo è venuto al pettine solo a fine periodo, quando il difensore s’è messo in contatto con l’Ufficio sollecitando la stesura della relazione finale sull’andamento di una prova che non risultava nemmeno in corso46.

In questo, il sistema risente anche di un aggiornamento lento dei sistemi informatici e, più in generale, di una gestione dei processi basata su faldoni e atti da fotocopiare, scannerizzare e trasmettere per posta elettronica per poi stampare l’intera comunicazione e archiviarla nel fascicolo, in formato cartaceo. Certo, non si tratta di operazioni particolarmente gravose, ma potrebbero essere quasi completamente eliminate investendo in tecnologie più avanzate per la gestione delle pratiche47.

La cancelleria deve infine curare la tempestiva iscrizione dell’ordinanza nel casellario giudiziale: il provvedimento che ammette il rito è infatti registrato a norma dell’art. 3 l. i-bis del Testo unico sul casellario giudiziale48. La legge, tra l’altro, non ha previsto alcun meccanismo speciale di cancellazione: questa voce sarà cancellata quindi alla morte della persona cui si riferisce o al compimento dell’ottantesimo anno d’età – come le condanne emesse dal giudice togato.

La previsione, del resto, ha una funzione chiara che è quella d’evitare che l’imputato usufruisca del beneficio per più di una volta; ad ogni modo è bene esser chiari: l’istituto lascia una traccia, magari non profonda come quella della sentenza di condanna, ma comunque non irrilevante. L’iscrizione comparirà infatti sia nel certificato generale richiesto dall’interessato, sia nel certificato penale richiesto dall’interessato: il regime di “visibilità” dell’ordinanza appare quindi meno protettivo rispetto a quello

45 V. Protocolli di Vicenza, Padova, Potenza, Viterbo, Rieti, Bergamo. 46 UEPE Bologna, fascicolo n. 349 del 2015.

47 Questa non sembra però essere la direzione in cui l’Italia s’incammina: secondo il rapporto CEPEJ 2018 (elaborato sulla base di dati aggiornati al 2016) il nostro paese ha diminuito l’investimento in sviluppo informatico del 5% nel periodo dal 2012 al 2016. V. COUNCIL OF EUROPE, European judicial systems, p. 215, in particolare mappa

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179 della condanna patteggiata o a quello del decreto penale, per i quali è espressamente prevista la non menzione. Anche su questo piano, quindi, l’effetto “non stigmatizzante” della messa alla prova è da rimeditare, o meglio: bisogna definire meglio l’ambito di questa conseguenza del rito. Se si tratta di evitare che l’imputato sconti una pena detentiva ed entri a far parte della schiera degli “ex detenuti” – con tutte le difficoltà di reinserimento che questa condizione comporta – abbiamo visto che la probabilità è remota: spesso l’imputato non rischierà comunque la reclusione49. Se parliamo invece della possibilità di tenere il procedimento nascosto a famiglia e amici, questo è un risultato che può essere raggiunto, ma che non sembra un’esclusiva della misura: il procedimento per decreto o il patteggiamento possono rivelarsi ancor meno incisive sul quotidiano della persona. Se però intendiamo l’assenza di un’iscrizione nel certificato penale del soggetto, bisogna tener presente che qualcosa risulterà: non una condanna, ma comunque il sintomo di un passato “guaio” con la giustizia.

Se si considera poi il piano mediatico, la messa alla prova può essere fonte di una stigmatizzazione ancor più forte: lo schema ricorrente è quello che prevede una narrazione della vicenda non tanto per dare notizia del reato, quanto per mettere in evidenza il fatto che l’imputato sfuggirà alla pena di legge attenendosi alle prescrizioni. Questo parallelo causa di solito un’indignazione proporzionale alla gravità del reato, raggiungendo i suoi picchi nei confronti dei minorenni50. Le limitazioni oggettive dell’omologo per adulti contribuiscono senz’altro a limitare questa dinamica, ma ciò non ha impedito a qualche caso di finire sulla stampa nazionale, con tanto di nomi, cognomi, età e comune di residenza degl’imputati pubblicati da qualche testata locale51.