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2. I contenuti

2.6. La mediazione

Vediamo infine l’ultima delle possibili prescrizioni del programma di trattamento: la mediazione. La legge non s’impegna in una definizione anzi: a dire il vero il lessico delle disposizioni che se ne occupano è piuttosto impreciso. L’istituto è menzionato dalla lettera c dell’art. 464-bis c.p.p., che ne parla come se fosse un risultato da raggiungere: il programma deve infatti prevedere «le condotte volte a promuovere – ove possibile – la mediazione con la persona offesa». L’art. 141-ter disp. att. s’esprime in maniera più sorvegliata, qualificando la mediazione come un’attività. In effetti si tratta di un percorso in cui le parti, con l’aiuto e la guida di un terzo imparziale, sono lasciate libere d’interagire e negoziare un accordo che possa metter fine alla controversia: la vicenda esce dai binari classici, e alla battaglia tra professionisti avversari – pubblico ministero e difensore – si sostituisce il dialogo tra i diretti interessati, spinti a collaborare in vista di un accordo.

Questa previsione apre così una finestra a logiche distanti da quelle della giustizia penale tradizionale, dando spazio ad autentiche pratiche di giustizia riparativa, una corrente che s’è andata diffondendo dagli anni ’70 e che incoraggia un cambio di paradigma: il processo è un rito polemico; porta ad esacerbare i conflitti assegnando a ciascuno una posa da mantenere: l’imputato che si deve difendere fino a poter

99 V. le linee guida di Perugia, Spoleto, Terni, Rieti.

116 serbare il silenzio o addirittura mentire; il pubblico ministero che persegue freddamente fatti in cui non è personalmente coinvolto; la vittima che sta alla porta, come un postulante, in attesa che venga fatta giustizia. Il fatto sarà messo al centro narrato, ridipinto, mitizzato; saranno raccolti tutti gli elementi necessari a giustificare l’inflizione di un secondo dolore, stavolta legittimo, mentre le persone e il loro trauma resteranno in secondo piano.

La giustizia riparativa vorrebbe invece rovesciare il modello, gestendo l’accaduto tramite una «qualunque procedura nella quale la vittima e l’autore e, quando risulti appropriato, altri individui o membri della comunità attinti dal reato, partecipano attivamente alla soluzione delle controversie che sono sorte dal reato, generalmente con l’aiuto di un facilitatore»101. Il dialogo sarebbe promosso sul contraddittorio; la comprensione sulla pena; il progresso della comunità sullo sterile duello giudiziale. Il fatto non sarebbe più guardato come infrazione a una norma di legge, ma come un conflitto da risolvere all’interno della comunità: non ci sarà bisogno di combattersi in tribunale e di rispondere al male del reato con il male della pena. Lo strappo al tessuto sociale non s’intenderebbe ricucito a suon di sentenze e punizioni, ma dando il giusto spazio ai singoli e alle comunità, responsabili della risposta a quell’evenienza: così facendo, non solo si troverebbe il modo di reagire al reato, ma lo si farebbe con un percorso autenticamente rieducativo per l’autore, più soddisfacente per la vittima e proficuo per la singola realtà sociale, che potrà riflettere sui problemi sistemici emersi ed eliminarli102. La strada per arrivare a questo risultato impone

101 Si tratta della definizione elaborata da T.F.MARSHALL, The evolution of restorative justice in Britain, p. 37 e raccolta dal Consiglio economico e sociale dell’ONU nella risoluzione n. 14 del 2000, che reca i principi fondamentali sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia criminale; questa descrizione è stata poi raccolta da altre fonti normative, come la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 (v. art. 2 lettera d) e dal codice di procedura penale francese all’art. 10-1. Sul piano teorico, tuttavia, questa sistematizzazione è ben lontana dall’essere l’unica; per esempio, la definizione di Howard Zehr continua a riscuotere un certo successo: la impiega anche G. MANNOZZI, voce Giustizia riparativa, p. 469 traducendola da H.ZEHR, Changing Lenses, p. 181, dove è presentata

come una giustizia che «coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo».

la nozione di giustizia riparativa è uno dei punti più controversi della materia, tanto che uno dei padri nobili della corrente s’è dichiarato scettico sulla stessa utilità di una nozione unitaria col celebre detto secondo il quale la giustizia riparativa non è una mappa, ma una bussola; ogni comunità dovrebbe essere libera di adottare le pratiche più adeguate al caso senza chiudersi nel formalismo d’una definizione: H.ZEHR, Little book of restorative justice, p. 8. Per una rassegna ragionata di molte delle definizioni proposte v. P.MCCOLD, Restorative Justice, Variations on a Theme;

G.MANNOZZI, La giustizia senza spada, p. 43 ss; F.PARISI, La restorative justice alla ricerca di identità e legittimazione,

p. 3 s., p. 6 ss.

La cosa su cui tutti sono però d’accordo è che la giustizia riparativa è un procedimento che porta a un risultato; non è quindi da sovrapporre con le condotte riparatorie imposte dal giudice: il risarcimento del danno, per esempio, sarebbe espressione di giustizia riparativa se deciso all’esito di una libera determinazione dei singoli; non lo sarebbe tuttavia se imposto dal giudice.

102 Sulla giustizia riparativa come risorsa politica v. N.CHRISTIE, Conflict as Property (1977), in G.JOHNSTONE (a cura di), A Restorative Justice Reader, II ed., Routledge, London-New York, 2013, p. 36 ss; D.G.GILL, Toward a

‘radical’ paradigm of restorative justice, p. 499 ss. Per una prospettiva scettica v. S.MITAS, La justice restaurative pénale, p.

1825 ss.

Su scopi e obiettivi della giustizia riparativa, la dottrina è sterminata. Limitandosi all’indispensabile, v. H.ZEHR,

Changing Lenses, in particolare p. 177 ss.; J.BRAITHWAITE, Restorative Justice & Responsive Regulation; nella dottrina

117 una collaborazione attiva tra le parti, portate ad allineare gl’interessi anziché a ribattere punto su punto; le loro paure, frustrazioni e sensi di colpa saranno poi esorcizzati dall’incontro, che offre un’arena controllata dove non si discuterà della regolarità di una notifica, ma del vissuto di chi partecipa al dialogo103. La soluzione, in più, non punterà soltanto a compensare il danno che deriva dal torto, ma anche a soddisfare le istanze di considerazione globale dei partecipanti tentando di riportare tra loro apprezzamento e rispetto104.

Questa prospettiva non si concilia però del tutto con la tradizionale cornice di principi e norme che regolano il mondo del diritto penale, in cui la mediazione, fino a non molto tempo fa, era vista come un «alieno» appena sbarcato in un pianeta lontano da quello d’origine. Gl’interessi che le norme hanno ad oggetto, infatti, sono considerati troppo importanti per lasciarne la tutela nella disponibilità delle parti105: la posta in gioco è troppo alta ed è lo Stato a muoversi, nella tutela del pubblico interesse. Anche forme più leggere di partecipazione dei privati alla gestione del processo penale hanno avuto bisogno di tempo per essere poi metabolizzate e lo stesso – lentamente – sta avvenendo con la mediazione106. L’idea di un mutamento di rotta ha guadagnato un grande consenso anche rispetto a questo istituto, anche grazie alla rivalutazione del ruolo della vittima107, alla ricerca di alternative alla sanzione detentiva e all’insoddisfazione verso un circuito processuale allo stremo delle forze. Insomma, se il sistema penale così com’è non ci piace; se lo Stato arranca, tanto vale sperimentare soluzioni diverse, che promettono una maggiore responsabilizzazione degl’individui e delle comunità.

Per spunti critici alla costruzione, v. per tutti A.ACORN, Compulsory compassion.

103 Questo può avvenire in una grande varietà di modi: nel paragrafo ci dedicheremo solo alla mediazione; per una rassegna delle altre frecce all’arco della giustizia riparativa, v. P.MCCOLD, The recent history of restorative justice, p. 24; esistono poi numerosi tentativi di riordinare l’oceano delle pratiche, come l’individuazione di 13 misure elencate dal International Scientific and Professional Advisory Council (ISPAC) in preparazione del decimo congresso delle Nazioni Unite, sulle quali v. G. MANNOZZI, Problemi e prospettive della giustizia riparativa, p. 13 ss. Per un diverso

inquadramento, v. P.MCCOLD-T.WACHTEL, Restorative justice theory validation, p. 110 ss.

Per contributi specifici su conferenze e circoli, v. G.MAXWELL-A.MORRIS-H.HAYES, Conferencing and restorative

justice, ivi, p. 91 ss.; B.STUART-K.PRANIS, Peacemaking circles: reflections on principal features and primary outcomes, p. 121

ss.

Sul ruolo delle emozioni nelle misure di giustizia riparativa v. M.ROSSNER, Just Emotions, in particolare p. 22 ss.

104 Sulla distinzione tra ‘compensation’ e ‘consideration’ nell’ottica delle vittime, v. X.PIN, La privatisation du procès

pénal, p. 249 ss.

105 Tiene conto di questo limite anche la disciplina della mediazione civile e commerciale: il mezzo alternativo di risoluzione della controversia sarà infatti disponibile solo a patto che abbia a oggetto un diritto disponibile e che nessuna norma imperativa sia violata. In ambito penale – il regno delle norme imperative per antonomasia – la mediazione si sta espandendo senza alcun limite astratto sul tipo d’interesse coinvolto; sul punto torneremo nel prosieguo del paragrafo.

106 Si pensi per esempio alle iniziali obiezioni all’estensione della procedibilità a querela; sul tema v. F.GIUNTA,

Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, p. 71 ss.; per una riflessione più legata alla compatibilità di forme

di giustizia riparativa, v. A.CIAVOLA, Il contributo della giustizia consensuale, p. 61 ss.; per uno studio più generale dei

rapporti tra i poteri del privato e il processo penale, v. M.CAIANIELLO, Poteri dei privati.

107 Il fenomeno è certamente più appariscente negli ordinamenti anglosassoni, dove la vittima può entrare a processo solo in quanto fonte di prova e non come parte.

118 La mediazione s’è dunque fatta spazio nelle dimensioni parallele al processo penale italiano, rispondendo a fini di volta in volta diversi: è stata valorizzata in chiave educativa all’interno del processo penale minorile, espressamente prevista nell’ambito della messa alla prova108. In quel contesto, l’incontro processuale “classico” con la persona offesa potrebbe essere perfino dannoso, tanto che la costituzione di parte civile è vietata; incontrarsi con obiettivi e toni diversi, tuttavia potrebbe avere effetti tutt’altro che trascurabili: la vittima sarebbe incoraggiata a partecipare in quanto non solo potrà condividere la sua esperienza traumatica, ma potrà anche ottenere un ristoro economico che lo strumento processuale vero e proprio non consente. L’esperienza sarebbe poi pregnante per l’autore, messo di fronte alle conseguenze delle sue azioni: potrebbe riconoscere il dolore che ha provocato e uscire dal circuito penale senza condanne, ma con molta più consapevolezza.

Su una frequenza analoga sembra essersi affermata la mediazione in fase esecutiva, come parte dell’affidamento in prova al servizio sociale. Pur non espressamente menzionato, l’istituto potrebbe essere previsto come una delle modalità con cui il condannato s’impegna a ripianare il conto con la vittima (art. 47 comma 7 ord. pen.). Anche in questo caso, l’incontro potrebbe riparare la vittima in maniera più completa; il reo, d’altro canto, vivrebbe un’esperienza altamente rieducativa109. La riflessione sul settore penitenziario, tra l’altro, ha portato alla valorizzazione della misura anche in esecuzione di pena, tanto da partorire uno schema di decreto legislativo che – se approvato – fornirebbe un primo supporto normativo alla mediazione in ambito penale110.

108 Lettera d dell’art. 27 del d. lgs. 28 luglio 1989, n. 272, laddove stabilisce che il progetto d’intervento possa prevedere «le modalità d’attuazione eventualmente dirette […] a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa». La mediazione, nella prassi, potrebbe essere anticipata e utilizzata come condizione per la declaratoria d’irrilevanza del fatto prevista dall’art. 27 D.P.R. n. 448 del 1988. Si tratta però di un uso improprio: la disposizione non si dedica infatti a quanto diventa irrilevante a seguito di una condotta riparatoria port factum; si concentra su ciò che sin dall’inizio non sembra sufficientemente grave per dare il via a un processo – evento incisivo sull’evoluzione della personalità del minore. Su questa dinamica v. F. TURLON, Giustizia riparativa e

mediazione nel sistema penale minorile, p. 59.

Sull’irrilevanza del fatto del minore, v. S.LARIZZA, Le “nuove” risposte istituzionali alla criminalità minorile, p. 250 ss;

M.G.COPPETTA, Il proscioglimento per irrilevanza del fatto, ivi, p. 590 ss.

109 I problemi d’applicazione sono però molti: il rischio di vittimizzazione secondaria è forte; l’offeso potrebbe dover rivivere eventi dolorosi a distanza di tempo. In più, il condannato potrebbe avere l’interesse a tentare questo tipo di percorso non tanto per spontanea comprensione del dolore che le sue azioni hanno provocato, ma per mostrarsi come una persona cambiata e ottenere più facilmente dei benefici sul piano del trattamento penitenziario: sul punto, v. P. CIARDIELLO, Riparazione e mediazione nell’ambito dell’esecuzione penale per adulti, p. 98 s. Arriva a

diagnosticare una «antinomia genetica» tra mediazione ed esecuzione di pena D.VICOLI, La mediazione nel contesto

della fase esecutiva: spunti per un inquadramento sistematico, p. 392.

110 L’interesse verso questo tipo di programmi è relativamente risalente: sul tema s’era concentrata la Commissione di studio sulla mediazione penale e giustizia riparativa istituita dal Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con decreto del 26 febbraio 2002, che ha prodotto le linee d’indirizzo sull’applicazione delle misure nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti, diffuse con circolare del 15 giugno 2005.

Più di recente, s’è dedicato alla giustizia riparativa un intero tavolo degli Stati generali dell’esecuzione penale, il n. 13; sul punto, v. A.LORENZETTI, Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali, p. 33 ss. Sul piano legislativo, questo

interesse è sfociato in un esplicito cenno da parte della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (l. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1 comma 85 lettera f): il decreto delegato dovrebbe infatti prevedere «attività di giustizia

119 A una logica diversa sembra invece far capo l’uso della mediazione dinanzi al giudice di pace: la conciliazione è posta come uno degli obiettivi generali dell’intero corpo normativo, da promuovere ove possibile. Un riferimento più specifico è però inserito nella disciplina dell’udienza di comparizione, momento in cui il giudice tenta di favorire la conciliazione tra le parti se il reato è perseguibile a querela; in vista dell’obiettivo, può anche disporre una sospensione dell’udienza di massimo due mesi per investire della controversia i centri di mediazione pubblici o privati presenti sul territorio. In questo caso, lo scopo pare essere più che altro deflattivo: prima che cominci il giudizio, si cerca un accordo che possa chiudere il processo con una remissione di querela, evitando attività processuali inutili111.

Quanto a finalità, sembra la prescrizione ideale per la messa alla prova, anch’essa divisa tra deflazione e rieducazione dell’imputato; la dottrina ha poi riservato una calda accoglienza a questa porzione della novella, definendola addirittura una «rivoluzione copernicana» in ambito processuale, in grado di far cambiare asse al sistema processuale esistente inaugurando una stagione di rinnovamento.

Questo trionfalismo, tuttavia, deve fare i conti con un dato normativo insufficiente, composto da due soli frammenti: del codice di procedura penale; uno è quell’art. 464-bis comma 4 lettera c, che inserisce «ove possibile, la mediazione con la persona offesa» tra i contenuti del programma; l’altro è l’art. 141-ter disp. att. c.p.p., laddove dispone che, all’interno dell’indagine socio-economica, «l'ufficio riferisce specificamente […] sulla possibilità di svolgimento di attività di mediazione, anche avvalendosi a tal fine di centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio». A queste indicazioni, troppo reticenti, potrebbero aggiungersi presto quelle di uno schema di decreto legislativo, che pende dinanzi alle camere in attesa di un parere: si tratta di uno dei testi partoriti dalla delega legislativa sulla riforma penitenziaria e reca «disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima». Certo, il testo è stato plasmato per rispondere alle esigenze del settore penitenziario, ma l’art. 1 dello schema dichiara l’applicabilità di quelle norme «in quanto compatibili» anche alle misure di giustizia riparativa messe in atto prima della condanna; la disciplina della messa alla prova potrebbe quindi essere in parte integrata, ammesso che le singole norme non siano da intendersi limitate al solo sistema penitenziario.

Vediamo intanto cosa prevede al momento la legge112, che non si sbilancia in classificazioni e dettagli: l’art. 464-bis c.p.p., tuttavia, sembra limitare i soggetti che possono prender parte alla misura alle sole

riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell'esecuzione delle misure alternative». Questa parte è stata quindi sviluppata in un apposito schema di decreto, che contiene indicazioni generali sulle misure di giustizia riparativa anche oltre all’ambito penitenziario: il percorso travagliato della riforma non consente però di fare pronostici; l’atto ha tuttavia incassato il parere negativo della commissione giustizia tanto alla Camera quanto al Senato, espressi rispettivamente il 10 e l’11 settembre 2018.

Sui contenuti dello schema ci concentreremo tra poco.

111 Si tratterebbe di un «processo di selezione» della querela secondo C.SOTIS, La mediazione nel sistema del giudice di

pace, p. 63

120 persone imputate e offese. Certo, si tratta della forma di mediazione più immediata e diretta, ma non è detto che si attagli a tutti i casi. Si vincolerebbe poi la possibilità d’esperirla all’esistenza di una vittima e al consenso incondizionato di entrambi gl’individui.

La prassi s’è infatti mossa in maniera più elastica: quando non si è potuto individuare una vittima specifica, s’è messo l’autore in contatto con associazioni o individui che rappresentavano l’interesse aggredito; altre volte le persone offese sono state inserite in un gruppo più ampio, limitando così un’esposizione personale che non avrebbero accettato. Si tratta di accorgimenti e tecniche che puntano a facilitare l’adesione o, nel primo caso, a scavalcare un’impossibilità apparente, in modo da attivare la procedura senza che ci sia uno specifico soggetto leso. In questo tratto, le indicazioni del testo di legge non sembrano quindi prese alla lettera: tanto gli U.E.P.E. quanto i centri di mediazione si sono concessi un certo margine di creatività.

Ciò premesso, uno dei problemi più immediati per la mediazione è la distribuzione delle strutture specializzate sul territorio nazionale, che sembra essere tutt’altro che uniforme; la preparazione degli operatori, il loro grado d’esperienza e d’aggiornamento sono inoltre affidati alla buona volontà del singolo o alle politiche di ciascun centro. Al momento, la legge non prevede nessuno standard professionale minimo per l’esercizio del mestiere, né esiste un meccanismo d’accreditamento dei centri di formazione113.. Negli ultimi anni s’è moltiplicata l’offerta universitaria sotto forma di corsi di laurea, master, summer school e percorsi d’alta formazione, mentre una parte consistente del mercato continua a essere coperto da parrocchie e associazioni di volontariato. Esiste anche qualche corso di formazione istituzionale, proposto come occasione professionalizzante ai soggetti in stato di disoccupazione.

Il panorama, insomma, sembra piuttosto variegato e lo schema di decreto legislativo dovrebbe intervenire anche su questo punto: se fosse emanato, il mediatore dovrebbe essere in possesso di almeno una laurea triennale in materie giuridiche, psicologiche, pedagogiche o socio-umanistiche, oppure dovrebbe essere iscritto a un ordine o a un albo professionale. Si rinvia poi a un decreto del Ministero della giustizia per una più specifica individuazione «dei requisiti e dei criteri per l’esercizio dell’attività professionale di mediatore penale» nonché delle modalità di formazione e aggiornamento.

113 Il panorama appare molto diverso nel processo civile, dove il tentativo di conciliazione è, in determinate materie, condizione di procedibilità dell’azione civile: il passaggio della mediazione sarà inevitabile per intentare validamente la causa. Questo meccanismo ha allargato il bacino d’utenza e reso necessarie delle regole chiare, previste dal D.M. 18 ottobre 2010, n. 180, che ha istituito e disciplina l’albo degli organismi di mediazione e l’albo degli organismi di formazione degli operatori, oltre che prevedere gli standard minimi di competenza e aggiornamento dei mediatori. In particolare, devono possedere un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale o, in alternativa, devono essere iscritti a un ordine professionale; in più, devono avere una specifica formazione da aggiornare con cadenza almeno biennale e devono partecipare ad almeno 20 casi di mediazione presso organismi iscritti nell’ambito del biennio.

Quanto agli organismi di mediazione, quelli registrati sono circa 1100, sparsi su tutto il territorio nazionale; il dato è tratto dall’albo consultabile alla pagina mediazione.giustizia.it.

121 Si dispone inoltre che gli organismi di giustizia riparativa vengano istituiti in ogni distretto di Corte d’appello, attenuando le disomogeneità territoriali; tuttavia, il decreto precisa che gli oneri per l’istituzione