• Non ci sono risultati.

Pena o non pena?

2. I contenuti

2.8. Pena o non pena?

Abbiamo esaminato ciascuna prescrizione del programma di trattamento, possibile o necessaria: è dunque il momento di tirare le fila e chiedersi come si possa qualificare questo complesso di obbligazioni che l’imputato, volontariamente, s’assume. Si tratta di una sanzione penale o di qualcos’altro? E se d’altro si tratta, cosa è esattamente?

Si tratta di domande al centro di molte ricostruzioni dottrinali, anche perché le risposte sono tessere di un mosaico argomentativo più ampio: a seconda delle impostazioni, sono elementi tra l’importante e il decisivo per valutare la compatibilità strutturale della messa alla prova con la presunzione d’innocenza129. L’operazione, tuttavia, appare complicata da un duplice ordine di fattori. Da un lato, il programma raccoglie contenuti eterogenei, che stimolano di volta in volta considerazioni diverse; tuttavia, sono qui raccolti sotto lo stesso ombrello, cosa che rende difficili discorsi squadrati, monolitici. Dall’altro, si dovrebbe ricondurre un oggetto frastagliato come il programma alla nozione di pena, che non è a sua volta un concetto chiaro, che si lascia isolare facilmente dagli altri tipi di sanzione che l’ordinamento conosce130.

S’è trovato conforto nei criteri Engel, normalmente utilizzati per saggiare la natura di una misura e comprendere a che campo ascriverla – penale o non penale – così da rendere effettive le garanzie che la Convenzione e.d.u. stabilisce. Il problema che ci poniamo qui è in parte diverso: abbiamo già avuto modo di notare come la messa alla prova faccia parte della nozione almeno interna di ‘materia penale’, con la conseguente applicazione del relativo statuto. L’analisi che c’interessa, in più, non ruota tanto attorno all’illecito o al procedimento, ma soltanto intorno al carattere e alla natura della risposta concreta. Dei tre criteri – quello della qualificazione interna, della natura dell’infrazione e della severità della sanzione131 potremo utilizzare l’ultimo, mentre gli altri sembrano alludere a elementi che sono già chiari nell’assetto normativo.

Nello specifico, però, il trattamento prevede limiti alla libertà di movimento tipici dell’esecuzione, oltre al lavoro di pubblica utilità, prescrizione che l’ordinamento non esita a qualificare come pena principale o accessoria. Insomma, almeno in alcune sue componenti, il programma sembra avere una portata

129 Come s’è accennato, la questione sembra invece ininfluente sul nodo della successione delle leggi nel tempo: qualunque conclusione si adotti in questa sede dovrebbe lasciare invariati i termini dell’argomentazione già svolta. 130 S’è sostenuto che sia impossibile tracciare una distinzione: M.A.CATTANEO, voce Pena (fil.dir), p. 701.

129 afflittiva paragonabile a quella di una pena, tanto che la prova già esperita può essere defalcata dalla eventuale, successiva condanna. Tre giorni di prova valgono un giorno di detenzione.

Questi elementi sono stati valorizzati in diverse direzioni: da un lato li si è evidenziati per attribuire alla messa alla prova l’arcigna natura di cripto-pena132. Dall’altro, se n’è fatta invece una caratteristica di pregio di tutto l’impianto, capace di realizzare deflazione senza “regalare” vantaggi: l’eventuale estinzione del reato è sudata, non ottenuta a costo zero. Questo quid d’afflittività consentirebbe di tutelare anche le istanze della general-prevenzione: l’imputato sa che non lo aspetta un perdono incondizionato, ma che dovrà redimersi attraverso le opere; non si tratta di reclusione, ma è comunque una risposta rapida, non desocializzante e rieducativa.

Altre ricostruzioni, invece, fanno leva sull’altro versante del programma per superare questi elementi. L’intero pacchetto, lontano dal costituire una risposta sanzionatoria, sarebbe il primo passo verso l’introduzione di misure esclusivamente volte alla riparazione, lontane dalla logica retributiva del “raddoppio del male”. L’intento riparativo ridipingerebbe dunque ogni cosa: il lavoro di pubblica utilità sarebbe una restituzione simbolica alla società; il criterio di ragguaglio un semplice gesto d’equità: in fondo è previsto anche per le misure cautelari, e nessuno ne hai mai predicato la natura sanzionatoria. Le istanze riparatorie sarebbero poi suggellate dalla presenza della mediazione, capace di proiettare a ritroso la luce della giustizia riparativa: in sostanza, quindi, il trattamento non sarebbe una pena, escludendo così alla radice ogni possibile conflitto con la presunzione d’innocenza.

In entrambi i discorsi c’è del vero: come abbiamo anticipato, i contenuti della messa alla prova sono eterogenei ed è persino giusto che sollecitino risposte così variegate. Ad ogni modo, alcune precisazioni non sembrano inutili.

Per prima cosa, non tutte le prescrizioni sono sullo stesso piano: l’unica di cui non si può proprio fare a meno è il lavoro di pubblica utilità, che dovrebbe avere un peso maggiore delle altre anche rispetto alla qualificazione della misura. Al contrario, non sembra credibile far dipendere questa partita da un contenuto eventuale, raro e problematico come la mediazione: certo, si tratta di un contenuto tanto interessante quanto delicato da gestire, ma non sembra rivestita di un ruolo decisivo. Le opinioni che ascrivono la messa alla prova alla famiglia delle misure di giustizia riparativa per la sua sola presenza, quindi, non paiono cogliere nel segno o meglio, tutto sta a intendersi.

Il rito non sembra avere molto a che spartire con quell’insieme se prendiamo come metro la definizione più diffusa di ‘restorative justice’: le parti non sono libere d’incontrarsi e d’accordarsi; sarà il giudice a negoziare con l’imputato, non la vittima: da quest’ultima non dipendono né l’ammontare del risarcimento, né l’accesso o i risultati della procedura. Le modalità con cui il programma viene confezionato non sembrano somigliare a quelle con cui si svolge una misura di giustizia riparativa; semmai, il programma

130 includerà un frammento – la mediazione – che rinvia a quel sistema, lasciando però regolare al programma tutte le ricadute pratiche più sostanziose.

Questa considerazione, tuttavia, non affossa necessariamente le tesi che ritengono prevalenti gli aspetti riparatori del programma su quelli afflittivi, ritenendo così che non si possa parlare di sanzione133. È vero infatti che la componente restitutoria è importante, e non sembra facilmente riconducibile alla nozione di pena134. Pone qualche problema in più, invece, la ricostruzione del lavoro di pubblica utilità in termini riparatori: se l’idea è quella di restituire alla società quanto le è stato tolto, non siamo lontanissimi dall’idea di retribuzione; si è sbagliato nei confronti di tutti, e si deve pagare135. Della retribuzione, in più, si salva senz’altro il criterio distributivo: il richiamo all’art. 133 c.p. serve proprio a far sì che la durata del lavoro di pubblica utilità proporzionale al fatto per cui si procede, pur potendone apprezzare tutte le caratteristiche del fatto136.

Inoltre, è vero che anche per le misure cautelari è previsto un criterio di raccordo, ma i due casi non sembrano comparabili: lo scopo che gl’istituti dovrebbero assolvere, in questo caso, non è irrilevante. La legittimazione delle misure cautelari è infatti legata a doppio filo con la funzione di salvaguardia del processo che esse normalmente assolvono, mentre la messa alla prova non sembra condividere un legame così forte con un accertamento da cui prescinde completamente. Al contrario, il trattamento del rito speciale è stato spesso lodato per le sue presunte capacità altamente rieducative, trasferendo sul processo uno dei compiti tipici della pena in cui, infine, si può convertire137. Breve: l’idea di “anticipare la pena” è lo spauracchio della disciplina di ogni misura cautelare, ma la stessa preoccupazione non sembra affatto

133 Per autorevoli ricostruzioni in questo senso, v. G.UBERTIS, Sospensione del procedimento con messa alla prova e

Costituzione, p. 726 ss.; A.SANNA, L’istituto della messa alla prova, p. 1262; C.CESARI, Commento all’art. 464-bis, p. 2123 s.; ID., voce Sospensione del procedimento con messa alla prova, p. 1011 ss.

134 O almeno, non nel nostro ordinamento: il codice penale francese conosce invece il risarcimento-sanzione, espressamente qualificato come tale dalla legge. Sul versante italiano, tuttavia, il fronte sembra perdere di compattezza: le sezioni unite civili della Cassazione hanno di recente ammesso la delibazione dei danni punitivi, prima considerati incompatibili con la nostra nozione di ordine pubblico.

135 Respinge recisamente una ricostruzione “riparativa” del lavoro di pubblica utilità G.DE VERO, Circostanze del

reato, p. 183, il quale rifiuta anche una legittimazione del contenuto sulla base del consenso dell’imputato: come

abbiamo visto, è caratteristica condivisa dal lavoro come pena, senza che questo tratto l’abbia mai privata, agli occhi della dottrina o della giurisprudenza, della sua natura afflittiva.

136 Alcuni sembrano imputare questa colpa ai protocolli, che assimilerebbero la sospensione alla pena stabilendo le fasce di cui abbiamo già parlato, definite come una sorta di «tariffario» che spingerebbe a una logica di tipo retributivo: R.CORNELLI-O.BINIK-M.DOVA-A.ZIMBURLINI, ProbACTION, p. 47. La posizione non sembra del

tutto condivisibile: la proporzionalità tra fatto e sospensione è introdotta in primo luogo dalla legge col richiamo all’art. 133 c.p.; non sembra equo attribuire alle linee guida (nel caso di specie, quelle milanesi) l’intenzione di muoversi in chiave retributiva quando è la legge stessa a farlo.

Sembra piuttosto da condividere la posizione di B.BERTOLINI, La messa alla prova per adulti, p. 58 ss., che osserva come sia proprio la struttura normativa a escluderne la connotazione ‘riparativa’ del lavoro di pubblica utilità, previsto come obbligatorio; la giustizia riparativa esigerebbe invece la completa volontarietà del gesto e «imporre a qualcuno di essere spontaneo è operazione chiaramente impossibile».

137 Ne prende atto G.SPANGHER, Ragionamenti, p. 125 ss., dedicate alla «funzione rieducativa del processo penale» che si sta contro-intuitivamente facendo strada in uno strumento che dovrebbe essere prima di tutto cognitivo.

131 condivisa dalla messa alla prova, che piazza al centro del processo di cognizione un trattamento che con la pena sembra avere più di un minimo comun denominatore, dai contenuti afflittivi agli obiettivi dichiarati.

I tentativi di dare una veste completamente riparativa al programma sembrano poi evitare il tema delle limitazioni (pur tenui) alla libertà personale dell’imputato: anche in questo caso – è vero – non si tratta di contenuti necessari del piano, ma dando un’occhiata alla prassi sembrano diffusi su una scala piuttosto larga, e se la mediazione ha avuto una risonanza tale da far parlare addirittura di «rivoluzione copernicana»138, ci si dovrebbe interrogare anche sul ruolo di queste prescrizioni dal sapore assai più tolemaico.

Riassumendo, sembra da escludere che la messa alla approva possa essere additata come una forma di giustizia riparativa in senso proprio; si limita a raccoglierne uno strumento, integrandolo alla bell’e meglio col resto del tessuto normativo. Anche se lo fosse, tuttavia, resterebbe aperta la discussione sulla natura penale o non penale del trattamento; il punto è particolarmente controverso nella stessa letteratura sulla giustizia riparativa: mutare l’etichetta non vorrebbe necessariamente dire giungere per forza a un risultato diverso139.

Detto ciò, il rito prevede anche contenuti di materiale riparazione che non sono direttamente riconducibili al concetto di pena – in particolare, il risarcimento del danno – ma questo fattore deve fare i conti con tutte le altre prescrizioni che il programma può contenere140. In particolare, il lavoro di pubblica utilità sembra davvero difficile da riqualificare in chiave riparativa: la sua durata si stabilisce in base agli stessi criteri con cui si commisura la pena, e riveste altrove la natura di pena, ora principale ora sostitutiva141. Le restrizioni della libertà personale appaiono addirittura inspiegabili in un’ottica di puro ripristino dello status quo ante: il fatto che l’imputato non possa andare all’estero durante la sospensione non aiuta in alcun modo a riparare alla guida in stato d’ebbrezza per cui sta scontando la prova.

Magari non è abbastanza per una dimostrazione aritmetica della natura del trattamento ma, come dice il motto, if if looks like a duck, swims like a duck, and quacks like a duck, then it probably is a duck: le somiglianze

138 F.FIORENTIN, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, p. 63.

139 L’afflittività della giustizia riparativa è infatti un tema parecchio dibattuto e, accanto alle voci che promettono un totale affrancamento dalla logica della pena, ce ne sono altre che sottolineano come si tratti di una revisione (auspicabile, ma non certo rivoluzionaria) del catalogo delle sanzioni, sostituendo alla detenzione una serie di misure meno coercitive: per spunti in questo senso, v. tra i molti i lavori di K.DALY, Revisiting the Relationship between

Retributive and Restorative Justice, p. 38. Insomma, la contrapposizione binaria tra pena e giustizia riparativa è efficace

sul piano retorico, ma non universalmente convincente.

140 Senza contare che ciascuna condanna implica l’obbligo alle restituzioni secondo le leggi civili, ma questo non ha mai distolto l’attenzione dalla componente afflittiva della pena, anche se sospesa o scontata in forme meno coercitive della detenzione.

141 Alcune pronunce, tra l’altro, sono particolarmente chiare nel qualificare il lavoro di pubblica utilità della messa alla prova come «sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una necessaria componente afflittiva»: Cass., sez. III, 19 settembre 2017, Zezza, n. 55511, in C.e.d., n. 272067.

132 con la pena – o almeno, con alcune sue forme d’esecuzione – sembrano troppe e troppo precise per sbiadire davanti al risarcimento del danno cui tra l’altro obbliga ogni condanna, senza che ciò abbia mai fatto dubitare dell’esistenza di componenti afflittive.

Se passiamo poi al duck test le esternazioni istituzionali rispetto a questo istituto, i risultati sono univoci. Certo, le prassi amministrative e i resoconti ministeriali non costituiscono fonte del diritto, ma sono quantomeno testimonianze del “punto di vista interno” sulla misura, tanto sul piano politico quanto su quello burocratico. Ebbene: i dati sulla messa alla prova sono mensilmente e semestralmente rilasciati assieme a quelli sulle misure alternative alla detenzione, sotto titoli quale: «Misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive»142. A livello di rendicontazione, non la si conteggia nemmeno tra i riti speciali. In più, la relazione sull’andamento della messa alla prova che il ministro Orlando ha trasmesso alle camere nel 2017 inizia con queste parole: «a circa tre anni dall’introduzione nel nostro ordinamento della “messa alla prova per adulti” può dirsi ben definito il percorso di costruzione di modelli di esecuzione penale che restituiscono alla pena il valore che la Costituzione e le Raccomandazioni europee le assegnano, relegando la detenzione ad ultima delle risposte punitive»143. L’identificazione con la pena, insomma, è percepita come totale, al punto che pare abbandonata anche la consapevolezza del momento in cui il trattamento s’innesta.

Il tentativo di ricostruire la messa alla prova come strumento puramente riparativo sembra insomma incontrare ostacoli e resistenze culturali davvero troppo forti; per superare queste considerazioni, sembrerebbe necessaria una riformulazione radicale che, prendendo esempio dal modello francese, separi le vie del processo da quelle della mediazione e rinunci al lavoro di pubblica utilità come contenuto necessario: in questo modo, si avrebbe una sorta di procedimentalizzazione degli accordi tra privati, ispirati alle logiche della giustizia riparativa144. Questo, però, non sembra affatto il risultato che la messa alla prova persegue e, a rivestirla della cappa della riparazione, si correrebbe probabilmente il rischio di negare a chi vi s’assoggetta le garanzie che si accompagnano a trattamenti del tutto simili.

C’è poi un altro aspetto da considerare: se si ritenesse il trattamento sostanzialmente sanzionatorio, il catalogo delle prescrizioni che la legge sparpaglia tra i due codici sarebbe tassativo; un programma di messa alla prova non potrebbe contenere prescrizioni eccentriche rispetto al modello e la discrezionalità di giudice e uffici dovrebbe limitarsi a concretizzare le nebulose determinazioni legali. Abbiamo visto come questo sia l’orientamento raggiunto in materia di affidamento in prova al servizio sociale: se le prescrizioni previste dal verbale non possono essere ricondotte a una delle etichette legali, sono

142 giustizia.it.

143 Poche righe dopo si legge anche che la misura mantiene «la fisionomia della sanzione». Il testo completo della relazione è disponibile alle pagine camera.it e senato.it; i passi citati si trovano a p. 1.

133 illegittime. Alla misura, tuttavia, è stata più volte riconosciuta come una sanzione penale vera e propria, con modalità d’esecuzione diverse da quelle carcerarie, ma con un suo carattere dichiaratamente afflittivo. Ora, questo discorso non viene invece affrontato da chi sostiene che il trattamento non abbia natura sanzionatoria, anzi: l’apprezzamento della minor afflittività parte comunque da una valutazione dei contenuti previsti dalla legge, senza aprire l’analisi a elementi ulteriori. Anche la Consulta, nella stessa sentenza in cui afferma che la messa alla prova non comporta l’applicazione di una sanzione, sembra poi affermare la sufficiente determinatezza della legge: nonostante le disposizioni abbiano un certo coefficiente d’elasticità, si conclude che il principio di legalità non è violato. La risposta, però, non si spiega: se non si trattasse di una pena, si dovrebbe dire che l’art. 25 Cost. è stato invocato a sproposito dal giudice a quo: la norma non si occupa di stabilire le condizioni di legittimità di trattamenti non penali. Questo sarebbe piuttosto l’art. 23 Cost., che però parla di prestazioni imposte laddove quelle della messa alla prova sarebbero consensuali. I limiti del giudice, a questo punto, coinciderebbero con i limiti al consenso dell’imputato: sarebbero vietati, ad esempio, gli atti di disposizione del proprio corpo che provocano una diminuzione permanente dell’integrità fisica; l’art. 5 c.c. li sottrae alla libertà contrattuale del soggetto, e quindi non possono essere pattuiti. Se però il giudice decidesse che è opportuno vietare all’imputato il consumo di biscotti al cioccolato durante il periodo di prova, non si capisce quali ostacoli dovrebbero esserci oltre al consenso dell’imputato. Tutto sommato, se s’indeboliscono da un lato le coperture della tassatività – tanto costituzionali quanto legali – esaltando dall’altro il consenso come elemento in grado di sostituire condizioni di legittimità indisponibili, l’equiparazione tra programma e contratto non sembra una conclusione del tutto peregrina. Nessuno, comprensibilmente, sembra volersi incamminare per questa strada; tuttavia, si stanno gettando le basi argomentative per legittimarla: la sensazione è ci si voglia liberare dalla premessa – il carattere sanzionatorio del trattamento – senza tuttavia rinunciare alle conclusioni, cosa che paradossalmente rafforza il nostro duck test. Non solo sembra una pena, è trattata come una pena, se ne parla come se fosse una pena; anche chi sostiene che non lo sia non sembra disposto a rinunciare ad alcuni degli assiomi garantisti che connotano proprio la sanzione penale.