• Non ci sono risultati.

Il volontariato di rilievo sociale (segue)

2. I contenuti

2.5. Il volontariato di rilievo sociale (segue)

La legge, accanto al lavoro di pubblica utilità, prevede una prescrizione almeno nominalmente diversa: si tratta del volontariato di rilievo sociale. Entrambi i codici lo menzionano senza andare oltre: non abbiamo una definizione normativa né una disciplina di dettaglio. Cerchiamo quindi di capire di che si tratta e in che rapporti sta rispetto alle altre componenti del programma di trattamento, tenendo presente che la disciplina è parca d’indizi.

Per ‘volontariato’ sembra doversi intendere una prestazione non retribuita, che sappiamo dover essere ‘di rilievo sociale’: la prestazione dovrebbe quindi andare a vantaggio della comunità che la riceve. Se questa fosse un’interpretazione corretta, ci troveremmo davanti a un doppione del lavoro di pubblica utilità; esso non solo avrebbe due discipline incomplete, ma anche un Doppelgänger come gli eroi dei film di fantascienza: una sorta di gemello apparentemente indistinguibile dal personaggio principale che, con l’avanzare della storia, è tradito da qualche tratto caratteriale del tutto diverso. Allo stesso modo, le due prescrizioni sembrano manifestarsi in maniera identica: il lavoro di pubblica utilità è letteralmente una «attività non retribuita a favore della collettività», ma a differenza del volontariato ha uno statuto preciso quanto a limiti giornalieri, durata, ed enti. Il gemello sembra invece del tutto sregolato, ma è ragionevole pensare che alcuni dei vestiti cuciti sul primo debbano essere indossati anche dall’altro. Per esempio, la clausola per cui il lavoro di pubblica utilità non può superare le otto ore giornaliere e non può pregiudicare le esigenze di lavoro e studio dell’imputato sembra da estendere anche al volontariato di rilievo sociale, che prevede la stessa situazione di fatto. L’obiettivo è evitare che la prescrizione sia troppo onerosa per il soggetto chiamato a svolgerla, e l’esigenza non svanisce al semplice mutamento di categoria. Se questo è vero, sotto al tetto delle otto ore giornaliere dovrebbero essere conteggiate entrambe le prescrizioni in maniera congiunta: non dovrebbe esser possibile aggiungere a sei ore di lavoro di pubblica utilità tre ore di volontariato nell’ambito della stessa giornata. Se così non fosse, il mutamento d’etichetta basterebbe ad aggirare un limite posto a tutela dell’imputato: sembra opportuno ragionare in termini non troppo formalistici.

Per contro, non sembra necessario prevedere per il volontariato una soglia d’impegno minimo: l’Ufficio e il giudice sono liberi di modularne l’incisività alla bisogna, tanto da poterlo discrezionalmente omettere; comparirà nella misura giusta a bilanciare il programma.

La domanda più interessante, tuttavia, è un’altra: perché, dopo aver disciplinato nei dettagli il lavoro di pubblica utilità, il legislatore gli ha giustapposto un clone senza regole? E in che rapporti stanno le due obbligazioni?

114 Una risposta alla prima domanda potrebbe stare proprio nell’assoluta libertà delle forme accordata alla prestazione: questo “volontariato” – ammesso che sia il nome più felice per un’attività prescritta dall’autorità giudiziaria – si potrà svolgere presso enti non convenzionati e senza obbligo di copertura INAIL; questi oneri competono infatti al solo lavoro di pubblica utilità.

Tutto ciò che normalmente è previsto dalle convenzioni – in particolare, le mansioni cui sarà adibito l’imputato e il coordinatore dell’attività – sarà stabilito dal programma o, più probabilmente, dall’atto con cui l’ente esprime il suo consenso. Quanto all’assicurazione per malattie professionali, infortuni e responsabilità civile, basterà la polizza privata, fermo restando che i costi dovrebbero rimanere a carico dell’ente che si gioverà della prestazione98.

Ci troviamo quindi davanti a due corsie: una cosparsa d’impacci; l’altra praticamente sgombra. I rapporti tra le due non sono però cristallini: il codice di procedura penale sembra considerarle alternative tra loro, o l’una o l’altra. Diverso e più imperioso è il dettato del codice penale: esso colloca il volontariato tra le prescrizioni che possono (e non devono) essere parte del programma di trattamento; allo stesso tempo, è molto chiaro nell’esigere il lavoro di pubblica utilità da ciascun imputato ammesso al rito. I due impegni sembrano quindi tutt’altro che intercambiabili: l’uno non potrà mancare, l’altro sì; cosa che rende ancor più difficile giustificare la previsione di due clausole separate.

Proviamo a fare qualche ipotesi. Il volontariato come fattispecie autonoma potrebbe servire proprio ad aggirare le pastoie che ostacolano il lavoro di pubblica utilità: gli enti più piccoli potrebbero così collaborare alla riuscita della misura creando una sorta di rete di sicurezza nel caso in cui l’altra corsia non riuscisse a contenere tutte le richieste.

Questa ragione non sembra abbastanza: correggere il tiro non significa moltiplicare le misure, ma rendere efficaci quelle che già ci sono. Sarebbe stato meglio prevedere una sola obbligazione di lavoro e disciplinarla in maniera semplice, così da attrarre tutte le risorse che il territorio sa esprimere ed evitare doppioni concettuali, sempre scivolosi sul piano tecnico. In fondo, il volontariato di rilievo sociale è la prova vivente del fatto che delle convenzioni si può fare a meno: non che siano il principale ostacolo allo sviluppo della misura – l’abbiamo visto – ma non si capisce comunque il bisogno di sclerotizzare un sistema.

La trovata, poi, non funzionerebbe troppo bene neanche da un punto di vista pratico: poniamo che gli enti presso cui fare i lavori di pubblica utilità siano pochi, mentre quelli presso cui svolgere un periodo di volontariato siano di più. Il giudice dovrebbe disporre almeno dieci giorni di lavoro di pubblica utilità, oltre a un periodo di volontariato da svolgere presso un’associazione diversa. In un attimo si raddoppierebbero i passaggi di carte: ogni imputato dovrebbe cercarsi due organizzazioni interessate

98 Sembra però esserci spazio per le soluzioni opposte che già s’erano affermate nelle linee guida: nessuna norma di legge o di regolamento sbarra la strada.

115 anziché una; servirebbero due attestazioni di presa in carico e raddoppierebbe la complessità della calendarizzazione. Anche gli oneri in fase esecutiva sarebbero sostanzialmente duplicati, tanto che i pochi protocolli che prendono posizione sul punto sono chiari nell’escludere questo scenario: l’imputato potrà prestare attività nello stesso ente tanto a titolo di lavoro di pubblica utilità, quanto a titolo di volontariato di rilievo sociale99.

Per differenziare le due misure, alcune linee guida hanno previsto che il volontariato di rilievo sociale possa supplire al mancato risarcimento100: se l’imputato fosse insolvente, gli si chiederebbe un ulteriore sforzo in termini di lavoro, ma senza sforare le cornici para-edittali che i protocolli stabiliscono per i lavori di pubblica utilità. Lo sforzo è senz’altro apprezzabile, ma nemmeno questa funzione basta di per sé a giustificare l’esistenza di uno strumento autonomo: se il giudice ritenesse di trovarsi davanti a un programma troppo lieve, potrebbe pur sempre aumentare il numero di ore di lavoro di pubblica utilità, anche oltre alle fasce fissate dalle linee guida; queste possono infatti orientare il singolo magistrato, ma di certo non lo vincolano.

Il volontariato di rilievo sociale stenta insomma a ritagliarsi un ruolo autonomo, ma le riflessioni sulla disciplina del lavoro di pubblica utilità sembrano rafforzate. Se la normativa fosse uno strumento accessibile e con cui è facile familiarizzare, non ci sarebbe bisogno di Doppelgänger dallo spirito libero.