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La prognosi di non recidiva

con la presunzione d’innocenza.

1. Un passaggio spezzato.

Abbiamo sottolineato a più riprese come tutta la disciplina della messa alla prova sia fortemente integrata da fonti lontane dai fasti della legge: direttive, circolari, protocolli, linee guida contribuiscono infatti a chiarire ogni passaggio di una normativa spesso imprecisa.

All’anello della catena procedurale che esamineremo nel capitolo, però, è successo qualcosa in più: la struttura che il codice tracciava è stata completamente abbandonata per interventi univoci dei protocolli e della giurisprudenza.

Prima di concentrarci sulle singole operazioni che il giudice deve svolgere per ammettere o rigettare la richiesta, è bene descrivere questo scollamento tra norme e realtà almeno nei suoi tratti principali. Partiamo dal disegno del codice di procedura penale: abbiamo già accennato al fatto che prevede un decorso molto snello, che punta a risolvere tutte le questioni in una sola udienza. L’imputato depositerebbe il programma in allegato alla richiesta, la relazione socio-famigliare dell’UEPE dovrebbe già essere nel fascicolo: il giudice potrebbe così svolgere le verifiche sulla sussistenza di cause di non punibilità, sulla personalità dell’imputato e sul programma1. Se mancassero informazioni, potrebbe chiedere qualche accertamento ulteriore e potrebbe poi modificare il piano, acquisendo sempre il consenso dell’imputato. È in questa prospettiva che il codice detta la disciplina dell’udienza, cui dovrebbero partecipare l’imputato, il pubblico ministero e la persona offesa, col diritto d’essere sentita. Se la domanda fosse stata presentata in indagine, invece, il giudice dovrebbe fissare un’udienza ad hoc, da tenersi in camera di consiglio secondo le forme dell’art. 127 c.p.p., espressamente richiamato.

Questa scansione, l’abbiamo anticipato, non permetterebbe però all’UEPE di scremare le domande: dovrebbe istruire ogni pratica – anche quelle palesemente inammissibili – cosa che lo porterebbe verosimilmente a ingolfarsi nel giro di pochi mesi.

Per questo, tutti i protocolli hanno riscritto lo snodo spalmando le attività su due udienze: la prima dovrebbe servire a espellere dal circuito tutte le domande che non rispondono al modello legale, sfoltendo di conseguenza il lavoro dell’UEPE. Questo controllo in due tempi è oggi ratificato da tutte le linee guida e ha ricevuto sanzione dai livelli più alti dell’amministrazione penitenziaria, che hanno più volte sollecitato

154 una vera e propria riforma che rendesse obbligatorio e ufficiale il preventivo scrutinio di ammissibilità della richiesta.

Il valore pratico dell’accorgimento, in effetti, è innegabile: si fisserà un’udienza in più, ma si permetterà all’istituto di funzionare. Certo, in questa maniera le due rette parallele che il codice aveva tracciato – la domanda dell’imputato all’UEPE e la domanda processuale, che non avrebbero dovuto sovrapporti – diventano segmenti intrecciati tra loro; la difesa sarà costretta a una sorta di pendolarismo giudiziario, oscillando per qualche mese tra UEPE e tribunale. Si dovrà infatti presentare prima la domanda di redazione del programma all’Ufficio e, ottenuta l’attestazione del deposito, si provvederà a interpellare il giudice che valuterà la richiesta almeno rispetto alla sua ammissibilità formale; il magistrato si pronuncerà con un’ordinanza. Se l’esito è negativo, la richiesta sarà rigettata e l’UEPE potrà archiviare la pratica senza aver fatto altro che ricevere la documentazione prodotta dall’imputato; se l’esito è invece positivo, il giudice disporrà un rinvio d’udienza tale da consentire all’UEPE di compilare indagine e programma. Ricevuta l’ordinanza del giudice, l’UEPE inizierà a preparare gli atti che servono, così da trasmetterli alla cancelleria del giudice che procede in vista dell’udienza di valutazione, quella dove si deciderà se ammettere o rigettare la richiesta.

A causa di questa duplicazione degli appuntamenti, la messa alla prova avrebbe perso ad avviso di alcuni la sua portata deflattiva: si tratta spesso di casi semplici, che non richiedono un’istruttoria dibattimentale approfondita; eppure seguendo questa via l’affare non potrebbe essere concluso in meno di tre udienze – due per la valutazione del programma e una per la decisione sugli esiti del trattamento.

La conclusione sembra tuttavia vera a metà: quella che sarebbe la soluzione ottimale per i magistrati di toga – risolvere tutto con un’udienza in meno – porterebbe verosimilmente a una rapida paralisi dell’UEPE e, di riflesso, del rito. In più, è vero che le sedute raddoppiano, ma – anche a concedere che la maggior parte dei casi si possa sbrigare in meno di tre udienze2 – il tipo di adempimento è sicuramente diverso da quello che si richiede al giudice che conduce un’istruttoria dibattimentale: non ci saranno testimoni da escutere, prove da valutare, motivazioni in fatto da scrivere. Il giudice, pur tenendo più udienze, non sembra per questo accollarsi più lavoro. A risentirne sembra solo essere il lasso di tempo impiegato per decidere l’istanza: il codice pensava a un solo giorno, mentre la realtà ha bisogno di una clessidra molto più grande. Tuttavia, la legge sembra aver commesso una leggerezza nell’ignorare i tempi di lavorazione degli UEPE, che non sarebbero certo scomparsi: insistere sulla perfetta deflazione processuale avrebbe voluto dire tagliar fuori tutti gl’imputati privi del tempo materiale per richiedere che non posso materialmente chiedere l’elaborazione del programma con almeno sei mesi d’anticipo rispetto

2 A dire il vero, l’assunto sembra riflettere un certo ottimismo: la prima udienza è generalmente di “smistamento”, e cioè dedicata alle sole questioni preliminari e alle richieste di prova; questo lascerebbe due udienze per istruttoria, discussione e pronuncia del dispositivo.

155 alla presentazione del programma, come accade per la richiesta in seno al giudizio direttissimo o nell’opposizione a decreto penale di condanna. La deflazione, insomma, ha più dimensioni; osservarne una faccia sola, dalla prospettiva del numero d’udienze, non sembra necessariamente l’operazione più indicativa per valutare la riuscita del rito.

La struttura, tuttavia, presenta un aspetto particolarmente critico: non c’è una norma di legge a chiarire in quali rapporti siano le due udienze; di cosa ci si occupi in una e di cosa nell’altra; chi abbia diritto a partecipare; quale materiale deve avere il giudice.

L’insieme è così regolato dagli accordi locali che spesso, in maniera del tutto coerente, tendono stringere le maglie dell’udienza “filtro”: al giudice si affideranno solo le questioni di mera regolarità della domanda, ma anche l’accertamento, l’identificazione della fascia di gravità più adatta al caso tra quelle previste dal protocollo, la valutazione sul curriculum criminale del soggetto, l’indirizzo sull’indagine dell’UEPE e l’impronta da dare al programma affinché risulti idoneo.

Le ragioni di questo accumulo sono sempre le stesse: non ha senso chiedere all’UEPE di predisporre il programma quando è presentata una domanda perfettamente ammissibile, ma da parte di un pluripregiudicato cui il giudice non ha nessuna intenzione di concedere il rito.

Nella logica del risparmio trovano giustificazione anche i poteri sui contenuti dell’indagine e del programma: si cerca semplicemente di scongiurare un’ulteriore navetta tra tribunale e UEPE per eventuali supplementi informativi o richieste di modifica del piano.

Il ruolo del giudice, tuttavia, ne esce svisato: il codice, lo vedremo meglio, prevede questi poteri d’intervento in via del tutto residuale; normalmente dovrebbe limitarsi a ricevere tutto il materiale e valutarlo, intromettendosi solo se ritiene che debba essere integrato o corretto. Al contrario, certe linee guida dipingono un magistrato che detta prescrizioni tanto all’UEPE quanto all’imputato, ancor prima che sia redatta l’indagine socio-famigliare: il rapporto stretto tra informazioni portate alla luce dagli assistenti sociali e prescrizioni di trattamento s’allenta; i rapporti di potere emergono in tutta la loro crudezza.

Se molte delle attività più delicate sembrano collocarsi quindi nella prima udienza, i diritti di partecipazione – specie quello della persona offesa – tendono invece a migrare verso la seconda. A questo punto, le ipotesi s’aprono a ventaglio: la lista degl’invitati varia al variare del momento processuale in cui si presenta la richiesta; gli avvisi dovrebbero quindi essere sufficienti nel caso in cui ci si trovi in udienza preliminare, all’udienza a seguito di citazione diretta a giudizio o di decreto che dispone il rito immediato. In queste occasioni, infatti, gli atti sono notificati anche alla persona offesa, che sarà quindi a conoscenza del procedimento.

Restano sguarniti il procedimento per decreto e, in maniera più difficile da rimediare, il giudizio direttissimo.

156 Quanto al primo, il giudice per le indagini preliminari riceverà la richiesta unitamente all’opposizione e dovrà fissare un’udienza per il suo esame; come abbiamo già avuto modo di notare3, tuttavia, la legge non ha interpolato la disciplina propria dell’opposizione a decreto e non detta quindi una specifica disciplina degli avvisi per questa evenienza. Sembra però ragionevole supporre che la persona offesa debba essere avvertita proprio in virtù dell’art. 464-quater c.p.p., che le assicura il diritto a essere sentita; sembra quindi esserci spazio per sostenere l’applicazione analogica della norma dettata dall’art. 464 c.p.p. in materia di giudizio abbreviato, in virtù della quale il giudice darà avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, al difensore, all’imputato e alla persona offesa.

Più complicato lo scenario che si apre in caso di giudizio direttissimo: la vittima non è di regola avvisata della prima udienza, e le attività da svolgere in questo quadro cambiano di protocollo in protocollo. Stando ad alcune linee guida, il difensore intenzionato a chiedere la messa alla prova lo farà presente e chiederà un termine a difesa per presentare all’UEPE tutta la documentazione rilevante: la domanda processuale dovrebbe essere quindi formulata in un’udienza successiva, cosa che permetterebbe al giudice di far avvisare anche la persona offesa. Altre prassi si muovono invece nella direzione opposta: la prima udienza sarebbe infatti la sede ideale per decidere dell’ammissibilità della domanda, senza aspettare necessariamente la presentazione del materiale all’UEPE competente: il deposito può aspettare, dato che non avrà comunque alcun effetto prima della dichiarazione d’ammissibilità del giudice. Alcuni tribunali accettano quindi un’istanza incompleta, che non presenta né il programma né l’attestato di presentazione della richiesta all’Ufficio: procedono direttamente allo scrutinio d’ammissibilità e dispongono un rinvio sufficientemente lungo per l’elaborazione del programma. In questo schema, la persona offesa saprebbe della seconda udienza – quella dove si deciderà nel merito – e non invece della prima. Certo, non è troppo tardi: il programma potrebbe essere modificato, ma sembrerebbe comunque meglio coinvolgerla sin dall’inizio. La strada del termine a difesa, insomma, sembra preferibile, anche se il mancato avviso alla persona offesa rispetto all’udienza “filtro” non sembra necessariamente violare il suo diritto a partecipare ed essere sentita – purché venga messa a conoscenza dell’udienza dove si deciderà dell’ammissione al rito. Se la richiesta venisse presentata in fase d’indagine, invece, il giudice dovrebbe fissare un’udienza in camera di consiglio, e la legge stavolta indica espressamente le parti e la persona offesa come soggetti da avvisare. Anche in questo caso, però, alcune linee guida hanno modificato il percorso suggerendo al giudice un metodo per risparmiare tempo: la scorciatoia consiste nello svolgere il vaglio d’ammissibilità a porte chiuse, evitando l’udienza. Se riterrà di poter scendere nel merito, il giudice fisserà direttamente l’udienza di valutazione del programma lasciando all’UEPE il tempo necessario per predisporlo.

In fondo, la prassi non rinuncia ad accarezzare l’idea della riduzione a una sola udienza di valutazione, con un vaglio d’ammissibilità soltanto cartolare; la celerità s’otterrebbe però privando le parti della

157 possibilità di partecipare a quella che sembra essere una delle fasi più delicate del processo con messa alla prova. Sembra quindi urgente una riforma che venga incontro alle esigenze della prassi e che chiarisca i reciproci ruoli delle due udienze, aggiornando con attenzione anche la disciplina degli avvisi.

Vedremo ora in cosa consistono i controlli che il giudice deve svolgere, precisando di volta in volta quando e attraverso quale materiale è chiamato a prendere una decisione; vedremo poi i rimedi che le parti e la persona offesa hanno per rimetterla in discussione.

2. Il vaglio d’ammissibilità.

Il primo ostacolo che la domanda di rito deve superare è il vaglio d’ammissibilità, che si terrà di certo nella prima delle due udienze: il controllo sulla rispondenza della richiesta al modello legale dovrebbe infatti essere l’oggetto principale – se non l’unico – di questo primo vaglio.

Abbiamo già analizzato nel dettaglio i presupposti che renderanno qui accettabile la domanda4: ci limiteremo per cui a richiamarli rapidamente.

Per cominciare, il giudice dovrà vigilare sul rispetto dei termini di presentazione della domanda; nel farlo, dovrebbe tenere conto del fatto che la novella non sembra poter essere applicata retroattivamente. Le richieste tardive – anche se lo risultano perché la legge non era ancora in vigore allo scadere del tempo – non dovrebbero essere dichiarate ammissibili.

Si dovrà poi verificare che il reato sia tra quelli per cui il codice penale permette questa soluzione, ovvero tutti quelli puniti fino a quattro anni di pena edittale massima – escluse le aggravanti a effetto speciale – e i reati previsti dal secondo comma dell’art. 550 c.p.p.

S’intreccia qui poi un altro problema: deve il giudice controllare la qualificazione giuridica che il pubblico ministero ha attribuito al fatto? E se sì, come può muoversi nel caso in cui sia errata?

La legge si distacca qui tanto dal modello minorile – che, come vedremo, prevede un accertamento pieno dell’ipotesi d’accusa – sia dalla scansione stabilita per il patteggiamento, che ha fatto da vera e propria falsariga per la disciplina del controllo della richiesta. La struttura dei due riti, del resto, diverge fortemente su questo punto: nell’applicazione della pena su richiesta, una delle alternative del giudice è l’emissione della sentenza; il controllo del titolo di reato – oltre che essere esplicitamente menzionato tra i compiti del magistrato che decide della domanda – si spiega perfettamente in un’ottica sistematica. In primo luogo, serve ad evitare che le parti s’accordino, oltre che sulla pena, sul titolo di reato; per quanto le due cose siano interconnesse, il nomen iuris è materia intoccabile, che deve star fuori dal negoziato. In più, se la richiesta di patteggiamento fosse da accogliere, il giudice dovrebbe pronunciare sentenza: è quindi il momento finale del processo, dove normalmente può rifinire l’imputazione o almeno esprimersi sulla sua correttezza, acquisito ed esaminato tutto il materiale che il rito prevede.

4 V. Cap. II.

158 La messa alla prova si trova invece in una posizione differente: il primo rischio è inesistente e il secondo non sembra presentarsi con la stessa intensità; il giudizio speciale non pone un’alternativa secca tra condanna e rigetto. L’accoglimento non porta di per sé all’emanazione di una sentenza e l’esigenza di battezzare esattamente la fattispecie di reato sembra meno pressante: la legge non lo inserisce nemmeno nel pacchetto di adempimenti di cui il giudice della messa alla prova deve farsi carico.

Dall’etichetta che s’assegna al fatto, tuttavia, discendono conseguenze anche profonde: il rapinatore erroneamente imputato di furto potrebbe togliersi d’impiccio presentando la richiesta; mentre il ladro erroneamente imputato di rapina potrebbe vedersi negato il beneficio per un equivoco destinato a chiarirsi in dibattimento.

Dato però che il giudice deve controllare tanto i requisiti d’ammissibilità quanto l’assenza di cause di proscioglimento immediato, sembra ragionevole immaginare che possa anche convincersi della giustezza o dell’erroneità del titolo di reato attribuito. Ma se ritiene che i fatti siano stati erroneamente qualificati, cosa potrà fare il giudice della richiesta? Una prima risposta è arrivata dalla Corte di cassazione, che ha innanzitutto chiarito che il giudice deve controllare il nomen iuris per verificare l’ammissibilità della richiesta; se rileva poi che la qualificazione è errata, la modificherà di sua iniziativa, traendone tutte le conseguenze del caso5. Nel nostro esempio, quindi, il ladro imputato di rapina potrebbe chiedere la riqualificazione del fatto direttamente al giudice, subordinando al mutamento del titolo una richiesta di messa alla prova6. Il giudice dovrebbe compiere il suo controllo, procedere d’ufficio alla rideterminazione dell’accusa e scendere nel merito della richiesta. Questa trama, tuttavia, non sembra annodarsi bene all’ordito codicistico. I problemi di sistema emergono con ancora più evidenza nel caso in cui la riqualificazione avvenga nella direzione opposta: l’accusato di furto sembra aver commesso qualcosa di più simile a una rapina; stando all’arresto della Cassazione, il giudice dovrebbe cambiare il titolo di reato, rigettare la domanda e aprire il dibattimento su un’ipotesi di reato che il pubblico ministero non ha mai contestato. Egli fisserebbe da sé e per sé l’oggetto del processo, secondo uno schema che non sembra conciliarsi bene con il principio secondo il quale il giudice non partecipa alla formulazione dell’accusa. Anche nel patteggiamento, dove il controllo del nomen è un dovere esplicito, il giudice che non condivide la qualificazione giuridica non può modificarla unilateralmente e procedere oltre; egli dovrà invece rigettare la richiesta e aprire il dibattimento nel caso in cui sia sbagliata l’etichetta ma il fatto appaia sostanzialmente ben descritto; o rimettere gli atti al pubblico ministero nel caso in cui il fatto sia diverso da quello che l’imputazione cristallizza.

5 Cass., sez. IV, 20 ottobre 2015, n. 4527, Cambria Zurro, in C.e.d., n. 265735.

6 Questa tesi è stata avallata in dottrina da F.GAITO, Messa alla prova per adulti e qualificazione del fatto, p. 256 s., ad avviso del quale la difesa dovrà sparare tutte le sue cartucce in limine litis, non potendo poi contare su una rimessione in termini nel caso in cui il nomen cambi in un momento successivo. Lo stesso sostiene Cass., sez. IV, 8 maggio 2018, n. 36752, Nenna, in C.e.d., n. 273804.

159 Questa soluzione sembrerebbe più opportuna anche per la messa alla prova: se il giudice non condividesse la qualificazione data al fatto dal pubblico ministero, dovrebbe rigettare la richiesta e aprire il dibattimento; in questa sede, si potrà mettere meglio a fuoco l’ipotesi d’accusa e ridare all’imputato la facoltà di presentare la richiesta di rito7. Abbiamo visto, tuttavia, che per raggiungere questo stato di cose sembra necessario un secondo intervento della Consulta, che estenda le considerazioni già espresse nella dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 517 c.p.p. anche all’art. 516 c.p.p.8.

Se il fatto appare diverso da com’è descritto nell’imputazione, gli atti saranno da restituire al pubblico ministero: è vero che non si tratta qui d’emettere una decisione, ma è potenzialmente l’unico momento in cui il giudice vaglia la qualificazione giuridica del fatto. L’udienza in cui emette una decisione non avrà ad oggetto la miglior ricostruzione dell’accaduto, ma il contegno dell’imputato durante la sospensione, e se l’ipotesi non è controllata prima, c’è rischio che il giudice pronunci sentenza per una descrizione che non corrisponde agli avvenimenti che emergono dagli atti.

Anche nella messa alla prova, insomma, sembra da applicare il principio per cui il giudice è l’arbitro dell’ipotesi d’accusa, non il fabbro che la forgia: lo scrutinio si collocherà quindi in questa fase, nella decisione d’ammissibilità della richiesta.

Le questioni da valutare, tuttavia, non finiscono qui: nel caso in cui la domanda investa uno solo dei capi d’accusa, il giudice dovrà decidere se rigettare o ammettere la richiesta “parziale”; nonostante l’avviso contrario della giurisprudenza di legittimità, non sembra ci siano elementi per sostenerne l’inammissibilità: la legge non lo vieta e il giudice sembra essere libero d’ammetterla.

Il magistrato verificherà poi che la messa alla prova non sia già stata concessa in un altro caso: il certificato del casellario giudiziale si trova già nel fascicolo del dibattimento e, in più, l’imputato è spesso spinto a rilasciare una dichiarazione scritta che attesti l’unicità della domanda che pende davanti all’autorità