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Le modalità di coinvolgimento

2. I contenuti

2.1. Le modalità di coinvolgimento

comportamentali. – 2.3. La riparazione del danno. – 2.4. Il lavoro di pubblica utilità. – 2.5. Il volontariato di rilievo sociale (segue). – 2.6. La mediazione. – 2.7. Pena o non pena? – 3. L’elaborazione. – 3.1. L’ufficio d’esecuzione penale esterna. – 3.2. La richiesta. – 3.3. L’indagine socio-familiare.

1. Il ruolo.

Arriviamo ora al cuore pulsante dell’istituto: il programma di trattamento. Come per tutto il resto, la sua disciplina è sparsa tra codice penale e codice di rito: i due sistemi normativi presentano però qualche asimmetria che è bene livellare sin d’ora.

La funzione del piano di trattamento, infatti, varia al variare del testo normativo consultato: stando al secondo comma dell’art. 168-bis c.p., l’atto dovrebbe prevedere solo una parte delle prescrizioni cui il soggetto si vincola nel richiedere la messa alla prova. In particolare, a questo si farebbe riferimento soltanto per ciò che riguarda il volontariato di rilievo sociale «ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali». Lo stesso disegno si trova in filigrana nell’art. 168-quater c.p., che commina la revoca della sospensione nel caso in cui non siano rispettati il programma, le prescrizioni imposte o se ci si rifiuti di prestare lavoro di pubblica utilità. Insomma, stando al codice penale, il piano è una tessera di un mosaico più grande: le disposizioni sui risarcimenti e il lavoro di pubblica utilità staranno altrove – presumibilmente nell’ordinanza che ammette il rito.

Il codice di procedura penale, invece, restituisce un’immagine più organica: secondo l’art. 464-bis, «il programma, in ogni caso, prevede» tutti gli impegni che il soggetto promette d’onorare, si tratti di restituzioni, lavori di pubblica utilità o mediazione con la persona offesa. Del pari, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna deve approfondire ciascuno di questi punti e stendere una relazione che li affronti singolarmente, acquisendo poi il consenso del soggetto e dell’ente presso cui egli dovrà prestare il lavoro di pubblica utilità. Tutto, in questo caso, è specificato dal programma di trattamento.

Su quale ruolo debba giocare il documento, insomma, sembra esserci una certa confusione – ennesimo frutto di una tecnica legislativa poco sorvegliata. Ad ogni modo, la strada più ragionevole da seguire sembra quella tracciata dal codice di procedura: è quella che presenta meno “buchi narrativi”, in grado di descrivere un percorso completo; si affrontano nello specifico la genesi e la collocazione di ogni dovere che l’istituto comporta: insomma, sembra essere l’ipotesi più semplice e anche più funzionale. Oltre tutto, è pure la tecnica adottata quotidianamente dagli operatori: il programma è confezionato per essere onnicomprensivo, così da offrire alla valutazione del giudice una sintesi compiuta degl’impegni

83 dell’imputato. Anche la modellistica ministeriale – cui faremo spesso riferimento nel corso del capitolo – si orienta su questa seconda pista1.

Per queste ragioni, studieremo il piano di trattamento in questa veste: ne parleremo come del contenitore di tutte le obbligazioni che la misura comporta, cosa che lo rende un elemento necessario della domanda, l’oggetto della valutazione del giudice, la stella polare del “probando” e, alla resa dei conti, la stregua in base alla quale misurare il successo dell’istituto.

In questo capitolo lo analizzeremo da vicino in primo luogo da un punto di vista statico: cercheremo di esaminare i singoli contenuti e di metterli in prospettiva; in un secondo momento, passeremo al suo procedimento di formazione, spostando il fuoco sulle dinamiche di stesura del documento.

2. I contenuti.

Nella sostanza, la sospensione con messa alla prova non ha introdotto niente d’inedito; si sono riprese obbligazioni note in altri rami e le si sono collocate all’interno di un pacchetto potenzialmente onnicomprensivo. La redazione del piano di trattamento è stata infatti disciplinata attingendo a piene mani da diverse esperienze: la micro-giurisdizione del giudice di pace, il processo al minorenne così come il mondo dell’esecuzione penale hanno certamente orientato la stesura delle regole sul programma. D’altronde, al processo al minore e alla giurisdizione di pace s’è sempre assegnato un ruolo d’avanguardia, di terreno di sperimentazione delle strategie più innovative.

In questo caso, tuttavia, il legislatore non s’è limitato a trarre ispirazione dagli altri settori dell’ordinamento: ha talvolta trapiantato disposizioni normative da un contesto all’altro senza nemmeno smussarne gli angoli, e il risultato ne risente. Le singole prescrizioni cozzano talvolta l’una contro l’altra; talaltra, non sembrano tener conto della realtà della misura, che riguarda un imputato (non condannato) adulto.

La sensazione, insomma, è quella di un legislatore che scrive davanti ai codici aperti: pesca frammenti e li accosta di fretta, cosa che complica anche il lavoro d’esegesi; per commentare – a volte perfino per cogliere il senso della disposizione – non potremo fare a meno di riferirci ai tessuti normativi “di provenienza”.

Per semplicità espositiva, approfondiremo una prescrizione alla volta seguendo l’ordine stabilito dal quarto comma dell’art. 464-bis c.p.p.

84 2.1. Le modalità di coinvolgimento.

Partiamo dal testo della lettera a, art. 464-bis comma 2, che recita: «le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile».

Come emerge chiaramente da dato letterale, si tratta di un contenuto eventuale del programma, che andrebbe dosato e definito a seconda dei casi; se le circostanze non lo richiedono, sarà possibile ometterlo.

La disposizione è delle più impalpabili; occorre un certo sforzo d’immaginazione per capire a cosa ci si riferisca: si potrebbe trattare – forse – dei colloqui periodici che il soggetto dovrà sostenere nel corso della sospensione2, anche se il codice penale sembra assimilare anche questo impegno alle altre ‘prescrizioni comportamentali’ che troveremo poco più avanti3.

Ancor più problemi sembra poi porre il riferimento al nucleo familiare e all’ambiente di vita, come se le scelte dell’imputato potessero proiettarsi su soggetti del tutto estranei al procedimento penale. Questi non hanno nessun obbligo di conformarsi rispetto al programma e, anche se non fossero fuori luogo, non si capisce come si potrebbe esigere questo genere di collaborazione da terzi. Certo, non mancano i casi in cui le persone più vicine all’imputato si sono spontaneamente rese partecipi: la fidanzata che accompagna il ragazzo al lavoro di pubblica utilità e resta a dare una mano; i famigliari che si presentano assieme all’interessato ai colloqui con l’assistente sociale4; i singoli fascicoli offrono un ritratto addirittura commovente di come la famiglia, gli amici e i cari della persona imputata possano sostenerla durante questo percorso, ma non è (né può essere) il programma a obbligarli.

La clausola, a dire il vero, sembra arrivare dritta dalla disciplina prevista per la messa alla prova del minorenne: la somiglianza con l’art. 27 comma 2 lettera a delle norme d’attuazione del processo al minore è quasi letterale5. Questa prevede infatti che il progetto d’intervento specifichi «le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita». Le parole son le stesse, ma tutto ciò che sta intorno è rimodellato: innanzi tutto, i doveri del minore messo alla prova sono assai meno definiti che nel processo per adulti; una norma generica, che faccia riferimento alle modalità di coinvolgimento del soggetto non rischia d’essere assorbita da previsioni più specifiche. Inoltre, il ruolo che la famiglia e l’ambiente di vita possono giocare assume una pregnanza tutta diversa: il minore è un soggetto ancora in formazione, sottoposto a una forte influenza di ciò che gli sta intorno; in più, sul piano strettamente giuridico, è ben possibile fondare un dovere d’educazione e d’assistenza in capo ai genitori,

2 Di questa opinione è C.CESARI, Commento all’art. 464-bis, 2130.

3 Si tratta della lettera b) dell’art. 464-bis c.p.p.: il codice penale, infatti, menziona il mantenimento dei rapporti con i servizi sociali insieme agl’impegni che riguardano i programmi terapeutici e le restrizioni della libertà di movimento.

4 Rispettivamente: U.E.P.E. Bologna, fascicolo n. 555/15; U.E.P.E. Bologna, fascicolo n. 95/15.

85 che sono pur sempre i primi responsabili dell’educazione e d’assistenza del minore. Non è così innaturale pensare al loro coinvolgimento nella gestione di un momento tanto delicato della vita del ragazzo6. Per gli adulti, invece, la previsione resta nebulosa e la prassi la concretizza talvolta ponendo in termini prescrittivi le abitudini di vita del soggetto. In sostanza, si chiede all’interessato di andare avanti con la propria vita continuando a svolgere la propria attività lavorativa, partecipando agl’impegni famigliari manifestati durante i colloqui, frequentando i corsi di studio cui risulta iscritto7. Insomma, si chiede alla persona di mantenere il proprio stile di vita, ammesso sia compatibile con il processo di reinserimento sociale proposto dal documento.