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I poteri d’intervento del giudice

Prima di decidere dell’ordinanza, il giudice può esercitare una serie di poteri che la legge gli attribuisce; si tratta di clausole dallo scopo definito, limitato dalle disposizioni che le istituiscono. Ciò nondimeno, sono parecchi i tentativi di slabbrare le definizioni normative e modificare gli equilibri dell’istituto: vediamo dunque quali sono e a cosa servono questi meccanismi, cui abbiamo già fatto più d’un accenno.

171 Val la pena menzionare per prima la possibilità di richiedere «tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie» sulle «condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato». Il giudice potrà ricorrevi «al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni» cui subordinare la misura. L’art. 464-bis c.p.p. sembra insomma mettere a disposizione uno strumento d’integrazione dell’indagine socio-famigliare: se il giudice ritiene di non aver abbastanza materiale per comprendere al meglio la situazione dell’imputato o per valutare l’idoneità del programma, potrà acquisire i pezzi mancanti.

Sia in dottrina sia in giurisprudenza, s’è talora sostenuto che il dispositivo possa servire a completare non tanto il lavoro dell’UEPE quanto quello del pubblico ministero: stando a questa tesi, il giudice potrebbe colmare d’ufficio eventuali lacune nella ricostruzione storica, disponendo l’esecuzione di veri e propri atti d’indagine. La lettura non sembra però trovare conforto nel dato testuale, oltre che a non attagliarsi al tipo di controllo sul fatto previsto per il rito. In più, dare al giudice – probabilmente quello del dibattimento – il potere di ricostruire il fatto parrebbe in rotta di collisione con i principi d’imparzialità e terzietà, specie se si considera che il dibattimento, a questo stadio, è ancora una possibilità.

La prima strada, insomma, sembra più sostenibile: il giudice potrà richiedere dati che potrebbero comunque entrare nel fascicolo del dibattimento per consentire la valutazione della personalità del soggetto (art. 236 c.p.p.), con la differenza che potrà ordinare la compilazione di report nuovi anziché limitarsi ad acquisire quel che già esiste.

Per cercare e raccogliere le conoscenze desiderate, potranno essere interpellati tanto gli Uffici EPE, quanto la polizia giudiziaria e altri enti pubblici.

Per quanto riguarda il primo di questi soggetti, non sembrano sorgere particolari complicazioni: si chiederà semplicemente un approfondimento dell’indagine già realizzata, precisando i punti rispetto ai quali si vuole una base conoscitiva più ampia.

Meno chiare sono le modalità con cui il giudice dovrebbe disporre della polizia giudiziaria: la soluzione più lineare sembrerebbe quella di rivolgere la richiesta al pubblico ministero che, come d’abitudine, chiederà poi alla polizia giudiziaria di svolgere l’indagine. Una volta compiuti gli atti, questi dovranno essere trasmessi al giudice. L’ipotesi potrebbe presentare però qualche rischio in più: pubblico ministero e polizia giudiziaria sono professionisti della costruzione di un’ipotesi d’accusa; dovrebbero qui cambiare lenti e limitarsi agli aspetti che la legge indica espressamente, senza perseguire una determinata pista. Tutto sommato, il punto di riferimento più adeguato sembra essere l’UEPE: è il servizio specializzato per questo genere d’inchieste, conosce già la situazione dell’imputato per come è emersa fino a quel momento, non è una parte in causa e comunica direttamente con la cancelleria del giudice. D’altronde, se le informazioni che il giudice ha richiesto possono essere fornite solo da persone che si rifiutano di

172 collaborare, l’Ufficio non potrebbe disporne la convocazione; in questo caso sarebbe più saggio investire dell’incombente la polizia giudiziaria, che sarebbe agevolata nel compito dai suoi poteri autoritativi. Gli ultimi soggetti che possono essere coinvolti sono gli enti pubblici, che potrebbero sempre avere nei propri archivi documenti utili a valutare la situazione del soggetto: per esempio, si potrebbero chiedere all’Agenzia delle entrate le copie delle dichiarazioni dei redditi, o all’INPS i dati riguardo eventuali pensioni o quote d’invalidità.

Le informazioni così ottenute, dice l’art. 464-bis comma 5 c.p.p., dovranno essere portate tempestivamente a conoscenza del pubblico ministero e dell’imputato; non viene menzionata la persona offesa, che avrà comunque accesso al fascicolo.

Per esercitare questo potere, il giudice dovrà aspettare la documentazione completa dell’UEPE, esaminarla, valutarne i vuoti e comprendere quali tessere mancano al mosaico: l’operazione non dovrebbe quindi avvenire prima della seconda udienza. A quel punto, si ordineranno gli ulteriori accertamenti precisandone tema e modalità e si rinvierà a una terza udienza, nella quale il giudice sarà finalmente in grado d’esprimersi nel merito.

Così facendo, tuttavia, si dilaterebbe ancor di più la fase di vaglio della domanda: il termine di prescrizione del reato s’avvicinerebbe ulteriormente e l’UEPE dovrebbe riaprire un’istruttoria per adeguarla a necessità impreviste. L’ipotesi, in ogni caso, non sembra essere frequentissima: il ministero della giustizia ha iniziato a raccogliere questo specifico dato a partire dal marzo 2017, quando il numero di domande segnalate come “in aggiornamento”31 erano il 2,9% del totale; il numero è poi cresciuto in maniera piuttosto indipendente rispetto all’aumentare delle domande arrivando a un picco del 4,7%32.

Per questa ragione, alcune linee guida prevedono una sorta di potere preventivo del giudice: se ritiene sin dall’inizio che alcune informazioni siano necessarie ai fini della concessione della misura o della determinazione delle prescrizioni cui subordinarla, dovrà indicarle nell’ordinanza che decide dell’ammissibilità e che autorizza la predisposizione del programma33. In questa maniera si dovrebbero tendenzialmente evitare incomprensioni e rimpalli: il tribunale potrà chiarire cosa si aspetta e l’UEPE potrà dare la giusta direzione alle sue attività.

Un secondo potere accordato al magistrato inerisce a un aspetto diverso: se quello che abbiamo appena visto gli consente di avere una base conoscitiva adeguata al tenore delle valutazioni che deve svolgere, attraverso questa seconda possibilità potrà accertarsi della regolarità della domanda. In particolare, potrà verificarne la provenienza: l’art. 464-quater c.p.p. dispone infatti che, «se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta», potrà disporre la comparizione personale dell’imputato. La clausola,

31 Si tratta del codice con cui vengono registrate a sistema le richieste d’informazioni supplementari. 32 V. Grafico K.

173 trapiantata dalla disciplina del patteggiamento, sembra voler evitare che l’imputato non sia reso partecipe delle scelte strategiche del difensore, ma il rischio – come anticipavamo34 – non appare concreto. Tutte le operazioni che abbiamo descritto presuppongono una collaborazione attiva da parte dell’assistito, che non potrà limitarsi a firmare una procura speciale e telefonare al difensore per gli aggiornamenti del caso. Dovrà fornire tutta la documentazione utile a fare domanda (buste paga, certificati medici, contratti di lavoro), incontrare l’assistente sociale incaricato e firmare il programma di trattamento in segno d’adesione: sembra difficile che un avvocato riesca a far compiere tutte queste operazioni al proprio cliente senza avergli spiegato cosa il rito comporta.

Alcuni protocolli, tuttavia, hanno rivestito questo strumento di una nuova finalità: assicurarsi che l’imputato presenzi. Stando ad alcune linee guida, la comparizione personale è quindi disposta in maniera sistematica, senza che sorgano necessariamente dubbi sulla volontarietà della richiesta35: si utilizzerà soltanto per evitare un nuovo rinvio nel caso in cui il giudice decidesse d’esercitare la terza facoltà che la legge gli accorda: modificare le prescrizioni del programma. Quella che nasce come una disposizione a tutela dell’imputato, quindi, diventa una previsione efficientista, che aiuta a giungere a una decisione stabile in tempi più brevi.

Il giudice, infine, se non ritiene idoneo il programma messo a punto dall’UEPE, potrà adeguarlo aggiungendo o sagomando diversamente alcuni degli obblighi già pattuiti. Ma come serve il consenso dell’imputato per costituire il programma, questo sarà necessario anche per la modifica operata d’ufficio dal magistrato: se l’interessato non sarà presente in aula, il giudice non potrà far altro che fissare un rinvio affinché l’interessato possa esprimere il suo accordo36; se invece si trova in udienza come auspicato dai protocolli, potrà direttamente rispondere al giudice, dando o negando il via libera.

Anche in questo caso, non sono mancate le proposte creative delle linee guida: in particolare, s’è previsto che il giudicante possa dettare i contenuti che ritiene necessari già prima dell’elaborazione del programma; lo scopo è sempre lo stesso: l’Ufficio potrà così stendere un piano che risponde alle aspettative di chi dovrà poi approvarlo, evitando ulteriori limature37.

Questi stratagemmi tracciano una linea di tendenza piuttosto chiara, che porta a ingigantire il ruolo del giudice nell’economia del rito. La stessa legge non lo relegava affatto in una posizione marginale, ma gli lascia spazio d’intervento solo alla fine, quando l’UEPE ha già fatto quel doveva, seguendo le consuete

34 v. Cap. III, § 3.

35 V. protocollo di Verona. Altre linee guida prevedono strategie diverse: quelle di Bolzano pongono un potere di partecipazione all’imputato. Altre hanno valorizzato il ruolo del difensore, che dovrà invitare l’assistito a partecipare alle udienze; si tratta di quelle stabilite a Udine, Trieste, Pescara.

36 In ogni caso, a nulla vale il consenso espresso dal sostituto del difensore sprovvisto di procura speciale: il soggetto non è legittimato ad acconsentire e, anche se esprime un accordo, il giudice dovrebbe disporre un ulteriore rinvio per raccogliere l’adesione del diretto interessato, espressa personalmente o tramite procuratore speciale: v. Cass., sez. III, 16 febbraio 2018, n. 16711, Petraglia, in C.e.d., n. 272556.

174 procedure e focalizzandosi sulle esigenze del soggetto. Nel nome dell’efficienza, tuttavia, si tende ad anticipare anche quelli che dovrebbero essere rimedi estremi, da attivare se il risultato del percorso ordinario non appare sufficiente; la prassi sembra insomma scivolare verso un ruolo molto più attivo del giudice, che non solo è il committente formale del programma – in fondo è il soggetto che ne ordina la redazione – ma può diventare anche quello che ne detta i contenuti. Il lavoro degli esperti sarebbe così vincolato in una dinamica che sembra mettere il carro davanti ai buoi: non è l’Ufficio che fornisce la base conoscitiva indispensabile a una valutazione; è il valutatore che, bendato, disegna su carta bianca cosa s’aspetta di vedere una volta che aprirà gli occhi. Il programma, di conseguenza, rischia di essere ancor più svincolato dall’indagine socio-famigliare dell’UEPE o dalla logica di un percorso “su misura” dell’imputato, fatto per rieducare; gli elementi che emergono dal fascicolo del pubblico ministero sembrano destinati ad assumere un peso decisivo: il giudice li conosce sin dall’inizio e su questi baserebbe il suo ordine d’elaborazione di un programma à la carte.

Ancora una volta, l’assetto funzionale sembra allontanarsi da un compiuto intento rieducativo, ma a spostarsi in maniera ancora più evidente sono gli assetti di potere, specie se si paragona la messa alla prova al patteggiamento.

Rispetto a quel rito speciale, s’era già chiarito che la parità delle parti è irrealizzabile: la negoziazione sulla pena non vede due protagonisti uguali, ma si nutre di un’asimmetria evidente tra parte pubblica e parte privata. Nella messa alla prova dell’adulto, la trattativa sulle prescrizioni dovrà esser svolta in ultima analisi con il giudice, che non si trova più a dover vidimare un accordo: è allo stesso tempo arbitro e contraente forte.