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3. Breve storia della narratologia

3.1 Definire la narrazione: la narratologia classica

In un articolo del 1976, Genette e Levonas si interrogano sui confini che delimitano il concetto di narrazione. A questo proposito, una prima considerazione da fare riguarda l’ambito della narrazione che, nella prospettiva di Genette (1983), è riferibile alla sola rappresentazione linguistica di eventi. A partire da questo fatto, si potrà chiamare narratività «una proprietà data che caratterizza un certo tipo di discorso, e a partire dalla quale si distingueranno i discorsi narrativi da quelli non narrativi» (Grei-mas & Courtés 1979, trad. it. p. 210). La narrazione è, in prima istanza, un tipo di discorso. A questa definizione generale seguono delle distinzioni che rappresentano un punto di partenza imprescindibile per ripercorrere il dizionario della narratologia classica. In Figure III – Discorso del racconto, Ge-nette (1972, trad. it. p. 73) distingue tre accezioni di narrazione. Secondo una prima accezione, nar-razione designa l’enunciato narrativo, vale a dire il discorso in cui viene riportato un avvenimento o una serie di avvenimenti – questo piano, definibile piano del significante, viene denominato racconto (histoire). Il secondo senso di narrazione fa riferimento alla successione di avvenimenti, reali o fittizi, che costituiscono l’oggetto dell’enunciato narrativo – si tratta del piano del significato ed è denomi-nato storia (récit). In un’ultima accezione, narrazione fa riferimento alla situazione effettiva in cui qualcuno racconta qualcosa, vale a dire all’atto di narrare in sé stesso – è il piano dell’enunciazione e quello a cui possiamo riferirci propriamente con il termine narrazione (narration).

Posto che il piano del contenuto narrativo e quello del proferimento effettivo si intrecciano costantemente tra loro e interagiscono con il racconto, la narratologia classica incentra la sua analisi sulla narrazione intesa come racconto, pertanto, il testo narrativo – il testo letterario – è l’oggetto di indagine privilegiato di tale disciplina. C’è da dire che le distinzioni operate da Genette, oltre a non sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, non forniscono un quadro terminologico unitario e condiviso dall’intera tradizione narratologica. Todorov (1966), ad esempio, distingueva tra histoire e discours e Chatman (1978, trad. it. p. 15) eredita la distinzione tra storia e discorso per differenziare il livello espressivo da quello del contenuto: «la storia è ciò che viene rappresentato in una narrativa, il discorso il come». Al di là delle differenze di ordine terminologico, la distinzione tra storia e di-scorso/racconto operata sulla falsariga del dualismo saussuriano tra piano del contenuto e piano dell’espressione non sembra catturare in modo sistematico la linea di demarcazione tra due fenomeni distinti (Sternberg 1992). La tradizione di studi narratologici utilizza i vari termini annullando spesso le differenze e generando un quadro tutt’altro che chiaro e coerente. Lo stesso Prince, noto per il suo lavoro di sistematizzazione, individua una separazione tra storia e narrazione per poi utilizzare i ter-mini in modo confuso. All’interno dello stesso lavoro (Prince 1982), incontriamo prima l’idea che la narrazione sia la rappresentazione di eventi reali o immaginari in una sequenza temporale per poi

passare a un impiego del termine narrazione come «nocciolo narrativo» (the kernel narrative) (p. 83) che si avvicina maggiormente al concetto di «storia minima» laddove «a minimal story consists of three conjoined events» (Prince 1973, p. 31).

Un modo per arginare l’indebolimento della distinzione tra storia e narrazione intesa come discorso o racconto è insistere sul concetto di rappresentazione. Mentre una storia – una successione di eventi dotata di significato (Richardson 2002; Ryan 2007) – non costituisce di per sé una narra-zione, nel momento in cui viene narrata e quindi rappresentata essa diviene narrazione (Jannidis 2003). Genette (1982, p. 127) esemplifica bene il punto definendo, seppur in modo minimale, la nar-razione come «the representation of an event or sequence of events». La narnar-razione non è la mera sequenza di eventi ma la rappresentazione di tale sequenza. Un’ulteriore distinzione è quella tra nar-razione e storytelling (ad es. Thompson 2010). Laddove si può parlare di narnar-razione in senso ampio in riferimento al solo processo di denotazione di una storia, lo storytelling coinvolge necessariamente il processo di costruzione di una storia che, implicitamente o esplicitamente, è narrata da un narratore (Schmid 2003; Sibierska 2016).

Dalla definizione di Genette apparirà chiaro che un elemento definitorio della narrazione chia-mato in causa dalla tradizione narratologica classica è il concetto di evento. Come sottolineato da Jannidis (2003), in questa tradizione la nozione di evento è impiegata in modo piuttosto ingenuo e in assenza di una effettiva definizione. Nel Capitolo tre analizzeremo dettagliatamente tale nozione all’interno di una prospettiva cognitiva; per ora, ci basta sottolineare che i narratologi di prima gene-razione operano una tematizzazione della nozione di evento del tutto interna al testo e fortemente imperniata sul concetto di imprevedibilità e violazione delle aspettative rispetto al corso della storia.

Tale concetto permetterebbe di dar conto della distinzione tra discorsi narrativi e non narrativi, vale a dire, di discriminare il tipo di rappresentazioni di azioni ed eventi che possiamo considerare narrativi (Todorov 1969). Per come vengono letti in chiave narratologica, affinché possano essere classificati nei termini di narrazione gli eventi devono organizzarsi secondo i due meccanismi complementari di fabula e intreccio.

La fabula rappresenta gli eventi narrati nel loro ordine cronologico e organizza lo sviluppo della trama attorno a problemi; l’intreccio o intrigo è il modo in cui la storia viene narrata, mettendo insieme gli eventi indipendentemente dal loro ordine logico o cronologico. Lo schema “primitivo”

(Bruner 1986) attorno a cui ruota la fabula era stato individuato da Propp (1928) come comprendente una situazione di equilibrio iniziale che costituisce l’esordio, una serie di eventi imprevisti e conflit-tuali che minano quell’equilibrio e sono al centro delle vicissitudini centrali della storia e, infine, una conclusione che ristabilisce una situazione nuova di equilibrio. L’imprevisto è l’elemento funzionale che contraddistingue il racconto, che permette di caratterizzare una sequenza di avvenimenti come

una storia. Già Aristotele nella Poetica aveva illustrato le dinamiche tra lo stato ordinario delle cose e l’effetto sorpresa – dinamiche costruite attraverso l’intreccio o emplotment che snoda la linearità della fabula seguendo percorsi diversi – come la chiave di ciò che chiamiamo storia. Tali dinamiche convergono nel concetto aristotelico di peripeteia che conduce al «rivolgimento dei fatti verso il loro contrario [...] secondo il verosimile o il necessario» (Poetica, 11, 1452a 23 sgg). Bruner (1990) offre una caratterizzazione simile del racconto in riferimento alla dialettica tra canonicità e infrazione: c’è racconto laddove c’è imprevisto, violazione del canonico, e laddove vengono rappresentate le varie peripezie messe in atto per ristabilire l’ordine. Comprendere una storia significa individuare le azioni significative della peripeteia che conducono verso la conclusione. Quella di Bruner (2002) è un’ipo-tesi psicologica sul racconto come ritualizzazione dell’inaspettato; chiaramente, nella tradizione nar-ratologica la chiave interpretativa delle dinamiche ordinario-inaspettato riguarda un’analisi esclusi-vamente interna al testo. Detto questo, un elemento comune a entrambi gli orientamenti è che, affin-ché una storia risulti coerente, la sospensione dell’ordinario prodotta dal fattore sorpresa debba risol-versi in un intreccio concluso. Il compimento rappresenta il polo d’attrazione dell’intera storia (Ri-coeur 1980) perché è ciò che, in ultima istanza, conferisce significatività agli sviluppi raccontati.

L’idea che la totalità di eventi narrati debba trovare realizzazione in una chiusura – che il principio di chiusura debba essere considerato un criterio definitorio di una narrazione prototipica – rimanda all’idea che la concatenazione causale tra gli eventi sia una caratteristica necessaria del piano narrativo (sul principio di chiusura si veda ad es. Kermode 1967). L’approccio prevalente in narrato-logia è quello incentrato sull’individuazione delle proprietà (Zeman 2018) che contribuiscono a spie-gare «the differentia specifica of narrative, what in narrative is distinctive of narrative» (Prince 2003, p. 3). Il richiamo alle connessioni causali è parte di questo approccio. In effetti, diversamente da una cronistoria in cui ci si può limitare all’elencazione di una serie di eventi, la narrazione è costituita da elementi relazionali che cuciono insieme gli accadimenti in una sequenza coerente (Morgan 2017).

Nel dibattito attuale, il riferimento al ruolo delle connessioni causali per dar conto di una nozione minima di narrazione è controverso. Schmid (2003), ad esempio, ritiene la causalità al più una pro-prietà che il lettore concretizza mettendo insieme i vari elementi ma di per sé un testo può essere considerato narrativo anche se i cambiamenti di stato di cui si parla hanno un carattere esclusivamente temporale.

A questo proposito, il riferimento alla struttura temporale rappresenta senz’altro il marchio della narratologia classica: i fautori di tale prospettiva riconoscono nella temporalità l’elemento es-senziale del discorso narrativo. Il fattore temporale appare fondamentale non soltanto perché la nar-razione coinvolge un dispiegamento degli eventi nello scorrere del tempo ma anche perché entra in gioco nella costruzione dell’intreccio come meccanismo attraverso cui orchestrare la dialettica tra

ordinario e imprevisto generando una relazione complessa tra il “tempo del racconto” e il “tempo raccontato” (Genette 1972). Vista la centralità della questione, a breve affronteremo nel dettaglio il dibattito sulla relazione che intercorre tra tempo e narrazione. Intanto, è opportuno evidenziare che, accanto agli aspetti causali e temporali, nel guardare alle caratteristiche essenziali del racconto i nar-ratologi hanno posto l’accento su altre proprietà come il modo e la voce del racconto (Genette 1972).

Il termine modo rimanda a forme e gradi della rappresentazione narrativa, ovvero alla capacità del racconto di narrare gli eventi da vari punti di vista e di regolare l’informazione narrativa sulla base della prospettiva assunta. Nella categoria voce rientra il modo in cui l’atto narrativo stesso si trova implicato nel racconto, vale a dire gli aspetti che riguardano la relazione tra il narratore e il fruitore del testo narrativo.

Le categorie individuate dal vocabolario narratologico rappresentano un buon punto di par-tenza per un’analisi delle proprietà essenziali della dimensione narrativa. Trascureremo alcune di queste categorie, per focalizzare l’attenzione su quelle che risultano particolarmente centrali nell’eco-nomia di questo lavoro, a cominciare dal concetto fondamentale di temporalità.