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Come affermato, l’esistenza di una società democratica implica la necessità di un certo compromesso nell’esercizio dei diritti; in particolare l’aspetto della manifestazione religiosa può essere soggetto a certe condizioni e limitazioni. Diviene fondamentale determinare i confini della libertà degli individui di agire secondo i dettami della propria fede poiché è una questione che viene ad intrecciarsi con il rapporto tra legge e religione, tra doveri legali e morali81; ciò vale specialmente

quando un individuo cerca di adattare la sua condotta nella vita quotidiana ad obblighi morali che derivano da precetti religiosi, ma subisce da parte dell’ordinamento dei vincoli. Una questione determinante è quindi la definizione dei confini in cui si esplica il “forum externum” e soprattutto del significato da attribuire al termine “practice” nel contesto dell’articolo 9; tale termine sarebbe ridondante se alludesse solamente ad una dimensione rituale, dato che a ciò sono già preposte le altre due espressioni “worship” ed “observance”82.

L’interpretazione di “practice” che è stata data dalla Commissione prima e dalla Corte poi, è decisamente ristretta. L’approccio prevalente consiste nel tracciare innanzitutto una linea di separazione tra i concetti di manifestazione e di motivazione. Si fa in particolare riferimento all’assunto secondo cui l’articolo 9 non tutela qualsiasi atto motivato o ispirato da una religione o da un credo83; non tutti gli atti che sono

motivati da un sentimento religioso possono dirsi manifestazione garantita ma troveranno protezione solo quelli che siano “intimately linked” ad una religione o credo.

Questo approccio è stato per la prima volta adottato dalla Commissione europea nel caso Arrowsmith v. Regno Unito84, dando vita a quella che verrà poi chiamata la

81 MARTÍNEZ TORRÓN J., Religious liberty in European Jurisprudence…, cit. nota 4, pag. 117 82 IBIDEM, pag. 119

83 PASQUALI CERIOLI J., La tutela della libertà religiosa nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in

Stato Chiese e pluralismo confessionale - www.statoechiese.it, gennaio 2011, pag. 11

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dottrina Arroswmith seguita pedissequamente dagli organi di Strasburgo nel corso degli anni successivi.

Il caso Arrowsmith risale alla fine degli anni Settanta e riguardava una pacifista contraria alle scelte di politica estera del governo inglese ed in particolare a come lo stato stava gestendo la questione nord-irlandese. La signora Arrowsmith aveva deciso di manifestare le sue idee distribuendo volantini a gruppi di soldati per convincerli a disertare o disobbedire agli ordini loro impartiti; per questo era stata condannata. La questione che la Commissione si trova a valutare è in primo luogo se il pacifismo potesse dirsi una convinzione protetta ai sensi dell’articolo 9 ed in secondo luogo se il volantinaggio potesse essere una sua manifestazione – practice – tutelabile. Quanto alla prima questione, la Commissione ammette il pacifismo tra i

beliefs protetti dall’art. 9; tuttavia, nonostante l’affermazione della ricorrente che “la

distribuzione del volantino fosse un imperativo morale che le derivava dall’impegno di tutta una vita per la causa pacifista”, la Commissione esclude che l’attività di volantinaggio potesse qualificarsi come manifestazione ai sensi della disposizione in esame85. È vero che le dichiarazioni pubbliche che affermano in generale l'idea del

pacifismo e sollecitano l'accettazione di un impegno per la non-violenza possono essere considerate come una normale e riconosciuta manifestazione di questa convinzione, tuttavia questo non è il caso della ricorrente; “quando le azioni degli individui non esprimono effettivamente le convinzioni di cui trattasi, esse non possono essere considerate come tali protette dall’ art. 9 (1), anche quando sono da tali convinzioni motivate o influenzate”. Dal contenuto del volantino infatti si evince senza dubbio una opposizione contro la politica dello stato nel Nord Irlanda, ma a detta della Commissione “non si può constatare che il foglietto trasmetta l'idea che non si debbano in nessun caso perseguire obiettivi politici o d’altro tipo attraverso mezzi non violenti, anche se in risposta ad una minaccia o all'uso della forza86. In

85 IBIDEM, par. 69 86 IBIDEM, par. 72

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conclusione, secondo Strasburgo, il volantino non esprimeva per davvero i sentimenti pacifisti e quindi la ricorrente, distribuendoli, non stava realmente manifestando le sue convinzioni ai sensi dell’articolo 9 primo comma.

6.1. Critica alla dottrina Arrowsmith

V’è chi disapprova questa dottrina perché con essa la Corte, attraverso la distinzione tra motivazione e manifestazione, potrebbe rischiare di dare una valutazione nel merito delle convinzioni religiose degli individui; tale approccio “può pericolosamente portare la Corte vicino al giudicare se una particolare pratica sia formalmente richiesta da una religione, un compito che i suoi giudici, data la rilevante questione teologica, appaiono mal equipaggiati ad affrontare”87. Al

contrario, si dovrebbe fare strada invece il principio dell’autoqualificazione: “la percezione che i singoli hanno delle proprie opzioni di coscienza dovrebbe essere accettata dalla Corte salvo che sia manifestamente infondata o irragionevole”88. Un

timore simile è stato sollevato da alcuni giudici nel caso Valsamis v. Grecia89; i

ricorrenti erano due Testimoni di Geova che si erano opposti alla partecipazione della figlia ad un momento scolastico commemorativo di un evento bellico. Alla bambina era stato chiesto infatti di partecipare ad una parata per i festeggiamenti del

National Day che commemora lo scoppio della guerra tra la Grecia e l’Italia fascista.

La studentessa aveva informato il preside che le sue credenze religiose, di cui il pacifismo era un tratto fondamentale, le proibivano di unirsi alla commemorazione di un evento bellico prendendo parte alla parata, davanti alle autorità civili, alla Chiesa e militari. Era stata poi sospesa per un giorno per non essere stata presente. In questo caso la Corte afferma che non si poteva scorgere nulla, né nello scopo della parata né nelle modalità con cui era stata organizzata, che avrebbe potuto offendere

87 HARRIS D., O’BOYLE M., WARBRICK., Law of the European Convention on Human Rights…, cit. nota

22, pag. 433

88 BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., Commentario breve alla Convenzione Europea…, cit.

nota 15, pag. 374

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le convinzioni pacifiste dei ricorrenti in un modo vietato dalla seconda frase dell'articolo 2 del Protocollo 190. Anzi, a detta della Corte, “tali commemorazioni di

eventi nazionali [servivano], a loro modo, entrambi gli obiettivi pacifisti e l'interesse pubblico”. L’obbligo di prendere parte alla parata della scuola non era tale da offendere le convinzioni religiose dei suoi genitori e dunque il provvedimento impugnato – la sospensione della figlia - non costituiva un'ingerenza nel suo diritto alla libertà di religione91. Dicendo cosi però, è come se la Corte entrasse nel merito

delle convinzioni religiose dei ricorrenti, confutandone la sostanza. Questa preoccupazione è stata espressa dall’opinione dissenziente dei giudici Thor, Vilhjalmsson, Jambrek; “la percezione del signore e della signora Valsamis del simbolismo della parata a scuola e delle sue connotazioni religiose e filosofiche deve essere accettato dalla Corte a meno che non sia ovviamente infondata e irragionevole”92. Un medesimo pensiero è stato espresso anche nel caso Cha’are

Shalom Ve Tsedek v. Francia93 dai giudici di minoranza, secondo cui “dove è in gioco la

libertà di religione, non spetta alla Corte europea dei diritti dell'uomo sostituire la propria valutazione della portata o gravità di una intromissione a quella delle persone o dei gruppi interessati, perché l'oggetto essenziale dell'articolo 9 della Convenzione è quello di proteggere le convinzioni più intime degli individui”94.

6.2. La manifestazione necessaria.

Un altro concetto utilizzato per determinare quali manifestazioni siano tutelabili è quello della manifestazione necessaria; tale concetto considera se una data attività è

necessaria all’adempimento degli obblighi che gravano su chi è portatore di una certa

90 CEDU, Primo Protocollo Addizionale, Art. 2 Diritto all’istruzione: “Il diritto all’istruzione non può

essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.

91 Caso Valsamis v. Grecia, ricorso n. 21787/93, 1996, par. 31 e 37 92 IBIDEM, pag. 17

93 Caso Cha’are Shalom Ve Tsedek v. Francia, ricorso n. 27417/95, 2000

94 IBIDEM, opinione dissenziente dei giudici Bratza, Fischbach, Thomassen, Tsatsa-Nikolovka,

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fede. Questo approccio è stato utilizzato in una serie di situazioni in cui il ricorrente tentava di compiere delle azioni, che altrimenti gli sarebbero state precluse, riconducendole alla manifestazione della sua religione. Un esempio è il caso X v.

Regno Unito del 1974 che riguardava un detenuto, di fede buddista, a cui era stato

rifiutato, per le difficoltà di un accurato controllo, il permesso di inviare degli scritti da pubblicare in una rivista buddista. La Commissione dichiara il ricorso manifestamente infondato poiché ritiene che partecipare alla stesura di un giornale non potesse qualificarsi come necessario all’esplicazione della fede; “the applicant has

produced statements to the effect that communication with other Buddhists is an important part of his religious practice. But he has failed to prove that it was a necessary part of this practice that he should publish articles in a religious magazine”95.

La Grand Chambre sembra assumere invece una diversa impostazione – forse superando l’approccio della rigida necessità96 e avvicinandosi al principio

dell’autoqualificazione di cui nel paragrafo precedente – nel caso Leyla Sahin v.

Turchia97; la ricorrente era una studentessa di Istanbul che si opponeva alla circolare

del rettore che vietava di indossare il velo nei locali dell’Università. La Grand

Chambre accetta la posizione della donna: se indossare il velo sia o meno una

manifestazione religiosa la Corte non lo valuta, ma accetta che lo sia perché è la ricorrente a sostenerlo; “la ricorrente ha affermato che, indossando il velo, stava obbedendo ad un precetto religioso e quindi manifestando in tal modo la sua volontà di rispettare rigorosamente i doveri imposti dalla fede islamica. Di conseguenza, la sua decisione di indossare il velo può essere considerata come motivata o ispirata da una religione o da un credo e, senza decidere se tale decisione sia in ogni caso adottata per rispettare un dovere religioso, la Corte procede presumendo che la normativa in questione […] costituisca un'interferenza con il diritto della ricorrente a

95 Caso X v. Regno Unito, ricorso n. 5442/72, 1974, pag. 2

96 HARRIS D., O’BOYLE M., WARBRICK., Law of the European Convention on Human Rights…, cit. nota

22, pag. 433

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manifestare la sua religione"98. Presumendo quindi l’esistenza di tale l’interferenza,

alla Corte spetta di valutarne la legittimità.