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Recentemente la Corte europea ha affrontato un nuovo caso relativo all’uso di un simbolo religioso nel luogo di lavoro, di nuovo pubblico, il caso Ebrahimian v.

Francia74. Questa volta il ricorso era stato presentato contro la Francia da una ex

assistente sociale di un reparto psichiatrico del centro di accoglienza e assistenza ospedaliera di Nanterre. La donna, di religione islamica, era solita indossare un “semplice copricapo75” che le copriva capelli, orecchie e collo, durante l’attività

lavorativa. Il ricorso aveva avuto origine dalla decisione del centro di non rinnovare il contratto di lavoro della donna in seguito al suo rifiuto di rimuovere il copricapo nonostante lamentele dei pazienti e pressioni da parte di colleghi e superiori. La ricorrente sosteneva che il mancato rinnovo del contratto fosse motivato dalla sua appartenenza alla religione islamica e fosse contrario al suo diritto alla libertà di

73 Si veda il caso Vogt v. Germania (Grande Camera), ricorso n. 17851/91, 1995; o più recentemente il

caso Naidin v. Romania, ricorso n. 38162/07, 2014, par. 49, in cui la Corte ha affermato “À cet égard, la

Cour rappelle que, par principe, les États ont un intérêt légitime à réguler les conditions d’emploi dans le service public. Un État démocratique est en droit d’exiger de ses fonctionnaires qu’ils soient loyaux envers les principes constitutionnels sur lesquels il s’appuie”.

74 Caso Ebrahimian v. Francia, ricorso n. 64846/11, 2015 75 IBIDEM, par. 38

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manifestare la religione come previsto dall'articolo 9 della convenzione. Le autorità statali, dal canto loro, invocavano la salvaguardia dei principi di laicità dello Stato e neutralità dei servizi pubblici: i dipendenti pubblici non avevano il diritto di manifestare le loro convinzioni religiose attraverso il servizio pubblico. L’uso di un segno per marcare un’appartenenza religiosa costituiva dunque una violazione degli obblighi di neutralità.

Secondo la Corte, non vi erano dubbi che l'uso del velo fosse manifestazione di un credo religioso sincero tutelata dall'articolo 9 della Convenzione. La decisione dello Stato, in qualità di datore di lavoro, di non rinnovare il contratto e di avviare un procedimento disciplinare nei confronti della ricorrente costituiva un’interferenza con il suo diritto alla libertà di manifestare il proprio credo come è garantito dall'articolo 9 della Convenzione. Era necessario dunque determinare se tale limitazione fosse giustificata, proporzionata e necessaria in una società democratica. La Corte utilizza il test di proporzionalità; la misura controversa era prevista dalla legge e perseguiva un obiettivo legittimo, quello di tutelare i diritti e le libertà altrui. In altre circostanze la Corte aveva già accettato che gli Stati potessero invocare i principi di laicità e neutralità per giustificare divieti ad indossare simboli religiosi da parte dei dipendenti pubblici, in funzione del loro status di rappresentanti dello Stato, che li distingueva dal comune cittadino76. Nel caso in esame, la Corte, dato

anche il contesto di particolare vulnerabilità degli utenti, accetta che l’obbligo di neutralità religiosa nel contesto lavorativo fosse volto a preservare il rispetto di tutte le credenze religiose e degli orientamenti spirituali di pazienti e personale, garantendo un’uguaglianza rigorosa e parità di trattamento a prescindere dalla religione77. Secondo la Corte la salvaguardia del principio di laicità era un obiettivo

coerente con i valori alla base della Convenzione. Quindi la Corte accetta che la restrizione fosse volta a perseguire un obiettivo legittimo. Rimaneva da verificare se

76 In particolare per gli insegnanti nelle istituzioni pubbliche si veda il caso Dahlab v. Svizzera, ricorso n.

42393/98, 2001.

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fosse o meno proporzionata e se lo Stato avesse oltrepassato il suo margine discrezionale nel decidere di non rinnovare il contratto della richiedente. Secondo la Corte, il rifiuto era direttamente determinato dall’uso del velo, considerato una manifestazione ostentata della religione incompatibile con lo spazio di neutralità richiesto in un servizio pubblico, nonostante non si fossero registrati atti di pressione, di provocazione o proselitismo. Data la particolare importanza che il principio di laicità rivestiva in Francia, lo Stato nel vietare al dipendente di manifestare i suoi sentimenti religiosi nel luogo di lavoro in nome della difesa di tale principio non aveva, secondo la Corte, oltrepassato il suo margine di apprezzamento, particolarmente ampio in considerazione dei diversi approcci assunti a livello nazionale78. In Francia, la libertà di coscienza dei dipendenti pubblici deve conciliarsi,

esclusivamente in termini di espressione, con l'obbligo di neutralità; secondo la Corte dunque non era sproporzionato che lo Stato pretendesse dal dipende dell’ospedale pubblico di non menzionare il suo credo religioso nell’esercizio delle sue funzioni e che questo fosse necessario per garantire la parità di trattamento dei malati.

La più recente giurisprudenza della Corte, Eweida per il lavoro privato e

Ebrahimian per quello pubblico, sembra quindi aver dato un ruolo centrale al

bilanciamento e al principio di proporzionalità quando si tratta di affrontare le forme di manifestazione religiosa nel contesto lavorativo. Di fatto però, dalla disamina di questi casi, pare da un lato che la valutazione di proporzionalità sia eccessivamente debole e dall’altro che il ruolo del margine di apprezzamento sia eccessivamente penetrante. Non sembra infatti che il vaglio di proporzionalità, soprattutto per quanto riguarda la necessità in una società democratica, sia condotto secondo quei principi che Tulkens ha chiaramente delineato nell’opinione dissenziente in Leyla

78 La Corte rileva che la maggioranza degli Stati del Consiglio d’Europa non disciplina l’uso di simboli

o abbigliamenti religiosi nei luoghi di lavoro; su 26 stati oggetto di analisi, solo 5 ne vietano l’uso, tra i quali la Francia. Tuttavia, poiché quello delle relazioni tra legge e religione è un ambito in cui si deve tenere conto dei contesti nazionali e dei diversi approcci Stato-Chiesa, allo Stato viene riconosciuto un ampio margine di apprezzamento.

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Sahin v. Turchia79: il giudizio quanto alla necessità e alla proporzionalità di una

limitazione alla libertà religiosa deve essere condotto in concreto valutando: “whether

the interference, which must be capable of protecting the legitimate interest that has been put in risk, was appropriate; whether the measure that has been chosen is the measure that is the least restrictive of the right or freedom concerned; whether the measure was proportionate, an inquiry which entails a balancing of the competing interests”80. Se effettivamente la

valutazione di proporzionalità sia stata cosi condotta è discutibile e talvolta pare essersi ridotta alla mera invocazione del margine di apprezzamento statale, come ad esempio nel caso McFarlane v. Regno Unito81. Spesse volte infatti la Corte di

Strasburgo sembra limitarsi ad accettare la ricostruzione individuata dallo Stato convenuto, nonché le sue motivazioni, senza verificare se tutti gli interessi, ed in particolare quelli individuali del lavoratore, siano stati realmente considerati. Attraverso l’utilizzo del margine di apprezzamento la Corte di Strasburgo preferisce rimettere queste questioni alla competenza nazionale. Si vedrà nel prossimo capitolo, dedicato proprio al margine di apprezzamento, come l’utilizzo di questa dottrina svolga un ruolo determinante nella considerazione dei ricorsi in materia religiosa. L’utilizzo del margine di apprezzamento influisce in primis sull’intensità della valutazione di proporzionalità ma da ultimo anche sulla tutela dei diritti accordata dalla Convenzione Europea. Attraverso il richiamo al margine di apprezzamento, la Corte EDU preferisce lasciare che siano gli stati, di volta in volta, a riempire di contenuto le sfumate disposizioni della Convenzione. Ma v’è chi ritiene che questo vada a detrimento dell’efficacia del sistema convenzionale82. Da un primo sguardo si

potrebbe pensare che dal ricorso al margine di apprezzamento risulti una tutela in fin dei conti debole della Convenzione europea e un atteggiamento di self-restraint a discapito della tutela della libertà religiosa; ma uno sguardo più attento rivela che

79 Caso Leyla Sahin v. Turchia, ricorso n. 44774/98, 2005

80 IBIDEM, opinione dissenziente del giudice Tulkens, pag. 42, par. 2

81 Caso Eweida e altri v. Regno Unito, ricorsi n. 48420/10, 59842/10, 51671/10, 36516/10, 2013; quarto

ricorso.

82 ZAGREBELSKY V., Pace sociale e margine di apprezzamento dei Governi nelle questioni di natura religiosa

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l’atteggiamento di self-restraint potrebbe invece essere determinato da una tutela già sufficientemente accordata a livello nazionale, dopotutto il livello cui compete in via primaria la tutela dei diritti convenzionali.

4. Equality approach: la religious accommodation e il principio di non