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La seconda argomentazione utilizzata per negare in radice l’esistenza di una ingerenza nella libertà religiosa garantita dall’articolo 9 è la c.d. free-contract doctrine. Secondo questa impostazione, “when the individuals enter the contract of employment

they contract out of their Convention rights”32. Per esempio, il lavoratore che accetta di

attenersi ad un certo codice di abbigliamento aziendale si può dire che abbia in

29 IBIDEM, par. 8

30 IBIDEM, par. 38 “[…] while it may be that this absence from work was motivated by the applicant’s

intention of celebrating a Muslim festival it is not persuaded that this was a manifestation of his beliefs in the sense protected by Article 9 of the Convention or that the penalty imposed on him for breach of contract in absenting himself without permission was an interference with those rights”.

31 IBIDEM, par. 45

32 VICKERS L., Religious Freedom, Religious Discrimination and The Workplace, Hart Publishing, Oxford,

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qualche modo rinunciato ai suoi diritti religiosi, almeno per ciò che riguarda il modo di vestire durante l’attività lavorativa. Accettando quindi il contratto di lavoro e le sue regole, il lavoratore accetterebbe di limitare i suoi diritti convenzionali. Di conseguenza, secondo questa teoria, non si verrebbe a porre alcuna questione di limitazione degli stessi e men che meno di limitazione ragionevole o proporzionata33.

Non vi sarebbe quindi alcuna interferenza con l’articolo 9 quando il soggetto lavoratore, e religioso, si impegna volontariamente a tollerare delle regole che limitano la manifestazione della sua religione. Ad esempio, uno dei primi casi affrontati dalla Commissione Europea era il caso X v. Regno Unito34. Il ricorrente era

un cittadino britannico di origine indiana e di fede musulmana che svolgeva la professione di insegnante. Dovere di ogni devoto musulmano è quello della preghiera congressionale del venerdì, che se possibile deve essere offerta all’interno di una moschea. Da quando aveva ottenuto una cattedra nelle vicinanze di una moschea, il ricorrente aveva fatto richiesta di potersi assentare dal luogo di lavoro per il tempo necessario ad adempiere ai suoi doveri religiosi. La richiesta di permesso gli era stata negata finché si era visto costretto a dimettersi dal ruolo di insegnante full time in modo da poter soddisfare i doveri di fedele. La Commissione ricorda che l’articolo 9 protegge la manifestazione dei sentimenti religiosi sia in forma individuale che collettiva ma non in modo assoluto. In particolare, un individuo, nell’esercizio della sua libertà di manifestare il credo religioso, deve prendere in considerazione la sua specifica posizione professionale e/o contrattuale35;

il ricorrente di sua libera volontà aveva firmato il contratto di lavoro accettandone gli obblighi ed era alla luce di quel contratto che ora si trovava nell’impossibilità di conciliare i doveri di fede con gli obblighi lavorativi. Per tale motivo, la Commissione conclude dichiarando l’assenza di ingerenze con la libertà protetta dall’articolo 9 primo comma.

33 IDEM, pag. 93

34 Commissione Europea, caso X v. Regno Unito, ricorso n. 8160/78, 1981 35 IBIDEM, pag. 7

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Questa argomentazione è strettamente correlata alla c.d. garanzia della “libertà di dimettersi”. Secondo la giurisprudenza della Commissione prima e della Corte successivamente, se una persona era in grado di adottare delle misure per aggirare una limitazione alla sua libertà di manifestare la religione o il credo, allora non vi era alcuna interferenza con il diritto ex articolo 9 comma primo e la limitazione non necessitava pertanto di essere giustificata ai sensi dell'articolo 9 comma secondo36.

Ad esempio, nel caso Pichon e Sajous v. Francia37 i ricorrenti erano due farmacisti che

si erano rifiutati di vendere contraccettivi per motivi religiosi e per questo erano stati condannati dalle autorità francesi. La Corte dichiara il ricorso inammissibile escludendo che la condanna avesse prodotto un’ingerenza con la libertà religiosa dei ricorrenti; essi non potevano dare la precedenza alle loro convinzioni personali nell’attività lavorativa soprattutto perché rimanevano liberi di manifestare le loro convinzioni al di fuori della sfera professionale38.

Tra le possibilità di “aggirare” la limitazione era inserita anche l’ultima garanzia di lasciare il posto di lavoro quando si fosse venuto a creare un inconciliabile conflitto tra doveri religiosi e obblighi lavorativi e cercare una diversa occupazione che rendesse invece possibile l’agognato compromesso. Questa argomentazione è stata ripetutamente utilizzata nella giurisprudenza della Commissione prima, e della Corte poi, per escludere prima facie l’esistenza di una limitazione della libertà religiosa del ricorrente. I seguenti casi affrontati dalla Commissione Europea sono prova dell’utilizzo di questa teoria e giungono a soluzioni similari.

Il caso Konttinen v. Finlandia39 riguardava un cittadino finlandese, dipendente delle

ferrovie dello Stato che aveva abbracciato la fede avventista; questa gli imponeva di non svolgere attività lavorativa il giorno del Sabbath, che inizia dal tramonto del venerdì e prosegue nella giornata del sabato. Konttinen era stato raggiunto da una

36 Caso Eweida e altri v. Regno Unito, ricorsi n. 48420/10, 59842/10, 51671/10, 36516/10, 2013, par. 83 37 Caso Pichon e Sajous v. Francia, ricorso n. 49853/99, 2001

38 IBIDEM, pag. 4

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sanzione disciplinare prima e dal licenziamento poi, poiché si era ripetutamente assentato dal lavoro il venerdì sera in coincidenza con l’inizio del Sabbath, prima che avesse terminato il suo orario. Egli lamentava una violazione della sua libertà religiosa poiché “his absence had resulted from an irreconcilable conflict between his

religious convictions and work duties and not from negligence”40 e sosteneva che, entro

ragionevoli limiti, l’articolo 9 comprendesse anche il diritto per il dipendente pubblico di rifiutarsi di compiere doveri contrari ai suoi sentimenti religiosi fintantoché non risultasse significativamente compromessa l’attività lavorativa nel complesso. Soprattutto, lamentava la sproporzionalità della sanzione dato che “the

question concerned a maximum of some five Fridays between October and March, when the sun would set at the most three and a half hours before the end of his shift. In return for a permission to finish his shift at sunset on those days he would have been prepared to work a

longer shift in the summertime, when the sun would set late”41. La Commissione dichiara

il ricorso inammissibile, richiamando innanzitutto il dovere di rispettare gli obblighi lavorativi assunti con la firma del contratto di lavoro, tra i quali le regole che governano l’orario dell’attività lavorativa; e in secondo luogo, la garanzia della libertà di dimettersi quando fosse venuto a sorgere quell’inconciliabile conflitto tra le convinzioni religiose e l’orario lavorativo. Il rifiuto di rispettare quest’ultimo, seppur motivato dalle sue convinzioni religiose, non poteva dirsi protetto dall’articolo 9 primo comma della Convenzione. Il licenziamento non era stato causato dalle convinzioni religiose del ricorrente bensì dal suo rifiuto di rispettare gli obblighi lavorativi: la libertà di abbandonare il posto di lavoro è l'ultima garanzia del diritto alla libertà di religione. Quindi in questo caso la Commissione nega in radice l’esistenza di una interferenza con il forum internum e externum del soggetto.

Nel 1997 la Commissione affronta un altro caso simile con risultati analoghi.

Stedman v. Regno Unito42 vedeva come ricorrente una cittadina britannica dipendente

40 IBIDEM, pag. 3 41 IDEM, pag. 3

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presso un’agenzia di viaggi; le era stato chiesto, insieme agli altri colleghi, di lavorare la domenica. Inizialmente disponibile, la ricorrente aveva successivamente comunicato al datore la riluttanza a prestare lavoro alla domenica in quanto “day

devoted to non commercial, family and religious activities”43. Poiché quindi si era rifiutata

di firmare il nuovo contratto che prevedeva anche la domenica come normale giorno lavorativo, era stata licenziata. La ricorrente sosteneva che il licenziamento fosse causato dall’aver manifestato la sua fede attraverso il rifiuto di prestare lavoro domenicale. Quindi dal suo punto di vista, il licenziamento costituiva una violazione della sua libertà di manifestare la religione in “worship, practice and observance, as

accorded by Article 9 of the Convention”. Il caso si differenziava dal precedente perché

la donna lavorava presso un datore di lavoro privato; lo Stato non era quindi direttamente responsabile del licenziamento, tuttavia manteneva la responsabilità di assicurare a tutti il “pacifico godimento del diritto garantito dall’articolo 9”44. Questa

responsabilità, secondo la Commissione, poteva essere messa in discussione solo se fosse stato dimostrato il fatto che “the applicant was dismissed for refusing on religious

grounds to accept a contract which meant she would have to work on Sundays” e che questo “constituted a prima facie interference with her rights guaranteed under Article 9 of the

Convention”45. Come nel caso precedente, la Commissione nega che il licenziamento

potesse dirsi una restrizione della libertà religiosa protetta dalla Convenzione poichè “the applicant was dismissed for failing to agree to work certain hours rather than her

religious belief as such and was free to resign and did in effect resign from her employment”46.

Come dimostrato da questa giurisprudenza, l’impostazione di Strasburgo sembra essere alquanto modesta nella tutela accordata: di fronte ad un conflitto tra lavoro e fede, l’approccio tradizionale è stato quello di utilizzare determinati filtri per escludere a priori una limitazione della libertà religiosa dei lavoratori.

43 IBIDEM, pag. 1 44 IBIDEM, pag. 3 45 IDEM, pag. 3 46 IDEM, pag. 3

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Questa impostazione ha creato un certo disappunto: il ricorso a tali filtri infatti impedisce qualsiasi valutazione sulla ragionevolezza del rifiuto del datore di lavoro di accomodare le richieste del dipendente, dato che esclude una qualsiasi considerazione nel merito del ricorso47. L’argomentazione secondo cui il dipendente

non sarebbe stato forzato ad accettare il posto di lavoro né a mantenerlo se inconciliabile con i doveri morali o religiosi, potrebbe rivestire una certa rilevanza; tuttavia questa argomentazione dovrebbe più opportunamente essere soppesata nella considerazione della portata del diritto alla libertà religiosa nel luogo di lavoro. Il momento preferibile per questa valutazione è considerarla nei termini di proporzionalità della restrizione piuttosto che utilizzarla come filtro iniziale di ogni richiesta. Questa considerazione è stata tracciata dalla Corte Europea nel caso Eweida

e altri v. Regno Unito.

3.3. Il passaggio al test di proporzionalità: il caso Eweida e altri v. Regno Unito.