• Non ci sono risultati.

La defunzionalizzazione dell’attività societaria e la pubblicizzazione del fine di lucro.

Le società locali negli anni ’90 tra la proliferazione del modello e l’affermazione del problema del fine.

2. La defunzionalizzazione dell’attività societaria e la pubblicizzazione del fine di lucro.

L’apertura di parte della giurisprudenza all’attività extraterritoriale della società pubblica maggioritaria ha impresso – è ovvio – un’impronta marcatamente imprenditoriale al modello di gestione dei servizi pubblici locali. Tuttavia, di ben altro spessore appare una seconda

159 S. V

INTI, La circolarità logica del diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, 39 ss. 160 I

D, ult. op. cit., 52. 161

80

conseguenza: la partecipazione degli enti locali soci poteva essere motivata alla luce di un mero intento lucrativo, quantomeno con riguardo ad alcune di queste amministrazioni. Si tenterà di dimostrare cioè che, nonostante in linea teorica la doverosa cura degli interessi della comunità di appartenenza sia un elemento funzionale irrinunciabile, nella prassi l’obiettivo dell’arricchimento dei Comuni soci – o comunque di alcuni di essi – fosse divenuto fine a se stesso. Seguendo questo filo logico, i vantaggi apportati dall’azione extramoenia potevano non identificarsi né nella resa del servizio né in suoi miglioramenti tecnici o qualitativi, bensì in semplici benefici economici.

Tale affermazione, che in prima battuta appare particolarmente audace, non sembra in realtà azzardata: è evidente, però, che necessita di approfondita spiegazione.

In primis si rileva che essa non contrasta con quanto già affermato nel precedente

capitolo162, in cui si è sottolineato che l’impiego pubblico dello strumento societario non fosse incompatibile con lo scopo di lucro, da non potersi considerare “annacquato” per il solo fatto che la società fosse partecipata da enti pubblici territoriali. Tuttavia, se questo è il punto di partenza dell’analisi, le attuali riflessioni mirano ad approfondire la questione, dimostrando che l’aspettativa del guadagno fosse divenuta in alcune circostanze il solo fattore giustificativo dell’atto contrattuale di natura associativa. Di conseguenza, l’estensione territoriale non poteva più motivarsi, come nel suo originario significato, alla luce di una gestione più efficiente del servizio. Invero, la legittimazione della società ad operare oltre i confini di riferimento avrebbe determinato una differente lettura della funzionalizzazione dell’attività privatistica degli enti locali, non più sostenuta da ragioni eminentemente gestorie, ma dal semplice scopo di arricchimento. In questa prospettiva, l’interesse pubblico sarebbe divenuto coincidente con il puro rischio imprenditoriale o, che dir si voglia, con l’aspettativa di lucro.

Laddove si accettasse questa teoria, si dovrebbe convenire sull’avvio negli anni ‘90 di un processo di defunzionalizzazione dell’autonomia contrattuale degli enti locali, perlomeno sul piano associativo. Tale processo, ovviamente, non avrebbe riguardato l’intera società che – come finora ripetuto – non poteva (così come non può tuttora, chiaramente) rinunciare alla cura materiale della comunità di appartenenza. Al contrario, avrebbe riguardato alcuni degli enti locali soci, dal momento che la fruizione del servizio non sarebbe stata assicurata ad ognuno di essi per il sol fatto di possedere delle quote. Pertanto, il connubio tra extraterritorialità ed autonomia contrattuale associativa degli enti locali avrebbe determinato una situazione assolutamente particolare: la società per la gestione dei servizi pubblici, pur

162

81

potendo svolgere attività extraterritoriale, non operava necessariamente all’interno di ogni singolo ente socio. In questo senso, lo scopo di lucro sarebbe rimasto l’unico sostegno cui appoggiare il necessario motivo di interesse pubblico dell’attività amministrativa (anche) privatistica.

È vero che attraverso l’attività di impresa gli enti pubblici possono comportarsi alla stregua di soggetti privati (senza le limitazioni legislative che sono state imposte nel corso degli anni); tuttavia, l’attuale ambito di indagine si riferisce alla gestione di servizi pubblici, e dunque ad una attività amministrativa esercitata con mezzi privatistici, ragion per cui l’assoluta centralità dello scopo di lucro stonerebbe con la natura e le ragioni della dimensione ora analizzata.

Un fattore è indiscutibile. L’importanza assunta dalla prospettiva di arricchimento, qualora dimostrata, spiegherebbe almeno in parte la proliferazione delle società locali. Per dovere di completezza, occorre ricordare che anche l’esternalizzazione del servizio dà luogo a profitto, senza che ciò abbia mai causato alcuna contestazione, in quanto la tutela dell’interesse pubblico è garantita dalla regolazione e dal controllo. Tuttavia, nell’ipotesi della dequotazione del vincolo funzionale dell’attività societaria, la questione sembra differente; infatti, la costituzione della società veniva millantata quale forma gestoria del servizio pubblico cui poteva eventualmente accedere un fine di lucro. L’impressione è che i termini della questione fossero opposti, nel senso che la stessa società assumeva, nella sostanza, i contorni di uno strumento incline ad assicurare agli enti locali in primis un’opportunità di guadagno ed in seconda battuta, eventualmente, l’occasione di una migliore gestione del servizio. La difficile percezione della contraddizione faceva sì che gli enti locali fossero incentivati nella stipulazione del contratto associativo dalle prospettive di guadagno; ed, al contempo, agevolati in quanto il generale richiamo al partenariato pubblico-privato rappresentava una rassicurazione tale da far credere che la partecipazione societaria degli enti locali fosse di per sé garanzia assoluta della soddisfazione della finalità pubblica.

Ciò detto, occorre verificare se la tesi prospettata sia accettabile. Del resto, è facile intuire la delicatezza della questione: è palese che il legislatore del ’90, ed in seguito quello del ’92, hanno diminuito la distanza tra la capacità di agire delle pubbliche amministrazioni a quella del privato, ma è al contempo evidente che l’eventuale deminutio capitis dell’elemento funzionale, nel significato appena riproposto, rappresenti un’ipotesi da valutare con la massima lucidità ed attenzione.

82

La questione è ancor più significativa se si pensa al fatto che la società locale nacque come strumento organizzativo163, o meglio come strumento di razionale ed efficiente gestione del servizio pubblico164, e non come mezzo lucrativo, salvo per poi rinnegare la sua originaria natura ed abbracciare quella di ‹‹variabile dell’affidamento a società di capitali165››. Di qui, per indagare le modalità in cui si è giunti all’esclusiva ricerca del guadagno economico, occorre considerare il processo evolutivo della principale giurisprudenza che si è occupata del tema.

A riguardo, è innanzitutto opportuno ricordare quelle pronunce secondo cui non era ammissibile l’affidamento diretto del servizio ad una società locale, appositamente creata, da parte di un Comune che avesse una partecipazione minima all’interno della stessa166

. La motivazione a suo tempo resa era piuttosto semplice: l’affidamento diretto veniva giustificato sulla base dell’effettivo controllo da parte dell’ente sulla gestione societaria, il quale veniva a mancare a fronte dell’esigua quantità di azioni possedute167

. Tuttavia, ciò non ha precluso il

163

Tale visione era abbastanza comune in giurisprudenza. Sul punto, ad esempio, Cons. St., sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192, che definisce la società per azioni ‹‹un organo indiretto dell’amministrazione, deputato alla

gestione del servizio pubblico››: su tale pronuncia si veda anche il relativo commento di M. DUGATO,

L’individuazione del socio di minoranza nelle società a partecipazione pubblica, in Giorn. dir. amm., 1998, 5,

428 ss; Cons. St., Ad. gen., 16 maggio 1990, n. 60; Cons. St., sez. II, 28 febbraio 1996, n. 366; Corte cass. Sez. Un., 29 dicembre 1990, n. 12221.

164 Cfr. E. S

COTTI, Società miste, legittimazione extraterritoriale e capacità imprenditoriale: orientamenti

giurisprudenziali e soluzioni legislative al confronto, cit., 779, scrive che nella realtà dei fatti la forma societaria,

intesa come strumento imprenditoriale, ha prevalso sulla sostanza, intesa come modello gestorio dei servizi pubblici locali.

Mutatis mutandis, vari anni dopo e con specifico riferimento alle società in house, analoga riflessione è svolta da

A. ROMANO TASSONE, La società in house e la sua complessa disciplina, in F.MASTRAGOSTINO, M.DUGATO (a cura di), Partecipazioni, beni e servizi pubblici tra dismissione e gestione, in Quaderni della spisa, 2012, 231, secondo il quale ‹‹sembra sfuggire al legislatore nazionale, perciò, l’intrinseca ratio dell’affidamento in house,

che è quella di consentire comunque all’ente pubblico l’autoproduzione del servizio, senza rivolgersi al mercato››. Se ne desume, dunque, che nel pensiero dell’A. il modello societario (pur in questo caso in house)

non è stato concepito dall’ordinamento europeo quale elemento da porre al centro di logiche concorrenziali ma, più semplicemente, di logiche organizzative.

165 Cfr. E.S

COTTI, ult. op. cit., 790. 166 In dottrina, M.D

UGATO, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, Milanofiori, Assago, Ipsoa, 2001, 72 ss.

167 Sul punto, si è pronunciato più volte il Tar Lombardia, Brescia. Tra le sentenze da esso emanate, si segnalano le seguenti: 4 aprile 2001, n. 222, con nota di M. DUGATO, L’affidamento diretto di servizi a società con

partecipazione pubblica locale minima, in Giorn. dir. amm., 2001, 11, 1127 ss; 18 maggio 2001 n. 368; 4

gennaio 2002, n. 6, in cui si ribadisce che ‹‹la partecipazione del tutto marginale di un Comune al capitale

sociale di una società mista non giustifica l'affidamento diretto del servizio››; 13 maggio 2003, n. 681, con nota

di L. MUSSELLI, Affidamento diretto di servizi a prevalente capitale pubblico locale e principi comunitari di

concorrenza, in Foro amm. Tar, 2003, 1515, 2174, in cui il giudice lombardo esegue un rinvio pregiudiziale nei

confronti della Corte di giustizia, con specifico riferimento alla compatibilità o meno, con gli artt. 43, 49 e 81 dell’allora Trattato della Comunità europea, dell’affidamento diretto del servizio ad un Comune in possesso di una minima quota partecipativa; ed ancora sempre lo stesso giudice bresciano nella pronuncia 14 gennaio 2000 n. 8, afferma esplicitamente che ‹‹mere partecipazioni dell'Ente non specificamente finalizzate all'attività della

società, si risolvono, in sostanza, in un normale investimento finanziario››; con un’identica espressione si veda

anche la pronuncia 21 agosto 1998 n. 746.

Ancora, sul tema, Tar Toscana, 15 gennaio 2001 n. 24, il quale impone esplicitamente che, ai fini dell’affidamento diretto del servizio, la società sia espressione degli enti locali soci: se ne desume che tale presupposto non possa essere rispettato a fronte di una partecipazione minima; Tar Umbria, 10 agosto 2001 n.

83

mantenimento della partecipazione societaria, la quale non era chiaramente in grado di assicurare all’ente socio la prestazione materiale, ma senza ombra di dubbio garantiva il diritto alla spartizione degli eventuali utili maturati. Già solo mediante tale prima riflessione, dunque, è evidente che la capacità del Comune di concludere un contratto associativo non potesse ricercarsi – nonostante fosse presumibilmente questa la sua intenzione al momento dell’acquisizione delle quote – nella resa del servizio. Al contrario, occorreva individuare un altro elemento che giustificasse la validità del contratto associativo stipulato, nonché il suo mantenimento nel corso del tempo. In breve, se l’ente intendeva conservare tali quote era imprescindibile motivarne il possesso sotto il profilo del fine istituzionale, ed in questo senso non si notavano altre plausibili ipotesi oltre allo scopo di arricchimento168.

Se così è, dunque, interesse pubblico e ritorno economico si intrecciavano sino a sovrapporsi del tutto. Non solo. L’ente locale iniziava ad assumere l’effettiva fisionomia dell’imprenditore, dato che la propria partecipazione nulla aveva a che vedere con la ratio dell’art. 22, co. 3, lett. e), l. n. 142/90, ossia la garanzia della resa del servizio attraverso il modulo societario169.

428, il quale chiaramente afferma ‹‹costituita una società mista da un ente locale […] sarà possibile che un altro

comune partecipante affidi ad essa servizi pubblici di cui è titolare se […]la società appaia sostanzialmente qualificabile come strumento di "gestione diretta" anche dal punto di vista del comune partecipante (se cioè quest'ultimo -in forza dell'entità della partecipazione alla luce della composizione dell'azionariato [... ] - sia in grado di contribuire ad orientare concretamente l'attività della società mista verso il conseguimento di finalità e secondo criteri propri). Diversamente, la partecipazione assume un significato meramente finanziario e non consente di affermare quel collegamento funzionale tra la società mista ed il comune partecipante che, solo, giustifica l'affidamento diretto››. Anche quest’ultimo caso conferma – così come già segnalato sopra – che la

partecipazione minima non sia rifiutata in se, ma non sia sufficiente a consentire l’affidamento in via diretta. In senso analogo, e precipuamente sul tema del controllo da parte dell’ente locale nei confronti della società costituita, si veda ancora Tar Lombardia, Brescia, 4 marzo 1997, n. 269, in cui viene ritenuta illegittima la costituzione di una società locale ai sensi dell’art. 22 co. 3, lett. b), l. n. 241/90 per la semplice ragione che il Comune di Crema possedeva, nel caso di specie, una partecipazione societaria pari al 28% del capitale sociale. Il che impediva, ovviamente, di mantenere un effettivo controllo sulla gestione societaria. Questo è stato il motivo principale per cui il Tar ha ritenuto illegittima la costituzione di società. Ora è pur vero che tra le due pronunce c’è qualche differenza – su tutte il fatto che solo nella prima si tratti di una partecipazione minoritaria da parte di altri enti locali, mentre nella seconda si discuta sulla conformità o meno della società costituita al modello delineato dalla l. n. 142/90. Tuttavia, è chiaro che entrambi gli esempi segnalati sottolineano un dato di assoluto rilievo, ossia che l’assenza di un controllo effettivo esclude la gestione diretta del servizio pubblico locale, ma non preclude (difatti non si rinviene neppure nella seconda sentenza alcun divieto esplicito in tal senso) la partecipazione in se. Ovviamente, per aspirare alla gestione del servizio, occorre la procedura ad evidenza pubblica. Ma proprio per tale ragione è evidente che la semplice acquisizione di quote, non potendo essere motivata a fronte del sicuro affidamento del servizio (variabile che rappresenta, se viene svolta la gara, una vera e propria incognita), deve ricercare la propria ragion d’essere, ossia di conformità ai fini istituzionali, in altri profili.

168

Del resto, questa appare l’unica soluzione possibile. Il Comune, cioè, non avrebbe potuto neppure motivare la propria esigua partecipazione alla società invocando l’intenzione di reperire, in questo modo, alcune prestazioni strumentali che migliorassero l’erogazione del servizio pubblico già reso mediante altra via. La pretestuosità di una simile eccezione sarebbe stata palese. Infatti, tale Comune mirava, attraverso l’acquisizione delle poche quote, ad affidare direttamente il servizio medesimo, non a beneficiare di migliorie (per l’appunto strumentali) per le attività volte a soddisfare le esigenze della propria popolazione.

169 La lontananza dallo schema così descritto dal legislatore è ribadito sempre dal giudice amministrativo bresciano che, dall’indagine svolta, dimostra di essere stato estremamente sensibile al tema. Sul punto, Tar

84

Questo risultato non desta troppo stupore per due ragioni. La prima si ricollega logicamente a quanto già scritto nel capitolo precedente, in cui si è sostenuto che la privatizzazione a livello locale ha ampliato, anziché diminuire, la capacità di agire degli enti territoriali, consentendo loro di sfruttare un ulteriore elemento con cui motivare la stipulazione del contratto associativo: il semplice fine di lucro. Il che, certamente, non era novità di poco conto, in quanto, secondo gli insegnamenti della dottrina, i contratti dell’amministrazione potevano qualificarsi solo finali o strumentali170

, al cui novero può ricondursi il contratto associativo. Questi, dunque, venivano giustificati solo a fronte dell’interesse pubblico, il cui soddisfacimento si aveva per via immediata o mediata, caratteristica che risultava comunque incompatibile con intenti speculativi. Ciò significa che i mezzi di cui l’amministrazione poteva tradizionalmente avvalersi, così da garantire la soddisfazione delle proprie finalità istituzionali, erano difficilmente conciliabili con l’aspetto speculativo dell’attività. La seconda ragione richiede un ragionamento leggermente più complesso. La costituzione di società di capitali a maggioranza pubblica prima, e quelle a minoranza pubblica poi, tollerava, per forza di cose, che vi fosse una coesistenza tra socio pubblico e socio privato: una delle conseguenze più ovvie era la difformità di intenti tra i due. Mentre il primo avrebbe dovuto in special modo garantire alla popolazione di riferimento la miglior gestione possibile del servizio, il secondo avrebbe più che altro mirato a ricavare dall’attività profitti personali. Il che è stato riconosciuto come naturale anche in dottrina171

. Pertanto, seguendo questo filo logico, è possibile ipotizzare una diversità di intenti nella partecipazione anche fra soci con la stessa natura giuridica. In particolare riconoscendo che i vari soci pubblici, partecipanti in diversa misura al capitale sociale, avevano scopi differenti, mutevoli sulla base di un’unica variabile: il dato numerico delle quote possedute.

Da quanto detto, è possibile giungere ad una prima conclusione. L’ammissione della partecipazione societaria dei Comuni scissa dall’affidamento diretto del servizio, ovvero nelle ipotesi descritte motivata dal mero scopo di arricchimento, determinava delle incrinature

Lombardia, Brescia, 21 agosto 1998, n. 746; 20 settembre 1996, n. 918; 1° ottobre 1996, n. 962; 4 marzo 1997, n. 269.

170 C. C

AMMEO, I contratti della pubblica amministrazione, Firenze, Casa editrice Cya, 1954, 119 ss, il quale identificava i contratti strumentali come il mezzo di cui l’amministrazione si avvale per poi adempiere successivamente i compiti che le sono attribuiti dalla legge.

Più recentemente, sul tema della funzionalizzazione dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione si veda M. DUGATO, Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti, Milano, Giuffrè, 1996, 28, 40 ss. in particolare, questi evidenzia la non condivisione della tesi di Cammeo, secondo cui per i soli contratti finali sarebbe ipotizzabile una vera e propria funzionalizzazione. Infatti, Dugato sottolinea che la tesi non convinca in quanto ammette, ipotesi denegata, che i contratti strumentali sarebbero esonerati dal vincolo di scopo.

171 F.G

OISIS, Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti

sviluppi dell’ordinamento nazionale ed europeo, in Dir. econ., 2013, 1, 44, non intravede nessun ostacolo a che

85

piuttosto visibili nella granitica equazione “momento funzionale-benefici per la comunità di riferimento”. Anzi, poneva seri dubbi sulla sua validità, confermando l’idea sopra anticipata: nel periodo delle privatizzazioni degli anni ’90 le società costituite dagli enti locali hanno realmente subito un processo di defunzionalizzazione dell’oggetto sociale, perlomeno in riferimento ad alcuni di essi. Tale aspetto ha come naturale confluenza l’abbattimento di quei vincoli che ostacolavano, da un punto di vista ontologico, l’assimilazione tra la capacità imprenditoriale del soggetto privato e pubblico. L’ulteriore effetto è stato, per l’appunto, la proliferazione di società locali.

Del resto, individuare una conferma di quanto appena sostenuto non è operazione ardua. Basti pensare che, a posteriori, è stato segnalato lo scarso numero di società pubbliche appositamente costituite per la gestione dei servizi pubblici locali rispetto al dato numerico di quelle che, al contrario, erano state create per scopi eminentemente imprenditoriali e commerciali172, estranee alle primarie finalità istituzionali dell’ente. Tuttavia, la crescita esponenziale di società locali non si registra solamente sul fronte dell’attività di impresa di enti pubblici. È evidente che siano fiorite le ideali condizioni per un forte radicamento (anche) delle società effettivamente costituite per sola la gestione dei servizi pubblici. Ne è prova l’ammissione alla partecipazione di più Comuni al capitale sociale: alcuni di questi, incentivati dall’aspettativa di lucro ed impossibilitati a ricevere il servizio viste le esigue quote possedute, favorivano la costituzione della società per due diversi ordini di ragioni. Innanzitutto, l’acquisizione delle stesse contribuiva alla formazione del capitale sociale necessario, altrimenti (presumibilmente) mancante173. Inoltre, la società non doveva investire

172 Del resto, già vari autori hanno sottolineato che la vera proliferazione di società locali si è avuta sul versante dell’attività puramente imprenditoriale. Si veda ad esempio T.BONETTI, Le società miste: modello generale di

partenariato nel governo locale, in Ist. fed., 2011, 2, il quale ricorda che, a seguito della delibera della Corte dei

conti 18 settembre 2008, n. 13, veniva denunciato che solamente un terzo delle società partecipate a livello locale fosse stata creata per gestire servizi pubblici locali. A riguardo, si veda anche L. GIAMPAOLINO, La

costituzione delle società a partecipazione pubblica locale per la gestione dei servizi pubblici e l’autonomia privata degli enti pubblici territoriali, in Giur. comm., I, 1995, 1014. Sposa la medesima teoria anche R.URSI,

Società ad evidenza pubblica, Napoli, Editoriale scientifica, 2012, 18-21, secondo il quale ‹‹gli enti territoriali hanno utilizzato, e talvolta abusato, dello strumento privatistico per il perseguimento, diretto o mediato di politiche pubbliche al di fuori del circuito del diritto amministrativo››.

173 Questa lettura sembra indirettamente confermata da quanto sostenuto da V. M

ARTELLI, Servizi pubblici locali

e società per azioni, Milano, Giuffrè, 1997, 94, in cui si ammette che il “prevalente capitale pubblico locale” di

cui all’art. 22, co. 3, lett. e), l. n. 142/90 possa risultare dalla somma di partecipazioni di più enti locali. È, dunque, presumibile che a tale prevalenza possano anche contribuire più Comuni con una quantità esigua di