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Le società locali negli anni ’90 tra la proliferazione del modello e l’affermazione del problema del fine.

LE REAZIONI DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE ALLA PROLIFERAZIONE DI SOCIETÀ LOCALI.

2. L’art 35, l 28 dicembre 2001, n 448 Un primo (inutile) tentativo di compressione del numero di società locali, e l’esigenza nazionale di enti locali competitivi sul profilo

2.4. Un risultato (solo apparentemente) inaspettato.

Si è tentato sin qui di dimostrare il favor accordato dall’art. 35 al capitalismo municipale, senza che rilevasse in senso contrario la soppressione dell’affidamento diretto del servizio.

Il risultato raggiunto, apparentemente inaspettato, non consigliava, perlomeno ad una prima valutazione, di rivolgere una severa nota di biasimo nei confronti del solo legislatore. È comprensibile che la ricerca di una competizione paritaria tra imprenditori di diversa natura giuridica350 poteva risultare vincente solo con il contemperamento di due opposte esigenze: privare le amministrazioni dei tradizionali privilegi e consentire loro di valorizzare i propri strumenti per poter competere con gli operatori privati che aspiravano ad entrare nel mercato dei servizi pubblici. Nel fare ciò, il legislatore ha ritenuto opportuno liberare l’attività societaria degli enti locali dalla rigidità del vincolo di funzionalizzazione, in maniera tale da garantire una più flessibile ed ampia autonomia contrattuale, simile a quella del privato. L’obiettivo, pur rivolto a risolvere certe problematiche, ne originava inesorabilmente altre, su tutte il fatto che il rafforzamento del lato imprenditoriale determinava una deriva delle finalità istituzionali. Agevolare l’ingresso del privato nel settore dei servizi pubblici locali ed individuare un punto di equilibrio tra le pretese di efficienza delle prestazioni e la

349 Possibilisti in questo senso, pur con la doverosa precisazione che i servizi fossero realmente strumentali rispetto all’attività svolta in via principale dalla società, M. CAMMELLI, A.ZIROLDI, Le società a partecipazione

pubblica nel sistema locale, Rimini, Maggioli, 1999, 328-329.

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Analoga conclusione viene raggiunta anche da C. VOLPE, Le società miste, cit., 721, in cui si afferma che ‹‹dopo la L. n, 448/2001 residua poco spazio per continuare ad immaginare le società miste come modulo

organizzativo dell’ente locale, o come società con natura giuridica “speciale”››. Questa linea di pensiero era,

del resto, confortata da ampia giurisprudenza. Si vedano, ex multis, Cons. St., sez. V, 30 aprile 2002, n. 2297; Cons. St., sez. V, 25 giugno 2002, n. 3348; Cons. St., sez. V, 30 giugno 2003, n. 3864; Cons. St., sez. V, 23 marzo 2004, n. 1543; Cons. St., sez. V, 30 agosto 2005, n. 4428, accomunate fra loro da una certezza: la gestione diretta del servizio era l’elemento qualificante il modulo organizzativo pubblicistico della società mista. Se ne desume facilmente che l’obbligo di competere con gli imprenditori privati per aggiudicarsi l’erogazione della prestazione priva tale tipologia societaria di parte dei suoi connotati pubblicistici.

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salvaguardia dell’interesse pubblico innanzi allo scopo lucrativo erano esigenze contrapposte difficilmente conciliabili. Il che sollevava il legislatore nazionale dal ruolo di unico responsabile. Note di biasimo potevano ragionevolmente muoversi anche nei confronti degli organi comunitari, la cui unica preoccupazione consisteva nel limitare i privilegi, irraggiungibili per i privati imprenditori, di cui le sole società pubbliche potevano fruire; senza suggerire alcuna soluzione definitiva.

Tuttavia, non è possibile rendere perfettamente coincidenti, e dunque assimilabili, società pubbliche e private, neppure a fronte dell’epurazione dei vantaggi che tradizionalmente avevano riguardato le prime, su tutti la crescente limitazione degli affidamenti diretti. Gli organismi comunitari – e questa sembra essere stata l’incertezza decisiva – avevano ritenuto che, la regolazione ed il contenimento delle aggiudicazioni senza gara avrebbero assicurato una maggior apertura del settore dei servizi pubblici locali a capitali privati ed, al contempo, una graduale decrescita delle società controllate dalle amministrazioni, così da equilibrare la presenza di gestori di opposta natura giuridica. La lettura appare miope. Non è sufficiente, infatti, delimitare il numero degli affidamenti in via diretta per ostacolare l’imprenditore pubblico, in quanto è necessario valutare anche le conseguenze – che si riflettono sul libero mercato – sotto il profilo dell’autonomia contrattuale delle amministrazioni. Gli organi comunitari, cioè, dimenticarono di considerare, e segnalare, quali attività le società pubbliche potessero svolgere o meno in ossequio all’interesse pubblico. Ed è ovvio che, mancando questo tipo di regolazione, il fenomeno societario non subiva decisive limitazioni a beneficio del privato. Il rifiuto degli affidamenti diretti non era sufficiente, poiché non indirizzava la generalizzata capacità negoziale delle società pubbliche verso una finalità istituzionale: queste, dunque, continuavano ad occupare inevitabilmente interi settori del mercato.

La risoluzione dell’impasse richiedeva, al costo di disegnare una capacità imprenditoriale meno estesa rispetto a quella del privato, di imporre all’ente locale uno specifico oggetto sociale, stabilendo per via legislativa quali attività societarie esso potesse svolgere. Nonostante la proliferazione di società pubbliche si fosse già verificata nel decennio precedente, i tempi per una soluzione così drastica non erano ancora maturi, considerato anche il fatto che l’ordinamento comunitario e nazionale erano ancora in una fase embrionale del dialogo. In special modo, tale soluzione avrebbe inesorabilmente investito il profilo dell’autonomia contrattuale degli enti locali, determinando un vincolo ex lege nell’individuazione delle attività compatibili con il loro interesse istituzionale. Del resto, se gli enti locali non si erano mostrati sufficientemente consapevoli dei propri limiti ed obblighi,

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un intervento pur invasivo del legislatore non era irragionevole; pertanto, pare potersi concludere che il limite dell’art. 35 fosse la totale mancanza di incidenza sul profilo in questione351.

La soluzione era certamente di difficile attuazione in quanto poco gradita all’ordinamento interno per una semplice ragione. Questo (seppur come detto non unico responsabile) aveva contribuito in maniera rilevante alla defunzionalizzazione delle partecipazioni societarie, così da sostenere l’imprenditoria pubblica a fronte della doverosa apertura del settore dei servizi pubblici locali ai privati. In altre parole, le istituzioni nazionali approfittarono magistralmente delle lamentele europee, sfruttando la mancanza di precise indicazioni da parte di queste ultime circa quali attività le società locali potessero opportunamente svolgere. L’obiettivo era chiaramente quello di non dismettere un sistema di gestione da decenni basato sulla centralità del ruolo delle amministrazioni. La conferma si trae dalle seguenti considerazioni che, pur richiamando la già citata riluttanza nazionale ad agevolare in modo effettivo la libera competizione economica nel settore dei servizi pubblici locali, testimoniano in maniera ancor più nitida rispetto agli esempi precedenti un atteggiamento mellifluo del legislatore nazionale, capace di mascherare un intervento a favore delle amministrazioni in un intervento pro-concorrenziale.

Il novellato art. 113, co. 14352, TUEL, ammetteva la possibilità di affidare in via diretta la ‹‹gestione del servizio›› a ‹‹soggetti diversi dagli enti locali››, che fossero già proprietari di reti ed impianti. Dato che il co. 13 prevedeva l’affidamento senza gara della gestione delle reti a favore delle società a prevalente capitale locale cui veniva conferita la proprietà delle stesse, l’art. 113, co. 14, per non essere riproduttivo di quanto disposto nel comma precedente, doveva intendere con la dicitura “gestione del servizio” sia la gestione dei beni strumentali sia

351 Benché una simile valutazione possa considerarsi attinente alla discrezionalità politica dell’ente, non sembra errato legittimare un intervento invasivo da parte del legislatore statale, in virtù delle disposizioni costituzionali in tema di funzioni fondamentali degli enti locali. Il riferimento è all’art. 117, co. 2, lett. p.) che demanda alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali medesimi.

Del resto, un intervento invasivo delle competenze legislative regionali era già stato a suo tempo avallato da quella dottrina che intravedeva nella riforma dei servizi pubblici a rilevanza industriale del 2001 uno strumento per favorire la concorrenza in tale settore. Per tutti, M.DUGATO, I servizi pubblici degli enti locali, cit., 222. Se ne deduce che, anche in dottrina, si assumeva la possibilità di giustificare un intervento più deciso dello Stato nelle questioni locali, evenienza tutt’altro che illegittima.

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‹‹Fermo restando quanto disposto dal comma 3, se le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali per la

gestione dei servizi di cui al comma 1 sono di proprietà di soggetti diversi dagli enti locali, questi possono essere autorizzati a gestire i servizi o loro segmenti, a condizione che siano rispettati gli standard di cui al comma 7 e siano praticate tariffe non superiori alla media regionale, salvo che le discipline di carattere settoriale o le relative Autorità dispongano diversamente. Tra le parti è in ogni caso stipulato, ai sensi del comma 11, un contratto di servizio in cui sono definite, tra l’altro, le misure di coordinamento con gli eventuali altri gestori››.

Sul tema, si vedano anche le riflessioni di M.DUGATO, I servizi pubblici locali, cit., 2599 ss, il quale individua nella gestione delle reti il vero “cuore” del servizio pubblico.

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l’erogazione della prestazione. Ne derivava che i soggetti diversi dagli enti locali proprietari di reti ed impianti potevano svolgere, in assenza della procedura ad evidenza pubblica, entrambe le attività353. Il principale problema diveniva l’identificazione di tali soggetti. Accorta dottrina rispondeva al quesito indicando, sulla base di una lucida interpretazione delle singole disposizioni di cui al novellato art. 113, quale unica alternativa possibile, le società disciplinate dal co. 13 (ossia quelle cui gli enti locali avevano conferito la proprietà di reti, impianti e beni strumentali)354. Nonostante qualche parere in senso contrario355, e qualche altro più prudente356, si ritiene che ad esse potevano essere allo stesso tempo conferite la proprietà delle reti, impianti e dotazioni, la relativa gestione, l’erogazione del servizio. Aldilà della palese limitazione della concorrenza che l’intreccio di norme inesorabilmente determinava, e che dunque giustificava ancor di più le perplessità della Commissione sulla bontà della riforma, è impossibile non notare la graduale dissoluzione del vincolo funzionale sulla partecipazione societaria degli enti locali. La situazione più delicata si sarebbe presentata qualora essi avessero ceduto le proprie quote ad enti locali terzi, che nulla avevano a che vedere con il territorio interessato dalla presenza dei beni strumentali e dall’erogazione del servizio. È vero che, come segnalato supra357, la cessione di quote nelle società di cui al co. 13 (cessionarie delle reti) a favore di altri enti locali sarebbe stata contraria alla ratio del legislatore, e perciò si prefigurava come un’ipotesi in teoria non procedibile. Tuttavia, nel caso in cui l’evenienza si fosse verificata, data la mancanza di un esplicito divieto, il paradosso era che la società “tuttofare” di cui al co. 14 sarebbe stata controllata da uno o più

353 Osserva M.D

UGATO, La disciplina dei servizi pubblici locali, cit., 220, che la previsione della norma fosse, da un lato, opportuna, dall’altra no. Nel primo caso, l’A. ritiene che fosse corretta la scelta del legislatore di prevedere l’eventualità che le reti, dotazioni ed impianti fossero di proprietà di soggetti diversi dagli enti locali; infatti, negli ani ’90 si era sovente verificata la privatizzazione delle forme di gestione di beni strumentali, conferiti a società miste. Tuttavia, le incertezze emergevano con riferimento alla scelta di attribuire in via diretta a tali soggetti l’erogazione del servizio cui i beni erano serventi. Veniva così attribuito loro un privilegio non necessario.

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A riguardo si rimanda a quanto dedotto da G.SIGISMONDI, Le società miste, cit., 42-43, secondo cui le società conferitarie della proprietà delle reti erano l’unica alternativa possibile ai ‹‹soggetti diversi dagli enti locali›› cui il co. 14 faceva riferimento. L’A. giunge a questa conclusione procedendo per esclusione. In particolare, egli ritiene che tali soggetti non potevano essere le società miste affidatarie dirette del servizio in base alla normativa previgente, perché obbligate allo scorporo delle reti ex art. 35, co. 9; non potevano essere i consorzi o le aziende speciali in quanto l’art. 35, co. 8, ne disponeva la trasformazione in società di capitali; non potevano egualmente essere i soggetti privati concessionari del servizio perché al termine del periodo transitorio essi dovevano reintegrare gli enti locali nel possesso delle reti ex art. 35, co. 7. Non rimaneva, dunque, che la predetta opzione. 355

F.LIGUORI, I servizi pubblici locali, Torino, Giappichelli, 2007, 77-78, , il quale ritiene che l’art. 113, co. 14, TUEL, si riferisca all’ipotesi, invero non infrequente, in cui i beni strumentali appartengono ad operatori privati e concessionari del servizio in virtù di affidamenti pregressi. Liguori, inoltre, afferma che l’eccezione prevista dal co. 14 possa riferirsi anche alle società a partecipazione pubblica minoritaria non rientranti nell’obbligo dello scorporo delle reti.

356 Sul tema, si veda anche la riflessione di M.D

UGATO, I servizi pubblici, cit., 2598, secondo cui, pur essendo preferibile il riferimento a soggetti sostanzialmente privati, la formulazione letterale della norma non esclude che l’eccezione di cui al co. 14 possa riferirsi anche alle società di gestione a capitale misto.

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enti locali totalmente disinteressati dall’erogazione del servizio, e sul cui territorio non insistevano assolutamente i beni strumentali, di cui risultavano sia proprietari sia gestori. Non è dunque difficile intravedere in una simile evenienza un mero scopo lucrativo in capo all’ente acquirente. Ma anche là dove – come pare preferibile – non fosse ammessa la cessione delle quote da parte degli enti conferitari emergevano egualmente problematiche simili sulla relazione tra vincolo funzionale e partecipazione. Infatti, non era vietato ad enti locali terzi di acquistare azioni nelle società proprietarie delle reti ex co. 13, affiancandosi dunque agli enti locali conferitari, i quali mantenevano le proprie quote; così facendo, i primi, ai sensi del co. 14, non solo divenivano proprietari degli impianti ma, partecipando a queste società “tuttofare”, gestivano beni strumentali e prestavano servizi al di fuori del proprio territorio, senza ricevere in cambio benefici che non fossero puramente ed esclusivamente economici. Ancora, in assenza di un’espressa previsione sul punto, sembra che tale acquisto non fosse subordinato al previo esperimento di alcuna gara, e dunque l’acquisizione di quote poteva avvenire in totale libertà.

La possibilità accordata ex lege agli enti locali di costituire società cui conferire indistintamente tutte le attività necessarie per la resa del servizio, oltre a garantire un forte sostegno all’imprenditoria pubblica, poneva un interrogativo: quale fosse il grado di consapevolezza del legislatore nel legittimare tale modello societario. L’impressione è che l’intento, facendo leva sulla generalizzata capacità imprenditoriale degli enti locali, fosse proprio quello di mantenere, in modo piuttosto furbesco ed aggirando le indicazioni comunitarie, la preminenza del ruolo delle amministrazioni, al fine di far sì che “tutto cambi perché nulla cambi”.

Ciò detto, la conclusione è lapidaria. L’art. 35, l. n. 448/2001, oltre a non garantire, probabilmente con maliziosa consapevolezza, un assetto pienamente concorrenziale come veniva invece richiesto dagli organi comunitari, delineava una partecipazione scollegata dai fini istituzionali. Sotto questo punto di vista, non vi erano state innovazioni rispetto al regime giuridico precedente, ad ulteriore conferma del fatto che le esigenze dell’aggregazione societaria erano dovute non tanto ad una proficua organizzazione del servizio, quanto al rafforzamento della figura dell’imprenditore pubblico.

Anzi, a ben vedere, una differenza era ravvisabile. L’art. 35, esaltando il profilo di imprenditorialità degli enti locali, delineava un modello in cui la società mista risultava un mero modello societario, in cui il partenariato pubblico-privato era un semplice strumento di aggregazione finanziaria (perlomeno con riferimento alla gestione del servizio). Non era possibile giungere ad una medesima conclusione nel decennio precedente, in cui il periodo di

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transizione da un momento gestorio esclusivamente pubblicistico ad uno che stava vivendo le prime esperienze privatizzatrici precludeva la perdita di qualsiasi connotato pubblicistico in capo all’ente locale imprenditore. Né è corretto individuare identica soluzione con riguardo al regime giuridico successivo (infra), in cui si sarebbe quantomeno tentato di ricondurre la società ad un modulo di gestione pubblicistica del servizio.

In definitiva, la riforma del 2001, nonostante la poca rilevanza della sua concreta applicazione per i repentini mutamenti normativi dell’epoca, ha rappresentato un punto di svolta del sistema, assimilando la capacità imprenditoriali di soggetti di opposta natura giuridica, e trasformando la società mista da un modulo pubblicistico di gestione del servizio ad uno prettamente, per l’appunto, imprenditoriale. Essa, inoltre, ha posto le basi per la successiva evoluzione legislativa del settore che pur apportando delle modifiche –il tentativo di ripristino della società quale modulo di organizzazione del servizio – ne ha egualmente mutuato rilevanti profili.