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La riforma dei servizi pubblici locali del 2003 tra nuove soluzioni e vecchi problemi.

Le società locali negli anni ’90 tra la proliferazione del modello e l’affermazione del problema del fine.

LE REAZIONI DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE ALLA PROLIFERAZIONE DI SOCIETÀ LOCALI.

3. La riforma dei servizi pubblici locali del 2003 tra nuove soluzioni e vecchi problemi.

Le critiche europee nei confronti della riforma del 2001, come anticipato, si incentravano sulla persistenza di diversi fattori. In particolare, l’ipotesi di affidamento diretto di reti, impianti ed altre dotazioni patrimoniali, quando separata dall’erogazione dei servizi, a favore di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali; la (lunga) durata del periodo transitorio; l’affidamento diretto del servizio idrico integrato a società di capitali partecipate unicamente da enti locali. Tra le ragioni addotte non è fatta menzione alcuna alle problematiche collegate all’assimilazione tra capacità imprenditoriale privatistica e pubblicistica, e dunque alla pressoché assoluta libertà per gli enti locali di stipulare contratti associativi. Dunque, le istituzioni europee non avevano avvertito (o non avevano voluto avvertire) i reali motivi di preoccupazione nell’affermazione di un mercato libero. Le perplessità manifestate erano certamente giustificabili, ma non erano le sole ad impedire la realizzazione di un effettivo assetto competitivo.

A questo punto, occorre concentrare l’analisi sulla reazione dell’ordinamento italiano all’atto di reiterazione di messa in mora della Commissione, nonché sulle conseguenze derivatene nell’ambito delle società locali.

L’art. 14, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. in l. 24 novembre 2003, n. 326358 , recepiva le indicazioni europee: infatti, circa il regime delle reti, dotazioni ed impianti, il co.

358 Per commenti alla normativa, tra i tanti, AA.VV., Atti del Convegno ‹‹La riforma dei servizi pubblici locali››

(Milano, 25-26 ottobre 2004), in www.giustamm.it; G.CAIA, Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova

disciplina dei servizi pubblici locali, in www.giustamm.it; M.DUGATO, La disciplina dei servizi pubblici locali, cit., 121 ss; F. GAVERINI, Servizi pubblici ed affidamento ‹‹in house››: dall’eccezione alla regola in recenti

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1, lett. c), in modifica dell’art. 113, co. 4, TUEL, affermava che le società deputate alla gestione di tali beni strumentali dovessero rigorosamente essere a partecipazione pubblica totalitaria, nonché integranti i requisiti del controllo analogo e della prevalenza dell’attività svolta. Si impediva così la possibilità, legittimata dal precedente regime normativo, per il socio privato di ottenere in via diretta la gestione dei beni strumentali per la realizzazione del servizio. Inoltre, con riferimento agli altri due rilievi della Commissione, occorre segnalare che il periodo transitorio359 veniva ridotto rispetto alle previsioni di cui all’art. 35, co. 2, l. n. 448/2001, mentre la previsione di cui al servizio idrico integrato veniva abrogata360.

La nuova disciplina segnava un ‹‹ritorno al passato361››, nel senso che riconosceva agli enti locali una maggiore discrezionalità nella scelta delle modalità di gestione del servizio362, cui chiaramente si accompagnava l’obbligo di motivare nella delibera le ragioni della scelta della formula gestoria. Come è noto, l’art. 14, d.l. n. 269/2003 prevedeva tra le modalità di selezione del gestore, fra loro equiparate: l’esternalizzazione del servizio a società di capitali da selezionare con evidenza pubblica, l’affidamento diretto alla società mista purché il socio privato fosse scelto con gara, e l’affidamento diretto alla società in house, con il conseguente richiamo ai requisiti dettati nella sentenza Teckal. L’interesse della disciplina si rinveniva sotto una duplice prospettiva. Da un lato, il legislatore richiamava tre modelli di

interventi legislativi, in Serv. pubbl. e app., 2004, 729 ss; C.E.GALLO, Disciplina e gestione dei servizi pubblici

economici: il quadro comunitario e nazionale nella più recente giurisprudenza, in Dir. amm., 2005, 2, 327 ss; A.

GRAZIANO, La riforma e la controriforma dei servizi pubblici locali, in Urb. e app., 2005, 12, 1369 ss; F. LIGUORI, I servizi pubblici locali, Torino, Giappichelli, 2007, 31 ss; G. MARCHI, I sevizi pubblici locali tra

potestà legislativa statale e regionale, in Giorn. dir. amm., 2005, 1, 27 ss; T. NICOLAZZI, La riforma dei servizi

pubblici locali, in Riv. amm. Rep. it, 2004, 257 ss; A.PURCARO, La riforma dei servizi pubblici locali, in Nuova

rass., 2003, 2078 ss;; C. TESSAROLO, Il nuovo ordinamento dei servizi pubblici locali, in

www.ildirittodeiservizipubblici.it; R. URSI, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza

economica tra outsourcing e in house providing, in Dir. amm., 2005, 179 ss.

359

Sul regime transitorio di cui all’art. 35, co. 2 e ss, l. n. 448/2001, V. DOMENICHELLI,I servizi pubblici locali tra diritto amministrativo e diritto privato, cit., 322 ss, il quale evidenzia come il periodo transitorio compreso

tra un minimo di tre anni ed un massimo di cinque per le concessioni affidate con procedure diverse dall’evidenza pubblica fosse un modo per consentire alle società pubbliche di rafforzarsi sul mercato.

360

Per una lettura della disciplina del servizio idrico integrato ai sensi dell’art. 35, l. n. 448/2001, si rinvia a M.P. CHITI, Le forme di gestione del servizio idrico integrato dopo la Finanziaria 2002, in Urb. e app., 2002, 379 ss. Circa, invece, la predetta abrogazione, si ricorda, per un profilo ricostruttivo, che essa è avvenuta per mezzo dell’art. 14, co. 3, d.l. n. 269/2003, il quale ha, per l’appunto, abrogato l’art. 35, co. 5, l. n. 448/2001. Quest’ultima così recitava: ‹‹[…] I soggetti competenti, individuati dalle regioni ai sensi dell’articolo 9 della

legge 5 gennaio 1994, n. 36, possono affidare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il servizio idrico integrato a società di capitali partecipate unicamente da enti locali che fanno parte dello stesso ambito territoriale ottimale, per un periodo non superiore a quello massimo determinato ai sensi delle disposizioni di cui al comma 2 del presente articolo››.

361 M.

DUGATO, ult. op. cit., 125.

362 È chiaro il riferimento all’art. 14, co. 1, lett. d), d.l. n. 269/2003, il quale, riscrivendo l’art. 113, co. 5 TUEL, ammetteva tre forme di gestione del servizio pubblico locale: la gara per la scelta della società di capitali, l’affidamento diretto a società mista a condizione che il socio privato fosse scelto con procedura ad evidenza pubblica, ma senza prevedere l’obbligo dell’attribuzione di compiti operativi, l’affidamento diretto a società in

house, che dovevano rispondere dei requisiti di derivazione comunitaria.

La lettura è confermata anche da S.VARONE, Servizi pubblici locali e concorrenza, Torino, Giappichelli, 2004, 197.

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gestione, due dei quali ad impronta marcatamente pubblicistica, nonostante la Commissione non avesse espressamente criticato il fatto che, nel previgente regime giuridico, la società di capitali, da selezionare con procedura ad evidenza pubblica, fosse l’unica forma prevista per la selezione del gestore363. Dall’altro, probabilmente per timore di incorrere in nuove procedure di infrazione, richiamava i presupposti della società in house, non solo con riferimento alle società di gestione del servizio, ma anche a quelle di gestione delle reti, così da impedire – come in effetti era stato preteso – che soci privati non vantassero privilegi ingiustificati364.

3.1. (Segue) … Con riferimento al regime giuridico delle reti, dotazioni ed impianti.

Il dato normativo, tuttavia, si presta a ben più approfondite osservazioni, considerando anche quanto già sostenuto circa la normativa del 2001.

Con riferimento alle società costituite per la gestione delle reti365, il legislatore ha previsto (ex art. 14, co. 1, lett. c, in modifica dell’art. 113, co. 4, lett. a, TUEL) una partecipazione totalitaria pubblica escludendo, come anticipato, che imprenditori privati beneficiassero dell’affidamento diretto; inoltre, ha subordinato tale affidamento alla sussistenza dei requisiti del controllo analogo e della prevalenza dell’attività svolta a favore degli enti soci366. In altre parole, le società di gestione delle reti di cui all’art. 113, co. 4, lett.

363 In dottrina, circa il fatto che l’intento dell’Unione europea non fosse quello di stigmatizzare completamente gli affidamenti diretti, si veda F. LIGUORI, I servizi pubblici locali, Torino, Giappichelli, 2007, 31 ss. Questi osserva che l’obiettivo fosse quello di razionalizzare l’impiego di tali affidamenti, contenendoli ma al contempo non delegittimandoli completamente. 364

Del resto, si ricordi come evidenziato nel primo paragrafo del presente capitolo, che le lamentele delle istituzioni europee, sin dal primo atto di messa in mora, erano motivate non tanto dalla possibilità di eseguire degli affidamenti diretti, quanto dal fatto che dei medesimi potevano beneficiare anche soggetti privati, senza precise limitazioni temporali. Anche con riguardo all’atto di reiterazione di messa in mora si presentavano analoghe problematiche. Infatti, oltre l’elevato numero di affidamenti diretti del servizio idrico integrato, le perplessità comunitarie insistevano in special modo sulla previsione di affidare la gestione delle reti ed impianti a società miste, senza espressi richiami all’obbligo della gara per la scelta del partner privato. Ciò detto, meglio si comprendono le ragioni per cui il legislatore del 2003 abbia imposto alle società proprietarie delle reti, affidatarie in via diretta della relativa gestione, di essere a capitale pubblico totalitario, mentre abbia lasciato maggiore discrezionalità agli enti locali nello scegliere il modello di gestione del servizio. L’obiettivo primario era chiaramente quello di evitare che il privato imprenditore godesse, grazie all’affidamento diretto di qualsiasi servizio, di benefici illegittimi. Da questo punto di vista, l’assetto concorrenziale poteva essere garantito solo a fronte di una gara per la selezione del socio privato, che tuttavia la riforma del 2001 non assicurava né nell’ipotesi di affidamento diretto a società pubbliche maggioritarie cui veniva affidata la gestione delle reti (art. 113, co. 4, lett. a), né nell’ipotesi in cui tale affidamento avveniva per le società appositamente istituite (art. 113, co. 13). Infatti, in entrambi i casi, la norma non prevedeva alcuna procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato.

365 Per l’approfondimento della tematica, è fondamentale il richiamo dell’opera di M. R

ENNA, La regolazione

amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, Giuffrè, 2004, 142 ss.

366 L’art. 14, d.l. n. 269/2003 recita: ‹‹1. All'articolo 113 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti

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a, TUEL, potevano essere costituite a condizione che fossero in house. Aldilà della specifica preclusione per il soggetto privato, in ossequio alle pretese comunitarie, era stato già a suo tempo rilevato che veniva soppresso dal dettato per le società di gestione delle reti l’aggettivo “locale”367

. Il legislatore evitava così indebiti privilegi concorrenziali tra imprenditori privati, ma determinava due ulteriori problematiche degne di evidenza. Circa la prima, ed in ciò è percepibile il leitmotiv che aveva animato la riforma del 2001, le amministrazioni mantenevano delle porzioni di mercato non raggiungibili per soggetti che non avessero natura pubblica, il che contribuiva a rafforzarne l’imprenditorialità, o comunque non scoraggiava investimenti pubblici. Con riguardo alla seconda, il capitale sociale poteva non solo essere partecipato (questione anche ammessa in precedenza) da enti locali sul cui territorio le reti non insistevano minimamente, ma anche da soggetti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico non configurabili come enti territoriali. Era infatti necessario che il capitale fosse totalmente pubblico, non totalmente locale.

Di qui si originavano alcune curiose contraddizioni. Il requisito della prevalenza368 dell’attività a favore degli enti soci, essenziale per l’affidamento della gestione delle reti in via diretta, poteva teoricamente essere privo di significato nella situazione concreta. Si pensi al caso in cui la società fosse partecipata per una quota rilevante da enti pubblici non territoriali: non vi era ragione nel pretendere che nei loro confronti fosse svolta la parte più importante dell’attività, per il semplice motivo che gli stessi, non essendo proprietari delle reti, non ne avrebbero tratto benefici. In altre parole, la prevalenza dell’attività con gli enti di riferimento doveva parametrarsi ai soli soci qualificabili come enti pubblici territoriali, e doveva dunque calcolarsi su una frazione del capitale sociale. Che dire nel momento in cui la società di gestione delle reti, diretta affidataria, fosse costituita solo in minima parte da enti locali? Il requisito della prevalenza si sarebbe dovuto valutare solo su una esigua percentuale del capitale sociale, in quanto non avrebbe avuto senso eseguire il calcolo – lo si ripete – con riguardo ad altri soci pubblici che non potevano fruire dell’attività societaria, ossia la manutenzione degli impianti. Certamente, il riferire la prevalenza dell’attività ad una sola

legge 28 dicembre 2001, n. 448, sono apportate le seguenti modifiche: […] al comma 4, lettera a), le parole:

“con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati,” sono sostituite dalle seguenti: “con la

partecipazione totalitaria di capitale pubblico” e, in fine, sono aggiunte, le seguenti parole: “a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano”››.

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M.DUGATO, ult. op. cit., 124. 368 I

D, ult. op. cit., 126, inoltre, riservava quale critica neppur troppo velata nei confronti di tale requisito, dovuta alla difficoltà di conciliare la nozione di servizio pubblico locale, basata sulla resa del servizio a favore della collettività, con il requisito del doveroso svolgimento della parte più importante dell’attività nei confronti dell’ente pubblico.

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frazione del capitale sociale stonava con la logica dei requisiti del modello in house, anche perché questa ipotetica situazione poteva causare qualche inconveniente. Su tutti, il fatto che se gli enti locali beneficiari della prestazione vantavano una frazione esigua del capitale sociale, la società svolgeva un’attività precipuamente economica di cui beneficiavano i soci pubblici i cui obiettivi non erano coincidenti con quelli dei Comuni azionisti.

Si presentava nuovamente una difformità di scopi nella partecipazione. Vi erano molte difficoltà, infatti, nell’individuare un effettivo interesse pubblico nelle quote acquisite dalle amministrazioni non territoriali. Si possono avanzare due ipotesi: velleità lucrative o un contributo economico fondamentale cosicché i Comuni avessero la liquidità necessaria per costituire le società di gestione delle reti, o rilevarne eventuali azioni dai soci privati i quali, stando al testo di legge, dovevano estromettersi. In entrambi i casi, una parte non quantificabile – in teoria anche l’interezza – del capitale sociale poteva appartenere a soggetti cui non corrispondeva una vera e propria finalità istituzionale. La ricezione di risorse pubbliche “non locali”, volte a garantire la partecipazione pubblica totalitaria così come preteso dal nuovo regime giuridico, non postulava di per sé il soddisfacimento di un interesse pubblico. In questo senso, l’obiettivo non era la tutela del vincolo di funzionalizzazione, bensì la tutela della concorrenza. Infatti, l’estromissione del privato non era finalizzata alla stabilizzazione del vincolo funzionale, ma ad evitare – e ciò è dato per presupposto, considerate le pretese europee – disparità di trattamento tra operatori economici. Ciò significa che le partecipazioni azionarie erano prive dell’elemento funzionale in riferimento sia ad enti locali terzi acquirenti di quote in società di gestione delle reti che non insistevano sul proprio territorio (e da questo punto di vista la situazione era analoga a quella delineata dall’art. 35, l. n. 448/2001) sia ad enti pubblici non territoriali, le cui finalità istituzionali non coincidevano con la manutenzione dei beni strumentali al servizio. Ancora una volta, l’acquisizione delle quote si spiegava a fronte di un investimento, e cioè della prospettiva di lucro.

La conclusione non desta eccessivo stupore, in quanto conferma quanto già dedotto in precedenza. Ovvero che la società pubblica veniva ormai di regola considerata alla luce delle problematiche concorrenziali, senza un focus preciso sul profilo della funzionalizzazione alle finalità istituzionali. Poco importa se le determinazioni legislative fossero rivolte, come era accaduto con la riforma del 2001, ad assimilare la capacità imprenditoriale pubblicistica a quella privatistica, o ad eliminare indebiti privilegi per i soci privati come nella situazione ora considerata. Il minimo comun denominatore si rinveniva nel disinteresse e l’incuria del collegamento tra partecipazioni possedute ed interesse pubblico, in quanto il doveroso adempimento di oneri concorrenziali offuscava, o più probabilmente piegava, il vincolo nel

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fine ad esigenze di carattere economico. In assenza di una consapevole guida, le società locali di gestione delle reti si presentavano non come uno mezzo di organizzazione del servizio, bensì un vero e proprio strumento imprenditoriale (senza rilevanti differenze rispetto a quanto si dirà infra al § 3.1.2., seppur con qualche distinguo, circa l’erogazione del servizio finale), in modo del tutto analogo a quanto sopra segnalato con riguardo alla finanziaria 2002. Il che non sorprende, in quanto lo stesso art. 113 TUEL, così come novellato dall’art. 14, d.l. n. 269/2003, premetteva che ‹‹le disposizioni del presente articolo […] concernono la tutela

della concorrenza›369››. La sensibilità nei confronti di questa tematica, tuttavia, escludeva

qualsiasi attenzione nei confronti dell’elemento funzionale e, paradossalmente, non incentivava la fuoriuscita delle amministrazioni dal mercato, in quanto non ne limitava, ma anzi ne aumentava, la capacità imprenditoriale.

Considerazioni analoghe, inoltre, si muovono nei confronti delle società cui poteva essere conferita la proprietà delle reti da parte degli enti locali. Essi erano legittimati, ai sensi dell’art. 113, co. 13, TUEL, il cui primo periodo veniva riscritto dall’art. 14, co. 1, lett. g), d.l. n. 269/2003, a conferire la proprietà delle reti a società a capitale interamente pubblico. Il socio privato era estromesso dal rapporto, in maniera analoga a quanto accadeva con riferimento alle società di gestione delle reti, impianti ed altre dotazioni. La precedente versione del co. 13, definita dall’art. 35, l. n. 448/2001, dettava condizioni meno rigide per la costituzione di questo modello societario, in quanto imponeva che gli enti locali vantassero la maggioranza delle quote. Ancora una volta, era evidente l’intenzione di non attuare discriminazioni tra i vari imprenditori economici. Infatti, la preoccupazione di impedire ai privati di partecipare alle società di gestione delle reti, dirette affidatarie del servizio, sussisteva a maggior ragione con riferimento alle società proprietarie dei beni strumentali370.

Il generico richiamo del novellato art. 113, co. 13, TUEL, al capitale pubblico totalitario371 riproponeva gli stessi problemi considerati per le società pubbliche (non

369 Per un commento sull’importanza dell’impronta concorrenziale dei servizi pubblici locali all’alba del terzo millennio, si veda A.ZITO, I servizi pubblici locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Dir. amm., 2003, 397 ss.

370 Del resto, con riguardo al tema dell’affidamento diretto, sembrava questa la preoccupazione principale delle istituzioni comunitarie. Le lamentele erano dovute non tanto al fatto che il servizio fosse appannaggio di società pubbliche locali (il che bilanciava l’assenza della procedura ad evidenza pubblica), bensì alla conseguenza che i soci privati beneficiassero dell’affidamento diretto, aggirando così gli obblighi della gara. Si vedano a riguardo le riflessioni di cui alle note 8, 9, 10.

371 A riguardo, occorre segnalare che in dottrina fosse stata accolta con soddisfazione la previsione di cui al nuovo art. 113, co. 13, TUEL, con specifico riguardo all’imposizione di una partecipazione pubblica totalitaria. Infatti, la previgente disciplina di cui all’art. 35, l. n. 448/2001, che legittimava una partecipazione anche solo maggioritaria degli enti locali nelle società di cui al co. 13, veniva ritenuta piuttosto ingenua, poiché non in grado di assicurare un effettivo controllo pubblico sulla società. In questi termini, M. DUGATO, Proprietà e

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proprietarie) di gestione delle reti di cui al co. 4 lett. a). La norma, anche in questo caso, era stata presumibilmente pensata per consentire un più facile reperimento di risorse pubbliche, aggirando così il problema di verosimili indisponibilità economiche di Comuni e Province372, che altrimenti avrebbero manifestato forti imbarazzi nel rilevare le quote dei privati senza aiuti esterni373. Tuttavia, viste le forti analogie, si ripresentava inesorabilmente la contraddizione di cui sopra, ovvero che il capitale pubblico non apparteneva necessariamente ad enti locali374. Il che ammetteva una quantità non meglio specificata di partecipazioni societarie – ancora una volta – scisse dal vincolo funzionale. Né può condividersi l’idea che l’interesse pubblico all’acquisizione delle quote da parte di enti pubblici non territoriali fosse dato dalla necessità di reperire le risorse pubbliche per costituire il capitale sociale. Infatti, non sembra corretto ridurre l’elemento funzionale del contratto associativo all’esigenza di facilitare la costituzione della società, altrimenti mancante degli assets monetari minimi.

In entrambe le ipotesi (e cioè con riferimento sia alla società a capitale pubblico totalitario per la gestione delle reti ex co. 4, lett. a, sia a quella a capitale pubblico totalitario per la proprietà delle stesse ex co. 13), la finalità era la tutela della concorrenza, da attuarsi impedendo all’imprenditore privato di godere di benefici illegittimi375

. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che la volontà di stabilizzare l’assetto concorrenziale del mercato facesse perdere di vista il collegamento tra le società pubbliche e l’elemento funzionale.