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La dipendenza del vincolo funzionale dall’oggetto dell’attività societaria.

Le società locali negli anni ’90 tra la proliferazione del modello e l’affermazione del problema del fine.

LE REAZIONI DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE ALLA PROLIFERAZIONE DI SOCIETÀ LOCALI.

2. L’art 35, l 28 dicembre 2001, n 448 Un primo (inutile) tentativo di compressione del numero di società locali, e l’esigenza nazionale di enti locali competitivi sul profilo

2.1. La dipendenza del vincolo funzionale dall’oggetto dell’attività societaria.

Qualche perplessità emergeva anche in merito alla reale tutela dell’assetto concorrenziale del mercato nell’ambito dei servizi a rilevanza industriale da parte della riforma del 2001; le incertezze riguardavano in special modo la disciplina normativa relativa alla loro erogazione.

Aldilà delle problematiche – sopra segnalate – sulla legittima partecipazione in società di enti locali non fruitori della prestazione, un'altra questione destava particolare attenzione. Il richiamo generico alle società di capitali di cui all’art. 113, co. 5, non impediva l’eventualità che l’ente locale (o gli enti locali) interessati al servizio, laddove avessero costituito una società, fossero contemporaneamente sia regolatori323 della gara sia aspiranti gestori dello

321 In questo senso, divengono destituite di fondamento le preoccupazioni di F. G

OISIS, I limiti all’attività extramoenia delle società miste locali. Qualche riflessione critica anche alla luce del diritto comunitario, in Dir.

proc. amm., 2001, 560 ss. L’A. sottolinea (specialmente pp. 562-568) la difformità di vedute di dottrina e

giurisprudenza circa il collegamento tra vincolo funzionale ed attività extraterritoriale; in particolar modo, le incertezze insistono sul fatto che la prima abbia sottovalutato i limiti definiti dalla seconda all’attività imprenditoriale societaria. Sembra che la preoccupazione così esternata non sia più fondata a seguito del predetto avallo ex lege all’attività extramoenia delle società locali, legittimate ad agire al pari dei privati imprenditori al di fuori dei propri confini, a condizione di non aver goduto dell’affidamento di servizi in via diretta.

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D, ult. op. cit., 569, riteneva già, prima della formulazione della riforma del 2001, che non fosse legittimo impedire alle società locali di agire in via extraterritoriale, stante l’assenza di un’apposita previsione normativa sul punto. Se ne deduce che, a seguito dell’introduzione dell’art. 35, il quale come detto costituiva un’autorizzazione ex lege all’attività extramoenia, l’ordinamento non lasciava più spazio ad incertezze: si concretizzavano i presupposti per il crescente utilizzo del modello societario in questione.

In termini analoghi, M.DUGATO, Oggetto e regime delle società di trasformazione urbana, in Dir. amm., 1999, 3-4, 581.

323 Invero non sembra potersi dubitare del ruolo regolatore che gli enti locali hanno assunto a seguito dell’imposizione della gara quale unico strumento per la scelta del gestore dei servizi pubblici locali. In questo senso, C. VOLPE, Le società miste, cit., 721, secondo cui nei settori concorrenziali alla ritirata dell’ente locale dal libero mercato corrisponde l’affermazione del suo ruolo di regolatore del servizio.

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stesso; il che certamente causava un serio problema di commistione di ruoli. Il regime giuridico previgente, pur determinando una situazione analoga, poneva minori problematiche sul profilo dell’aperura del mercato: l’affidamento diretto del servizio a società a capitale pubblico maggioritario o minoritario frustrava ab initio le aspirazioni di imprenditori privati a gestire in via autonoma l’attività, dato che il partenariato pubblico-privato era l’unica ipotesi gestoria configurabile. Pertanto, questi non potevano chiaramente lamentarsi del contemporaneo ruolo di regolatore324 e gestore dell’ente locale socio. Al contrario, nella fattispecie delineata dall’art. 113, co. 5, TUEL, novellato dall’art. 35, l. n. 448/01, il privato vantava tali aspirazioni, vanificate a fronte della partecipazione dell’ente interessato al servizio nella compagine societaria tra quelle che competevano per l’aggiudicazione325

. Tuttavia, le criticità della riforma insistono principalmente su un altro fattore: le diverse conseguenze che emergevano a seconda della tipologia societaria cui l’ente locale sceglieva di partecipare.

L’art. 35, l. n. 448/2001, aveva come tratto distintivo il principio di separazione tra proprietà delle reti, impianti e dotazioni326, e l’erogazione del servizio. La prima spettava in via esclusiva agli enti locali, i quali tuttalpiù potevano cederne la proprietà a società a capitale pubblico maggioritario di cui detenevano la quota di maggioranza (art. 113, co. 13, TUEL, così come modificato dall’art. 35, co. 1). In quest’ultima ipotesi, la partecipazione degli enti era giustificata in virtù di un vincolo funzionale evidente, scevro di connotati lucrativi, ovvero la manutenzione e la cura delle reti327 stesse che, presumibilmente, correvano (visto che i medesimi enti ne erano proprietari prima di cederle alla società costituita ad hoc) lungo il

324 È pur vero che già negli anni della riforma del 2001 in molti casi la regolazione del servizio pubblico era affidata alle autorità indipendenti di settore. Tuttavia, come sottolinea L.R. PERFETTI, La riforma dei servizi

pubblici locali a rilevanza industriale tra liberalizzazione e regolazione, cit., 27 ss, non era desueto individuare

una serie di settori in cui non erano presenti tali autorità; ragion per cui il ruolo regolatore dell’ente locale era ben lontano dall’essere del tutto soppresso.

325 Una conferma in questo senso giunge anche dalla giurisprudenza. Infatti, Cons. St., sez. V, 27 settembre 2004, n. 6325, ammetteva espressamente, nell’ambito della concorrenza per il mercato, che le società miste potessero essere partecipate anche dagli enti locali che fossero i medesimi organismi aggiudicatori. Ora, si potrebbe controbattere che già all’epoca in cui il Consiglio di Stato si pronunciò sulla questione (2004), la riforma del 2001 era già stata abrogata da più di un anno. Nonostante la correttezza dell’ipotetica eccezione, l’intento è quello di evidenziare che l’humus che si andava formando, favorevole ad una apertura ai privati nell’affidamento del servizio, comportava – a prescindere dalla normativa effettivamente in vigore – questo tipo di problematiche.

326 Sulla nozione di reti, intese quali infrastrutture necessarie alla prestazione dei servizi, N.R

ANGONE, I servizi

pubblici, Bologna, Il Mulino, 1999, 10-11; G. NICOLETTI,La proprietà di reti ed impianti per l’erogazione dei

servizi a rilevanza industriale, in Azienditalia, 2002, 274.

327 La lettura trova conforto in quanto sostenuto da L.R. P

ERFETTI, La riforma dei servizi pubblici locali a

rilevanza industriale tra liberalizzazione e regolazione, cit., 37, il quale, pur considerando la questione in termini

di “vantaggio” per l’ente locale, e non di funzionalizzazione, giunge comunque ad identificare nella manutenzione delle reti un beneficio per l’ente locale proprietario.

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proprio territorio328; e che, altrettanto presumibilmente, fornivano un servizio agli enti medesimi. Poteva ammettersi, vista l’assenza di un esplicito divieto a riguardo, la cessione in un secondo momento delle quote di maggioranza a favore di altri Comuni, diversi da quelli che avevano conferito la proprietà delle reti, in quanto la lettera della legge richiedeva genericamente che il capitale appartenesse prevalentemente agli enti locali. Ed è evidente che così facendo si autorizzava un’acquisizione, e perciò una partecipazione, di enti locali estranei al territorio in cui erano situati reti, impianti ed altre dotazioni. L’eventualità, ancora una volta, avrebbe causato le solite problematiche in termini di collegamento tra possesso di quote societarie e vincolo funzionale, e la conferma dell’opportunità di ricercarne i motivi nella pura finalità speculativa. Ma una simile ipotesi, che pur teoricamente non incontrava un’opposizione decisiva nel testo della legge, appariva contraria alla ratio delle scelte compiute dal legislatore: questa infatti richiedeva che gli enti locali conferitari della proprietà dei beni strumentali esercitassero sulla gestione degli stessi un controllo diretto pur attraverso lo schermo societario329. Pertanto, salvo quest’ultima doverosa precisazione, le società locali create ai sensi dell’art. 113, co. 13, TUEL, erano disciplinate in maniera tale da definire un più stretto legame tra la partecipazione dell’ente cedente ed il principio di funzionalizzazione. Certo, la lettera della legge non vietava ad altri enti, il cui territorio non insisteva sul passaggio delle reti, di acquisire delle quote; tuttavia, tali società erano costituite almeno per la maggioranza da enti ex proprietari che assicuravano alla comunità di riferimento un beneficio di carattere non lucrativo, ma assolutamente significativo in quanto corrispondente a finalità istituzionali.

Ne deriva che il vincolo funzionale della partecipazione societaria variava a seconda dell’oggetto sociale. Nell’ipotesi di società costituite per l’erogazione del servizio, vi era una maggiore probabilità che l’ente locale agisse per mere finalità lucrative, considerato anche quanto scritto con riguardo all’attività extraterritoriale; invece, nelle società cessionarie delle reti (cui di regola era devoluta anche la gestione delle stesse, sempre ai sensi del co. 13), l’impostazione legislativa imponeva che la maggioranza assoluta delle quote fosse in possesso di uno o più enti locali, i quali vantavano un interesse pubblico alla partecipazione completamente scisso da finalità lucrative. Infatti, la previsione del modello societario cui

328 Perlomeno è questo il nostro pensiero anche stando alla definizione di reti resa da M.D

UGATO, Proprietà e

gestione delle reti, cit.,525, il quale evidenzia il tratto distintivo delle reti nella distribuzione capillare sul

territorio, il che conferma la loro insistenza su plurimi contesti comunali. A riguardo, anche ID, I servizi pubblici

locali, cit., 2593. In termini simili, G.E.BERLINGERIO, Studi sul pubblico servizio, Milano, Giuffrè, 2003, 228, la quale giustappunto riconosce che ‹‹ [le] reti possono essere definite in relazione a dati empirici, […] come

attrezzature diffuse e tra loro connesse su cui corre il prodotto dell’attività››. A.GUALDANI, Servizi a rilevanza

industriale e servizi privi di rilevanza industriale, in La riforma dei servizi pubblici locali, cit., 19.

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conferire la proprietà delle reti, pur a fronte del pagamento di un canone da parte dei gestori del servizio (o da parte dei gestori della rete nel caso in cui le due gestioni fossero separate), non sembrava tanto dovuta ad un mero scopo di arricchimento, quanto alla volontà di garantire una più efficiente manutenzione dei beni.

La tesi trova conferma anche se osservata sotto un’altra prospettiva. Parafrasando quanto sostenuto circa le società cessionarie delle reti di cui al co. 13, si è presunta la sussistenza del principio di funzionalizzazione, perlomeno con riferimento alla maggioranza del capitale sociale, in capo agli enti locali soci cedenti la proprietà delle reti. Tuttavia, non era proponibile un’analoga valutazione né per le società di erogazione del servizio di cui al co. 5 (laddove queste fossero miste o pubbliche) né per le società di gestione delle reti di cui al co. 4, lett. a (a maggioranza pubblica locale, e dunque necessariamente partecipate da Comuni). In entrambe le ipotesi, la maggiore atipicità cui i modelli societari si prestavano consentiva una partecipazione più eterogenea. La potenziale ammissione di enti con interessi assolutamente slegati dalla garanzia del servizio intesa nel suo complesso negava l’obbligo – presupposto, invece, per le società di cui al co. 13 – che il capitale maggioritario fosse in mano agli enti locali fruitori di un beneficio istituzionale. In altre parole, non si poteva presumere la sussistenza del vincolo funzionale sulla partecipazione. Ancora una volta, dunque, tale vincolo mutava in dipendenza dall’oggetto sociale.

Lo scenario apriva ad un’ulteriore conseguenza, ancor più significativa.

Gli enti locali potevano scegliere, e ciò era frutto di una loro autonoma determinazione, in relazione alla quale godevano di amplissima discrezionalità, se costituire una società cui conferire la proprietà delle reti. Nel qual caso – come si è detto – il collegamento tra partecipazione ed elemento funzionale era soddisfatto quantomeno per la maggioranza assoluta delle quote, appartenenti agli enti soci ex proprietari. Il grande privilegio delle amministrazioni, stando al dato normativo, consisteva nella facoltà di determinare, a seconda della scelta della tipologia societaria, l’an della conformità al vincolo funzionale, ovvero all’interesse pubblico, nella partecipazione. Nelle società proprietarie delle reti di cui al co. 13, l’evento si verificava quantomeno per la maggioranza assoluta delle quote; non poteva dirsi altrettanto, invece, nella partecipazione in una società per l’erogazione del servizio né per quelle di gestione dei beni strumentali (non proprietarie) di cui al co. 4, lett. a). In entrambi i casi, l’erogazione del servizio poteva essere effettuata, a seguito di procedura ad evidenza pubblica nella prima ipotesi e di affidamento diretto nella seconda, da una società composta totalmente da enti locali, nessuno dei quali, tuttavia, beneficiario del servizio medesimo.

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Perciò, la discrezionalità garantita alle amministrazioni dall’art. 35 risultava così ampia da assicurare non solo la gestione pubblica delle reti, impianti ed altre dotazioni; esse potevano anche scegliere se aderire ad un modello societario in cui partecipazione e cura degli interessi della collettività fosse assicurata (quello di cui al co. 13, per l’appunto relativo alla gestione dei beni strumentali) o meno (quello di cui al co. 5, per l’erogazione del servizio, e co. 4, lett. a, per la gestione dei beni strumentali da parte di società non proprietarie). Veniva, dunque, demandata loro la seguente scelta: possedere partecipazioni azionarie in ossequio al vincolo funzionale e stipulare contratti associativi in cui residuavano ancora importanti elementi pubblicistici, ovvero stipulare contratti associativi indipendentemente dalla cura dei propri fini istituzionali.

È evidente l’ampia facoltà di manovra di cui gli enti locali godevano. Il potere negoziale accordato, consentendo alle amministrazioni un’autonoma determinazione in questo senso, assumeva crescentemente connotati di fattura privatistica.