“Devi sapere, Sancio, che il famoso Amadigi di Gaula fu uno dei più perfetti
cavalieri erranti. Ma che dico, uno dei più perfetti? Bisogna dire il solo, il primo, l’unico, il maestro e il signore di tutti quelli che vi furono su questa terra…Dico…che, quando un pittore vuol diventare famoso in sua arte, cerca di imitare gli originali dei più eccellenti maestri che conosce; e la stessa regola vale per la maggior parte dei mestieri o funzioni importanti che servono al decoro delle repubbliche; e così deve fare e fa colui che vuole acquistare fama di uomo prudente e paziente, imitando Ulisse, nella cui persona e nelle cui peripezie Omero ci offre un ritratto vivente di prudenza e di pazienza, così come Virgilio nella persona di Enea ci ha mostrato il valore di un figlio pio e la sagacia di un capo prode e avveduto, ritraendoli e rivelandoli non quali essi erano, ma quali dovevano essere per servire da esemplari di virtù ai secoli a venire. Allo stesso modo, Amadigi fu il nord, la stella, il sole dei prodi e amorosi cavalieri, e noi dobbiamo imitarlo, noi altri che combattiamo all’insegna dell’amore e della cavalleria. Così dunque penso, Sancio, amico mio, che il cavaliere errante che lo avrà saputo meglio imitare si avvicinerà maggiormente alla perfezione della cavalleria.” 51
Secondo la teoria del desiderio triangolare esposta dall’importante studioso, René Girard52, don Quijote, sarebbe la vittima esemplare del desiderio triangolare. Infatti, egli avrebbe rinunciato, in favore di Amadigi, ad una fondamentale prerogativa dell’individuo : la focoltà di scegliere. Il cavaliere errante non sceglie gli oggetti del suo desiderio, ma è Amadigi che deve scegliere per lui. In questo modo, il discepolo si precipita sugli oggetti che il modello della cavalleria per antonomasia gli indica. Questo modello, ovvero Amadigi nel nostro caso, è chiamato da Girard mediatore del desiderio. Per cui, il mediatore mette in relazione soggetto, don Quijote, e oggetto del desiderio, l’esistenza cavalleresca. Orbene, la metafora spaziale che esprime questa triplice relazione è evidentemente, il triangolo. Da qui, il nome di questa teoria.
51 René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano, 1981, p. 7. 52
73 Dopo don Quijote, chi è maggiormente colpito dal desiderio triangolare è Sancho Panza, il suo scudiero. Infatti, da quando egli intraprende l’avventura a fianco del suo padrone, sogna un’ isola di cui essere governatore e desidera un titolo di duchessa per la figlia. Questi desideri, non sono nati spontaneamente in Sancho, ma sono stati suggeriti da don Quijote. Anche questi desideri formano, dunque, un triangolo i cui vertici sono l’isola favolosa, don Quijote e Sancho. In questo caso, il padrone è mediatore del servo e nel momento in cui si fa sentire l’influenza del modello, il senso del reale svanisce ed il giudizio è impedito.
Poiché questa influenza del mediatore è più profonda e costante in don Quijote che in Sancho, i lettori romantici non hanno visto altro che l’opposizione tra don Quijote, l’idealista, e Sancho, il realista, opposizione sì reale, ma secondaria, che non deve far dimenticare le analogie fra i due personaggi. Il prestigio del mediatore si comunica all’oggetto desiderato e gli conferisce un valore illusorio. Infatti, il desiderio triangolare è quello che trasfigura l’oggetto ed il romanziere è l’unico a descrivere la vera genesi dell’illusione.
La critica romantica, secondo Girard, non ha voluto svelare i meccanismi dell’imitazione del desiderio altrui. Tale critica, infatti, esalta don Quijote che scambia una bacinella da barbiere per l’elmo di Mambrino, senza aggiungere che non vi sarebbe illusione se don Quijote non imitasse Amadigi. Il desiderio proietta attorno all’eroe un universo di sogno ed egli sfugge alle sue chimere soltanto al momento dell’agonia. Solo i romanzieri denunciano la natura imitativa del desiderio, la quale è difficile da percepire oggigiorno, poiché l’imitazione più fervida è anche la più vigorosamente negata. I personaggi romantici non vogliono più essere discepoli di nessuno. Sono convinti di essere originali. Dovunque nel XIX secolo, la spontaneità diventa dogma e sostituisce l’imitazione, si dissimula la presenza del mediatore, senza accorgersi che il desiderio spontaneo è una menzogna costruita dalla visione del mondo romantica. L’uomo moderno è attaccato all’illusione di autonomia, stessa illusione che il romanzo geniale denuncia. Infatti, secondo lo studioso, a differenza degli scrittori romantici, Cervantes svela la realtà del desiderio nella
74 sua grande opera romanzesca, anche se il lettore non se ne accorge. Il genio del romanziere Cervantes, abbraccia le forme estreme del desiderio secondo l’altro. Girard sostiene che, sebbene la critica romantica abbia voluto nasconderlo, nei romanzi di Flaubert, Stendhal, Proust e Dostoevskij, per fare qualche esempio, vi è il desiderio triangolare che muove l’azione dei personaggi. Il desiderio non è autonomo e spontaneo, come i romantici hanno creduto. Solo nel romanzo, è possibile scorgere questa verità. Non esiste idea del romanzo occidentale che non si trovi in embrione in Cervantes. La letteratura occidentale è quindi unita dall’idea madre del desiderio triangolare, fondamento della teoria del romanzo romanzesco così come lo chiama Girard. Il desiderio, è dunque contagioso. Vediamo a più riprese gli amici di don Quijote fingere la follia per guarire il loro vicino dalla sua; lo inseguono, si mascherano, ne inventano mille e giungono, gradatamente, al colmo delle stranezze nelle quali l’eroe li ha preceduti. Essi agiscono come dei medici non meno furiosi del paziente. Girard, critica l’interpretazione romantica che vede in Cervantes una scarsa simpatia per chi si impiccia della guarigione del suo eroe. Lo studioso, reputa quest’interpretazione banale, poiché è ovvio che l’autore parteggi per quella che è la sua creazione, il suo personaggio. Ma Cervantes, sempre secondo Girard, è più semplice e più sottile, allo stesso tempo. Egli vuole solo mostrare che don Quijote diffonde attorno a sé la malattia ontologica. Infatti, il contagio, palese nel caso di Sancho, si estende a tutti gli esseri che l’eroe incontra e soprattutto a coloro che la sua follia scandalizza o indigna. Ad esempio, il baccelliere Carrasco, si veste da cavaliere solo per restituire all’infelice amico la salute che ha perso, ma prende gusto al gioco prima ancora che don Quijote l’abbia disarcionato. Lo scudiero del baccelliere pensa del suo padrone che non esista un pazzo più grande di lui, poiché per far recuperare il senno all’amico, diventa egli stesso pazzo. E in effetti, il servo di Sansón Carrasco, non aveva detto male, l’umiliazione subita per mano di don Quijote provoca di fatto il suo risentimento. Questo meccanismo psicologico affascina Cervantes, il quale ne moltiplica gli esempi a mano a mano che ci si addentra nell’opera.
75 Altisidora, una damigella della duchessa, simula una passione per don Quijote, ma va davvero su tutte le furie quando si vede respinta. Questa collera, reale, indica l’inizio di una passione. La natura contagiosa del desiderio è un punto capitale della rivelazione romanzesca e Cervantes vi torna instancabilmente, soprattutto nella seconda parte del Quijote, dove l’imitazione di Avellaneda e il successo della prima parte del romanzo diventano il tema principale.
Durante il soggiorno a Barcellona, uno sconosciuto apostrofa don Quijote così : “Che il diavolo si porti Don Chisciotte della Mancia!...Tu sei pazzo e, se lo
fossi soltanto per conto tuo e dietro le porte della tua pazzia, il male non sarebbe poi tanto grave; ma hai il potere di far diventare pazzi e senza comprendonio tutti coloro che hanno contatti con te. E a prova del mio dire, basta guardare questi gentiluomini che ti accompagnano.”53
Il desiderio, diventa sempre più contagioso man mano che il mediatore, dunque il modello da imitare, si avvicina all’eroe. Pensiamo ad esempio, ai due consiglieri del Quijote, che percorrono la montagna ragliando in cerca di un asino che hanno smarrito. L’imitazione del raglio, è così ben fatta dai due compagni che essi sono ad ogni istante ricondotti l’uno verso l’altro, credendo che la bestia sia stata ritrovata. E qui si può parlare di doppia mediazione, dove i ruoli del modello e del discepolo si intercambiano, quanto più sono vicini. Nel Quijote, vi è il contrasto fra la norma e l’eccezione, dove don Quijote è l’eccezione e gli spettatori sbigottiti sono la norma. In Cervantes, vi è in generale una mediazione esterna, nel senso che il cavaliere e il suo mediatore, sono lontani, non hanno un contatto e non c’è rivalità fra loro, ma anzi armonia. Infatti, don Quijote desidera metafisicamente. Cervantes presenta un eroe alla rovescia in un mondo al diritto. Questo contrasto fra norma ed eccezione, non scava però un abisso fra i personaggi del Quijote. Si può dire che don Quijote rappresenta generalmente l’eccezione che si stacca da uno sfondo di buon senso; ma l’eroe può diventare a sua volta spettatore negli intervalli di lucidità. Se Sancho, quando è inquadrato all’interno di una scena con don Quijote, crea uno scenario razionale, quando passa in primo piano,
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76 ecco che diventa anch’esso l’eccezione che si stacca dal buon senso collettivo. Procedendo in questo modo, Cervantes desidera non solo rivelare il desiderio metafisico di Sancho, ma sottolinea l’importanza del fatto che nessuno è al riparo dai suoi attacchi, ma anche che nessuno è definitivamente condannato. La conclusione del romanzo, vede l’agonia dell’eroe. La passione cavalleresca ci viene presentata come una vera possessione da cui il morente si vede felicemente ma tardivamente liberato. La riconquistata lucidità, permette a don Quijote, di ripudiare la propria esistenza anteriore :
“Ora posseggo un giudizio libero e chiaro, non più coperto dalle spesse ombre
dell’ignoranza che la triste e continua lettura dei detestabili libri di cavalleria aveva posto in me. Riconosco la loro stravaganza e il loro inganno. Ho un solo rimpianto, che questa disillusione sia venuta così tardi e che non mi dia l’agio di riparare al mio errore, leggendo altri libri che farebbero luce nella mia anima.”54
Cervantes, sembrerebbe concludere in maniera conformista l’opera di cavalleria, per non destare sospetti nell’Inquisizione, ostile verso tali generi letterari. L’eroe morente sconfessa il proprio mediatore : “Io sono il nemico di Amadigi di Gaula e dell’infinita schiera dei suoi pari…oggigiorno, per misericordia di Dio, essendo divenuto saggio a mie spese, li aborro.”55 Sconfessare il mediatore, significa rinunciare alla divinità, e rinunciare all’orgoglio. Rinunciando alla divinità l’eroe rinuncia alla schiavitù. La menzogna cede il posto alla verità, l’agitazione al riposo, il desiderio secondo
l’altro al desiderio secondo sé. L’eroe trionfa nella propria sconfitta, egli è allo
stremo delle forze, è obbligato per la prima volta, a guardare in faccia il proprio nulla. È questa morte dell’orgoglio a salvarlo. La vera conversione pone fine al desiderio triangolare, ed è sempre memoria, in quanto l’eroe morendo, rivolge il pensiero alla propria esistenza perduta. Questa vittoria sul desiderio è infinitamente penosa e dolorosa. La verità, opera ovunque nell’opera romanzesca e si trova quasi sempre nella sua conclusione. La fine romanzesca è difatti, una riconciliazione tra l’individuo ed il mondo.
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Ibid, p. 250.
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