Cavalleria e borghesia, demenza e saggezza, poesia e prosa, l’opposizione fra don Quijote e il cavaliere dal verde gabbano non poteva, secondo F. Márquez Villanueva, essere espressa meglio di come ha fatto Cervantes. Il saggio cavaliere dal verde gabbano ammette in modo tacito la superiorità d’ingegno del folle cavaliere errante, accettando in silenzio lezioni che mai potrà assimilare. Non vi è possibilità di autentico dialogo fra i due, ma Cervantes li fa separare amichevolmente, dopo che si sono sforzati, da buoni cristiani, di convivere in pace sotto lo stesso tetto. Ciò che invece li accomuna, è la grande innovazione cervantina, che consiste in liberare il personaggio da ogni tipo di determinismo, per farlo vivere facendolo essere se stesso, libero di scegliere come condurre la propria vita. Quindi essi coincidono come personalità letteraria. Se don Quijote è matto, il verde gabbano, inebriato dalla propria prudenza e saggezza, si gioca la vita tanto follemente quanto fa don Quijote con la sua cavalleria. Se don Quijote crede che può essere cavaliere errante, don Diego crede che può essere felice attraverso una via puramente razionale. Quest’ultimo vede in don Quijote un temerario quando egli si trova a voler affrontare l’avventura dei leoni, arrischiando la propria vita per un ideale : la massima e definitiva insensatezza. In realtà Cervantes vuole far comprendere che il vero “saggio” da legare è don Diego, smisurato nella sua mania razionalista come nel suo gusto per il colore verde. Nel bel mezzo di questa vita tanto saggia e calcolata, sorge una realtà perturbatrice : un figlio poeta! Un altro folle come don Quijote. Sogno del padre sarebbe stato che il figlio avesse studiato legge o teologia, la più alta delle discipline. Peccato che il verde gabbano non conoscesse, a differenza di Cervantes, il celebre trattato del medico e filosofo Juan Huarte de San Juan, “Examen de ingenios para las
ciencias” (1575) di cui abbiamo parlato. Tale trattato insegna che è la Natura di
44 di don Lorenzo un poeta a prescindere. Per cui don Diego pecca due volte, sia contro la filosofia sia contro Dio e i suoi obblighi di padre. Il folle cavaliere, dovrà paradossalmente riportarlo alla sana ragione :
“Los hijos, señor, son pedazos de las entrañas de sus padres, y así, se han de
querer, o buenos o malos que sean, como se quieren las almas que nos dan vida: a los padres toca el encaminarlos desde pequeños por los pasos de la virtud, de la buena crianza y de las buenas y cristianas costumbres, para que, cuando grandes, sean baculo de la vejez de sus padres y gloria de su posterioridad; y en lo de forzarles que estudien esta o aquella ciencia, no lo tengo por acertado, aunque el persuadirles no serà dañoso; y cuando no se ha de estudiar para pane lucrando, siendo tan venturoso el estudiante, que le dio el cielo padres que se lo dejen, serìa yo de parecer que le dejen seguir aquella ciencia a que mas le vieren inclinado; y aunque la de la poesía es menos útil que deleitable, no es de aquellas que suelen deshonrar a quien las posee”33. Sagge parole quindi, quelle rivolte dal folle don Quijote a un padre che si fa sfuggire riguardo al figlio : “a no tenerle, quizá me juzgara por mas dichoso de lo que soy”34. Cervantes mostra un don Diego come esempio e vittima del potere disumanizzante della pura ragione, che lo rende cieco davanti a quello che dovrebbe essere motivo di orgoglio e non di infelicità. Poesia e cavalleria rappresentano così, valori supremi nella conquista del premio intangibile della fama. Implicano entrambe stili di vita incomodi, che non scendono a compromessi e che situano la felicità oltre il livello materiale. Ecco perché don Quijote e don Lorenzo riescono ad instaurare una relazione più calorosa e autentica. È quindi necessario che intervenga il nostro hidalgo, matto, che ha rotto con le esigenze di una vita normale, per fare sentire il vero accento della virtù e della moderazione.
Con il cavaliere dal verde gabbano, Cervantes gioca a faccia scoperta una lunga serie di ironie : la virtù può risultare vizio, la felicità disdetta, la saggezza insensatezza, ed un pazzo il maggior saggio. Cervantes segue la tradizione dei sofisti greci che elogiavano le cose triviali, negative o ridicole, formando il genere della letteratura del paradosso, la quale studia la profondità di alcuni
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Francisco Márquez Villanueva, Personajes y temas del Quijote, Taurus, Madrid, 1975, p. 207.
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45 concetti chiave contenuti in enunciati dall’apparenza contraddittoria. Ma è soprattutto all’interno dell’umanesimo cristiano che si trova il paradosso, nell’Elogio della follia di Erasmo, che scatena un’epidemia europea di pensiero paradossale. Qualità come ambiguità, relativismo, ironia, che consideriamo cervantine, sono caratteristiche della letteratura del paradosso. Secondo quanto detto fino ad ora, entrambe le figure prese in esame in questo capitolo, finiscono così, per intercambiare i loro ruoli : il folle dona al saggio i suoi preziosi consigli. Ci troviamo davanti al paradossale “mondo al contrario”. Dall’analisi di queste due individualità, emerge che i confini tra follia e saggezza si sfumano, tutto è appeso ad un filo, lo stesso don Quijote appare come un folle ricco di momenti lucidi, e don Diego è un saggio con intervalli di follia. Huarte de san Juan sosteneva che ogni essere umano soffre di intemperanze, e che da questa caratteristica dipende l’alienazione mentale. L’incontro dell’umanesimo cristiano (Erasmo) con il razionalismo moderno (Huarte), costituisce la base del Quijote.
Un’ultima riflessione va fatta sul personaggio del verde gabbano. Il cavaliere veste il famoso verde gabbano, a rombi, ma indossa anche il color oro, ed il marrone : sono i colori del pappagallo! La prudenza e le buone maniere che contraddistinguono il personaggio, contrastano con il vestiario. Bisogna ricordare che, durante il regno di Filippo II, i gentiluomini indossavano abiti scuri. Il vestiario che dà il nome al personaggio è certamente un elemento funzionale che dice qualcosa su di lui. Infatti, i lettori del tempo sapevano che un vestiario a colori molto vivaci era tratto distintivo del folle, del buffone di corte. Di solito, il gabbano insieme al cappello con i campanelli, le orecchie da asino e la cresta da gallo era il vestito per antonomasia del folle. Le burle dei “locos” erano obbligatorie durante le feste pubbliche a corte. È Erasmo, con la sua Stultitiae laus, a consacrare l’universalità letteraria del folle. Importava comunque stabilire che il lettore dell’epoca poteva captare subito il paradosso del personaggio;
L’umanesimo cristiano con il Narrenschiff (1494) di Brant e la Stultitiae laus (1509) di Erasmo, hanno visto nel buffone di corte, la metafora della vita
46 umana contraddistinta dalla verità morale e dall’umiltà del sapere. La letteratura del paradosso appare in Spagna agli inizi del XVI secolo. La figura del buffone fungeva da maschera per la critica sociale, politica e religiosa. Persino nel Lazarillo de Tormes incontriamo questo aspetto. Cervantes porta al culmine la letteratura europea della follia paradossale attraverso il suo folle personaggio, don Quijote.
Nel 1949, A. Vilanova segnalava una relazione fra l’Elogio erasmiano e il
Quijote. Infatti, secondo quest’ultimo, Cervantes avrebbe potuto leggere la Censura de la locura humana y excelencias della (1598) di Mondragón, testo
molto vicino all’Elogio erasmiano. Abbiamo visto come l’autore del Quijote abbia portato agli estremi il paradosso della follia saggia e della saggezza folle nei capitoli dedicati al cavaliere dal Verde Gabán. Il suo vestiario, contrastava con la sua personalità. Egli vestiva come la Follia personificata protagonista dell’Elogio. Orbene, il colore verde, emblema della follia del buffone di corte, si incontra in più occasioni nel Quijote. Ad esempio, verde è il colore dei nastri della celata di don Quijote; dello stesso colore è il filo con cui cuce le sue calze. Questa simbologia del colore verde, la ritroviamo anche nella corte dei Duchi, i quali organizzano giochi grotteschi al cavaliere andante e al suo scudiero. Nella seconda parte, nel capitolo XLVI, don Quijote va incontro ai Duchi vestito con un manto scarlatto e un cappello di velluto verde, ricco abbigliamento di corte che simboleggia le cattive intenzioni degli oziosi aristocratici. Nel capitolo XXXIV della seconda parte, servo e padrone sono invitati alla caccia grossa organizzata dai Duchi, i quali diedero al cavaliere un vestito da cacciatore per l’occasione e a Sancho uno verde da battitore. Queste vesti nascondono cattive intenzioni, soprattutto a causa dell’inconfondibile colore. Il rifiuto da parte di don Quijote nell’accettare il dono, rappresenta in un certo senso un ripudio verso di essi, uno dei primi sintomi che annuncia lo scontro inevitabile fra l’aristocratico e il cavaliere andante, fra la Cavalleria e la Corte. Sancho, che invece accetta il drappo infamante, sarà vittima di una scena comica, poiché a causa di esso rimarrà appeso ad un albero. La duchessa stessa, al primo incontro con gli avventurieri sfoggia un vestito di colore verde.
47 Sempre nella seconda parte, nel capitolo LXX, Cervantes scrive : “ Y dice más Cide Hamete : que tiene para sí ser tan locos los burladores como los burlados y que no estaban los dunque dos dedos de parecer tontos, pues tanto ahínco ponían en burlarse de dos tontos”35
. Per cui non si distingue più chi è saggio e chi è folle, se il presunto folle cavaliere insieme al suo fedele scudiero oppure quelli che si credono savi, ma che in realtà sono più folli dei folli stessi. F. Márquez Villanueva, vuole dimostrare attraverso l’analisi del Quijote, che i simboli emblematici della follia buffonesca erano ben conosciuti nella letteratura dell’epoca.
Martine Bigeard36, ricostruisce le linee schematiche del tema della Follia in Spagna, offrendo dei dati sui manicomi, i cui ospiti erano solitamente vestiti con saio o gabbano verde. Oltre al colore verde, che ripetiamo, si associava alla figura del folle, anche i termini saio o gabbano da soli già supponevano una qualche relazione con il buffone. Con il Quijote si chiude il cerchio di questo particolare genere letterario.
Infine, osserva lo studioso, l’iconografia della follia includeva anche l’emblema del mulino a vento, oggetto che simboleggia l’instabilità della demenza. Da qui il detto andaluso : estar como un molinillo, o tener la cabeza como un molino, per descrivere una persona pazzerella, sventata.
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F. Márquez Villanueva, Trabajos y días cervantinos, Centro de estudios cervantinos, Alcalá de Henares, 1995, p. 39.
36
M. Bigeard, La Folie et les fous littéraires en Espagne 1500-1650, París, Centre de Recherches Hispaniques, 1972, p. 33
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