La preoccupazione nei confronti delle seconde generazioni e della loro capacità di integrazione non è un fenomeno recente. Le prime indagini significative che cercano di analizzare la relazione esistente fra seconde generazioni e criminalità le troviamo già nei primi anni del Novecento. Una tra queste fu quella condotta negli Stati Uniti dalla seconda commissione del 1901 istituita dal Congresso americano. L’indagine non si limitò ad analizzare il rapporto tra immigrazione e criminalità ma analizzò la criminalità distinguendo gli immigrati di prima generazione e quelli di seconda generazione. La commissione arrivò alla conclusione che gli stranieri della seconda generazione avevano un tasso di criminalità molto più alto principalmente per tre ordini di ragioni: avevano assimilato maggiormente i modi di vita del paese ospitante rispetto ai loro genitori, avevano contatti frequenti con la criminalità e si erano liberati precocemente dal controllo dei genitori. Ancora più significative, sempre nel contesto statunitense, furono le indagini della commissione Wickersham16 condotte tra il 1930 e il 1931. Gli studiosi che facevano parte di questa commissione ebbero il merito innanzitutto di confutare
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il pensiero dell’americano medio che vedeva l’immigrato come un criminale per natura, concentrando l’attenzione sulle variabili economiche, sociali e culturali. In secondo luogo gli esperti che lavorarono per la Commissione, allargarono il campo di analisi alle seconde generazioni prendendo spunto dai più recenti studi condotti in quegli anni. La Commissione Wickersham intervistò magistrati e agenti di polizia, i quali concordarono sul fatto che erano i figli degli immigrati e non i primo migranti a trovarsi spesso coinvolti in attività criminali. Anche in questo caso i motivi forniti dai funzionari intervistati erano: la perdita del controllo genitoriale, la situazione di povertà in cui si trovavano le famiglie immigrate costringendole a vivere in zone degradate, le molte ore di lavoro della madre fuori casa, l’apprendimento della lingua inglese (che oltre a consentire ai figli di fare da interpreti ai loro genitori stimolava in loro un sentimento di superiorità nei confronti dei genitori) e infine, il tanto tempo passato in strada con coetanei autoctoni che attraverso furti e attività illecite riuscivano a soddisfare i loro desideri (Barbagli, 2002). Anche se i dati raccolti dalla Commissione Wickersham non furono sufficienti ad arrivare a una conclusione sul fenomeno della devianza giovanile delle seconde generazioni in quegli anni, essi misero in luce molti aspetti che sono stati ripresi successivamente più volte da vari studiosi17. Tuttavia possiamo vedere come l’indagine rintracciò le cause della devianza delle seconde generazioni nel rapporto genitori-figli, nell’organizzazione familiare, nell’abitare in quartieri degradati e nei rapporti con i coetanei autoctoni che spesso commettevano attività illecite.
Facendo riferimento agli anni più recenti, oggi vari studiosi e criminologi si interrogano su quale potrebbe essere lo scenario futuro per quanto riguarda la convivenza tra i figli di seconda generazione e gli autoctoni. Alcuni sociologi e criminologi, intorno alla fine degli anni Settanta, hanno definito gli immigrati di seconda generazione con espressioni piuttosto catastrofiche come «bomba sociale a scoppio ritardato» (Bovenkerk 1973; cit. in Barbagli, 2002 : 31) o «ribellione della seconda generazione» (Piore, 1979; cit. in Ambrosini e Molina, 2004 : 21); tuttavia nonostante alcuni sociologi ritengono che queste affermazioni siano troppo allarmiste (Barbagli, 2002; Ambrosini e Molina, 2004), confermano che effettivamente le seconde generazioni tendono ad assumere con più frequenza comportamenti devianti rispetto alle prime18, rintracciano però la causa di questo fenomeno nel sistema delle opportunità che la società offre. Questo perché:
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Tra i principali autori che si occupano del tema troviamo Portes, Rumbaut (2001) e Palmas (2005).
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Barbagli (2002)fa riferimento alle ricerche condotte intorno alla metà degli anni Ottanta in Austria e Belgio, in Francia e in Germania, in Olanda e in Svizzera. Dalle ricerche risultò che gli immigrati di seconda generazione rappresentavano quasi 1/3 della popolazione e che essi avevano tassi di criminalità molto più alti degli immigrati di prima generazione e dei coetanei autoctoni.
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se non hanno successo a scuola e se non riescono a entrare nel mercato del lavoro qualificato rischiano di costituire un potenziale serbatoio di esclusione sociale, devianza, in opposizione alla società ricevente e alle sue istituzioni (Ambrosini e Molina, 2004 : 21).
Possiamo notare che Ambrosini (Ibid.,,) facendo riferimento alla scuola e al lavoro, suggerisce che il futuro delle secondo generazioni è strettamente connesso al contesto della società ospitante e che quindi è necessario affrontare il problema attraverso un’ottica che comprenda la società nel suo complesso. Melossi, De Giorgi e Massa (2008), fanno notare come la letteratura sociologica e criminologica concordi nell’indicare le seconde generazioni come le più “a rischio” di esposizione a fenomeni di devianza e criminalità a causa del loro status di “immigrante di seconda generazione”. Gli autori, in riferimento alle seconde generazioni, parlano di una condizione di «vulnerabilità strutturale» (Ibid.:1.) Quest’ultima sarebbe dovuta alla loro condizione di svantaggio e discriminazione che si acuisce nel passaggio tra la prima e la seconda generazione e che invade la sfera economica e sociale. Proprio per questo, secondo gli autori, le seconde generazioni metterebbero in atto forme di socializzazione «alternative» (Ibid.:1).
La condizione di «vulnerabilità strutturale» sembra richiamare il concetto di vitalità del gruppo19 di Bourhis et al.(1997) che è stato analizzato nel primo capitolo. Come abbiamo visto l’autore assegna alla comunità di immigrati soltanto una bassa e media vitalità di gruppo perché dà per scontato che molto probabilmente una comunità di immigrati, sia per numero, che per status e controllo istituzionale, si troverà sempre in una posizione di svantaggio rispetto al gruppo dominante, e questo svantaggio che Melossi, De Giorgi e Massa (208) chiamano «vulnerabilità strutturale» sembra essere sofferto ancora di più dalle seconde generazioni. Anche Caramel (2018), effettuando una ricognizione delle ricerche sul tema, osserva che in effetti, laddove il processo di insediamento delle seconde generazioni si è verificato, pare che esista una predisposizione alla devianza delle seconde generazioni maggiore rispetto alle prime. Tuttavia, la giovane studiosa, abbraccia la tesi che individua, quale causa del fenomeno: «l’incapacità degli Stati di elaborare politiche in grado di supportare il passaggio da una società omogenea a una multiculturale» (Ibid.:23)20. In generale possiamo vedere come gli autori tendono a rintracciare le cause del fenomeno della devianza delle seconde generazioni nella loro condizione socioeconomica e in generale nel contesto sociale di accoglienza. Giunti a questo
19 il concetto di vitalità del gruppo fa riferimento sia al numero di individui che compongono il gruppo
degli immigrati, sia alla rappresentanza dei loro interessi al livello decisionale e sia al loro status sociale.
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Tra i principali autori che sostengono questo tesi troviamo Ambrosini e Molina (2004), Portes e Rumbaut (2001).
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punto è fondamentale comprendere quali sono i fattori di rischio e i meccanismi che possono far assumere alle seconde generazioni comportamenti devianti.