Oggi, di fronte a un’immigrazione di lunga durata e che spesso si conclude in uno stanziamento permanente, risulta sempre più importante focalizzare l’attenzione ai vari modelli di politiche per gli immigrati. Esse risultano estremamente importanti ai fini di una piena integrazione intesa nel suo senso più ampio e che miri quindi, non soltanto al soddisfacimento dei bisogni primari come la casa, il lavoro e l’educazione, ma che contribuisca anche a realizzare le reali aspirazioni dei nuovi arrivati e in particolar modo delle seconde generazioni che sembrano avere maggiori ambizioni rispetto ai loro padri (Ambrosini e Molina, 2004).
Multietnicità, multiculturalità, multiculturalismo e pluralismo culturale: le principali politiche per gli immigrati messe in atto dai paesi europei.
Come afferma Hasanaj (2018), l’aumento costante delle ondate migratorie favorisce la pluralità culturale mettendo in crisi il primato della cultura autoctona. Questa pluralità mette in gioco la convivenza tra diversità etniche-culturali e la sua realizzazione. Possiamo dire che nelle società occidentali si è creato un paradosso poiché, accanto alle spinte nazionaliste che tendono ad un’omologazione negli stili di vita e all’assorbimento delle diversità, la diversità multietnica è spesso utilizzata, facendo riferimento agli autori sopra citati, a scopi di lucro. Resta un dato di fatto però: con l’insediamento di nuovi gruppi culturali nascono richieste di riconoscimento formali e informali alle quali i paesi di destinazione devono far fronte.
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Prima di analizzare i principali modelli di politiche per gli immigrati che sono andati consolidandosi in Europa, è bene fare riferimento a quattro concetti indispensabili ben individuati da Cesareo (2000 : 9) che stanno a monte delle politiche: multietnicità,
multiculturalità, multiculturalismo e pluralismo culturale. L’autore sottolinea che la
multietnicità è la precondizione necessaria per la multiculturalità ma la prima non implica necessariamente la seconda in quanto le diversità culturali sono dovute non soltanto all’etnicità ma anche alle differenti religioni, ideologie, status socio-economici etc….
La multietnicità è definita dall’autore come:
una situazione di compresenza in un determinato spazio fisico o relazionale di differenti gruppi etnici portatori di diversi patrimoni culturali (ibid. : 9).
Pertanto l’autore definisce l’etnicità come un insieme di credenze comuni che fanno nascere una comunità e la sostengono. Queste comunità si basano sulla credenza soggettiva di condividere un’unica comunità d’origine e quindi il suo elemento caratterizzante è il sistema dei rapporti di discendenza, per questo, il concetto di etnicità è sganciato da quello più ampio di cultura. Cesareo (ibid.) afferma che con la creazione dello Stato nazionale, i concetti di etnia e etnicità hanno subito delle modificazioni intendendo minoranze che condividono le stesse credenze, ma non organizzate in uno Stato e all’interno di esso si distinguono da altre etnie o dalla maggioranza che si è costituita a livello statale. Certo è, come specifica l’autore, che al di là delle diverse sfumature che può assumere il concetto, esso presuppone due processi fondamentali: quello di eterodefinizione che rende possibile distinguere gli insider e gli outsider del gruppo e l’ autodefinizione che porta il gruppo ad identificarsi come una distinta entità etnica. Il concetto di autoidentificazione assume una notevole importanza nel mondo contemporaneo, con esso si fa riferimento alla sfera soggettiva intrinseca all’agire dei soggetti e nei loro processi di identificazione, proprio per questo essere figli di immigrati non implica necessariamente che un individuo appartenga a un determinato gruppo etnico.
Inoltre specifica che quando parliamo di patrimoni culturali, si intende che i vari gruppi etnici condividono al proprio interno un’unica comunità di origine, un insieme di credenze comuni e una cultura distinta da quella degli altri gruppi che vogliono preservare e richiederne un riconoscimento ufficiale e la comunità di origine è considerata l’ elemento qualificante l’etnicità e presupposto per costruire un’identità comune e una coesione interna al gruppo.
L’autore sempre in merito alla distinzione tra il concetto di multietnicità e multiculturalità riprende la definizione di multietnicità di Schellenbaum (1998, cit. in Cesareo, 2000 : 13);
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un aggregato sociale costituito da componenti etniche che interagiscono tra loro e che organizzano il loro comportamento sulla base di una supposta diversità etnico-culturale, rivendicata all’interno del gruppo o imposta dall’esterno (Schellenbaum, 1998, cit. Cesareo, 2000 : 13).
Possiamo notare che questa definizione oltre a mettere in risalto la compresenza tra diversi gruppi etnici, mette in luce due questioni: la rivendicazione all’interno del gruppo che richiama a sua volta il principio del riconoscimento e la questione dell’imposizione dall’esterno della diversità che può tradursi in mancato riconoscimento. Quindi Schellenbaum (ibid), nella sua definizione di multietnicità, sembra accennare la componente relazionale, quindi l’interazione tra gruppi che trova certamente la sua massima espressione nel concetto di multiculturalità. La seconda, precisa Cesareo (2000), si riferisce non solo alla compresenza di culture diverse in una stessa società, ma anche al modo di relazionarsi tra loro e alla valorizzazione delle diversità scongiurando le relazioni simmetriche tra minoranze e maggioranze, con rischio che le prime vengano assimilate dalle seconde. In una società multiculturale le diversità vengono apprezzate e valorizzate e tutti indistintamente hanno pari dignità.
Formigoni (a cura di, Milano e Volontè, 2003) fa un interessante analisi del concetto di multiculturalità e asserisce che c’è un’idea corrente di multiculturalità considerata “democratica” che soltanto a parole dice di voler tutelare le diversità perché la riduce a folclore meccanica e inconsapevole, e quella che invece parte dalla comune condizione umana. Quest’ultima ritiene che i vari uomini e le varie identità culturali hanno diversi carismi, per cui in questo caso la multiculturalità non è più sinonimo di mera tolleranza che ignora i valori dell’altro, ma cerca di individuare la base comune dei valori condivisi che unisce varie culture e che porta a una convivenza pacifica.
Riprendendo le definizioni di Cesareo (2000) del concetto di multietnicità e multiculturalità e di come quest’ultima faccia riferimento alle relazioni, ecco che qui subentra la questione della
convivenza tra gruppi che condividono uno stesso territorio alla quale si collega il concetto di multiculturalismo.
Cesareo (2000) afferma che quando parliamo di multiculturalismo è necessario cambiare prospettiva, poiché con esso ci riferiamo al campo delle opzioni politiche, cioè alle modalità di soluzione al problema della convivenza interetnica e interculturale, secondo una prospettiva multiculturalista, tesa cioè alla valorizzazione delle differenze. Quindi, mentre con il termine multietnicità si intende descrivere una situazione fattuale, con multiculturalismo si fa riferimento ai progetti che si intendono attuare. Quindi tra i tre termini esiste un rapporto di
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dipendenza, per cui la multietnicità è un dato di fatto, il multiculturalismo è il progetto politico necessario a creare una società multiculturale che riconosce e valorizza ogni cultura.
Per quanto riguarda questo aspetto Hasanaj (2018) fa un passo indietro, e analizza alcuni dei principali contributi filosofici che stanno alla base delle teorie multiculturaliste: i teorici del pluralismo culturale, quelli del neo-comunitarismo e quelli del liberalismo politico5. Queste teorie filosofiche, nate con le migrazioni internazionali6, partono da un diversa concezione dell’individuo e della sua relazione con la comunità cercando di stabilire quali dei due elementi ha il primato sull’atro. L’autore precisa infatti la centralità del nesso individuo e comunità definendo così i due elementi:
il primo inteso in senso liberale, in quanto soggetto fondamentale nella costituzione della società; la seconda intesa come spazio di socializzazione degli individui e come insieme di legami culturali, etnici, religiosi e linguistici tra soggetti che pur si individualizzano (ibid. : 23).
Il liberalismo, come spiega l’autore, attribuisce il primato all’individuo e il compito della politica è quello di tutelarlo nella relazione con gli altri individui, garantendo a ciascuno uno spazio di azione che renda possibile il libero perseguimento dei propri interessi. Al contrario, il comunitarismo, si muove dall’idea che l’individuo non esisterebbe senza la società, poiché egli trova la sua piena realizzazione soltanto in relazione con gli altri individui. Quest’ultimo paradigma attribuisce quindi il primato della società rispetto all’individuo. Anche Cesareo (ibid.), analizzando i due concetti, afferma che la tradizione liberale pone l’attenzione sulla difesa dei diritti umani fondamentali come la libertà di parola, pensiero, coscienza, associazione, indipendentemente dall’appartenenza etnica e che la difesa di questi diritti tutelerebbero indirettamente le differenze dei gruppi etnico-culturali. Le teorie comunitariste invece, osserva Hasanaj (ibid.), attribuiscono un valore determinante alla comunità che costituirebbe non solo la base all’unità identitaria, ma anche un sostegno per l’individuo che ha una natura sociale. Quindi la filosofia comunitarista vede la comunità come la base per la costruzione dell’identità individuale, per questo diventa necessario limitare i diritti individuali per promuovere i valori della comunità. Come dichiara Cesareo (2009), è evidente come il comunitarismo sia più coniugabile, rispetto alla tradizione liberista, con il multiculturalismo che attribuisce centralità ai diritti etnici. Tuttavia, precisa l’autore, la divisione netta tra le due prospettive con il tempo è andata sfumandosi, poiché il multiculturalismo, laddove sì è sviluppato, ha presentato caratteristiche diverse in cui è possibile rilevare elementi di entrambi gli approcci.
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T. Greco (a cura di )N. Bobbio, E. Vitale (2000), M.Bovero (1997).
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Hasanaj fa riferimento alle migrazioni avvenute tra la metà dell’800 e l’inizio del ‘900 dall’Europa agli Stati Uniti e nel Canada.
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Hasanj (2018) citando Cesareo (2000), concorda sul fatto che il dibattito sulla teoria multiculturalista è nato a seguito del fallimento del modello del Melting Pot dell’inizio del Novecento negli Stati Uniti. Questo modello come soluzione alla multietnicità proponeva un mescolamento di culture che avrebbe fatto nascere una nuova cultura comune a tutta la nazione. Quindi il Melting Pot partiva dall’accettazione delle differenze prevedendo però come risultato ultimo un’omogeneità culturale, seppur nuova, in nome dell’uguaglianza, dell’unità e dell’universalismo. Cesareo (ibid.) inoltre delinea un excursus storico, in cui si mettono in rilievo le principali tappe che hanno portato al pensiero multiculturalista. Egli afferma che dopo il Melting Pot, a partire dagli anni Venti, nel contesto americano, inizia a svilupparsi il pensiero del pluralismo culturale che vedeva le diversità etniche una ricchezza da preservare e valorizzare a patto che non pregiudicassero la cultura americana. Questo paradigma si è poi sviluppato nel modello chiamato insalatiera etnica in cui le culture si mescolano senza però perdere le loro caratteristiche. Entrambi i modelli avevano come obiettivo quello di conciliare il particolarismo con l’universalismo, mantenendo un’omogeneità nell’ambito della vita pubblica e preservando le differenze nella vita privata7. Infine, l’ultima tappa descritta, oggetto di discussione oggi, è il multiculturalismo sviluppatosi dagli anni Settanta, spesso accompagnato da rivolte etniche. Questo modello attribuisce il primato ai gruppi etnici e all’appartenenza etnica, mettendo in risalto le differenze tra i diversi gruppi, passando dall’universalismo al particolarismo.
Una chiara definizione di società multiculturale ci viene fornita da Cesareo (2000) che afferma: si fonda sulla rivendicazione e sulla richiesta di riconoscimento delle differenze culturali: esso rimanda dunque all’affermazione della pari dignità di singole identità culturali, cioè dell’eguale valore di culture diverse (ibid. : 36).
Quindi si fa riferimento non solo alla presenza di varie etnie all’interno di una stessa società, ma anche al valore e al rispetto delle culture e al loro modo di condividere lo stesso spazio. Un altro concetto rilevante espresso in questa definizione è quello di dignità. Le culture che condividono uno stesso spazio in un’ottica multiculturale, interagiscono tra di loro e ad ognuna di esse è attribuita dall’esterno una pari dignità. Spostando l’attenzione sulle politiche messe in atto per far fronte alla questione della convivenza interetnica e interculturale Cesareo (ibid.) individua due tipi di multiculturalismo quello temperato e quello radicale. Il primo si basa su una pari dignità di tutte le culture rispettando i diritti universali delle persone umane, presupponendo però una selezione di esse; nel multiculturalismo radicale invece, viene esclusa la possibilità di
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Possiamo notare una convergenza di questi due modelli con il modello liberale classico descritto da Semprini (2000, cit. in Pintus, 2008).
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effettuare una qualsiasi selezione rivendicando il diritto di ciascuna cultura di esprimersi per quello che è, esaltando il diritto alla differenza. Al di là di questa distinzione nel multiculturalismo si privilegia la comunicazione tra gruppi culturalmente diversi. Se così non fosse allora si parlerebbe di pluralismo culturale o come lo definisce Sen (2006)
monoculturalismo plurale.
Sen (Ibid.) e Cesareo (ibid.), affermano che il pluralismo culturale riconosce la presenza di culture diverse in uno stesso territorio attribuendo ad esse una pari dignità, al contrario, in una società pluralista, è più giusto parlare di tolleranza vale a dire che le diverse culture presenti su uno stesso territorio sono tollerate dalla cultura dominante. Inoltre Cesareo (ibid.) descrivendo il concetto di pluralismo culturale aggiunge che esso prevede una rigida separazione tra sfera pubblica e privata. La prima è normata da leggi comuni universalmente accettata, mentre alla seconda è lo spazio della libera espressione delle differenze. L’autore, riguardo a questa separazione, ne riporta due versioni, quella conflittuale e quella consensuale. La versione conflittuale vengono messi in risalto l’esistenza di universi controculturali, quindi lo scontro tra cultura dominante e cultura dominata, la prima considerata colta e la seconda considerata popolare. Il rischio della versione conflittuale è che si possano creare contrasti tra le due sfere e che i diritti etnici non siano sufficientemente tutelati. La versione consensuale invece, è quella in cui i vari gruppi hanno mantenuto alcuni aspetti peculiari della propria cultura pur omologandosi ad alcuni modelli condivisi dalla cultura dominante. Nella versione consensuale la manifestazione delle differenze è ammessa purché essa si esprima nella sfera privata e non pubblica; inoltre le minoranze devono condividere alcune norme comuni per convivere con il gruppo maggioritario. Alla luce delle interpretazioni forniteci dagli autori citati, possiamo dire che spesso il pluralismo culturale sia il risultato di un multiculturalismo non riuscito che si traduce in modelli di politiche per gli immigrati che vari autori, facendo riferimento ai paesi di recente immigrazione definiscono «implicito» (Ambrosini, 2001; cit. in Ranci e Pavolini, 2015 : 280) o di «non policy» (Alexander, 2007; cit. in Ranci e Pavolini, 2015 : 280). Sen (2006) ricorrendo a una metafora esemplificativa ci fa cogliere l’essenza del concetto di pluralismo culturale:
l’esistenza di una diversità di culture, che magari viaggiano una accanto all’altra come navi nell’oscurità…(Ibid. : 158)
Tornando a Cesareo (2000), egli all’estremo opposto del multiculturalismo indica il modello del monoculturalismo che si basa sulla necessità dell’esistenza di una sola cultura unificante che identifica una società territorialmente circoscritta e proprio per questo non lascia spazio alle differenze etnico-culturali. Anche del monoculturalismo l’autore ne fa una distinzione e chiama
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monoculturalismo autoritario quello che consiste nell’imposizione di uno specifico principio culturale (come razza, etnia, nazione o religione) che garantisce un controllo sugli individui tramite la coercizione da parte, solitamente, dello Stato. Questa prospettiva è spesso ripresa dalle proposte politiche che tendono all’espulsione o ghettizzazione delle differenze culturali. La seconda accezione invece è denominata monoculturalismo illuminato che prevede un approccio graduale all’omologazione culturale attenuando sempre di più le differenze. Elemento comune ad entrambe le accezioni è che il monoculturalismo considera le differenze etniche e culturali una minaccia per la conservazione della società che per sopravvivere deve mirare a un consenso generalizzato.
Riprendendo il concetto di multiculturalismo, possiamo dire che esso spesso è stato accusato di essere un modello fallimentare per far fronte alla questione della convivenza tra gruppi etnico- culturali diversi. Hasanaj (2018) partendo dai contributi di vari autori tenta di ricomporre il concetto di multiculturalismo e afferma che esso si presenta in due forme, una descrittiva che si concentra sulla contestazione del misconoscimento e una ideologica che si presenta in forma propositiva.
Semprini (2000, cit. in Hasanaj, 2018) pone al centro del dibattito multiculturale la crescente diversità tra gruppi umani che perseguono interessi, valori, credenze e stili di vita diversi tra loro. Posto ciò egli individua tre problematiche possibili intorno alla questione del multiculturalismo:
la prima è che questo termine si riferisce alla mescolanza che può essere difficile tra gruppi diversi, quindi in questo senso si pone l’accento sull’aspetto descrittivo e distingue le società multiculturali sin dalle origini (come Stati Uniti, Canada e Australia) da quelle che non lo sono, o meglio quelle che sono diventate multiculturali soltanto a seguito dei flussi migratori dalle colonie, come i magrebini e gli algerini assimilati dai governi francesi. Un altro gruppo è formato dai paesi che da terre d’emigrazione sono diventati paesi di immigrazioni di massa solo negli ultimi decenni, come l’Europa meridionale.
Il secondo aspetto problematico riguardante il multiculturalismo, è dato dai conflitti e dalle rivendicazioni che possono nascere nella società multiculturale. Qui è implicita la questione del riconoscimento e della pari dignità, che se non tutelate può costituirsi un terreno fertile per la nascita dei pregiudizi e conflitti.
Il terzo aspetto problematico, è che il termine multiculturalismo può diventare sinonimo della posizione ideologica di coloro che si battono per una società multiculturale che va oltre la
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tolleranza e che quindi richiedono un pieno riconoscimento. Quest’ultimo aspetto può essere ricompreso in un multiculturalismo di tipo propositivo descritto da Hasanaj (2018) .
Hasanaj (2018) afferma che il multiculturalismo, nel suo ruolo ideologico, presuppone l’effettiva presa di coscienza della presenza di comunità straniere che richiedono il riconoscimento dei loro diritti individuali e di gruppo. L’autore analizzando il multiculturalismo afferma che il suo fine è quello di mettere al centro del dibattito politico la questione della cittadinanza politica e inclusiva, proponendo una società basata sull’interculturalità. L’interculturalità, riconoscendo le differenze culturali, propone un progetto che ha come obiettivo quello della convivenza pacifica e egualitaria delle minoranze etniche, culturali e religiose.
Questi concetti fanno da cornice alle politiche per gli immigrati messe in atto dai paesi europei. Le politiche per gli immigrati, come abbiamo accennato in precedenza, ruotano intorno a tre elementi fondamentali che sono: occupazione, istruzione e abitazione. Per quanto riguarda il primo elemento si tratta di garantire uguale accesso a tutte le occupazioni e nell’avere un uguale diritto alla protezione previdenziale in caso di perdita dell’occupazione. Per quanto riguarda il secondo elemento, si tratta di assicurare agli alunni stranieri le stesse opportunità degli alunni autoctoni di intraprendere qualsiasi percorso scolastico senza discriminazioni. Infine, la questione dell’abitazione è strettamente legata alla regolazione dell’accesso alla casa da parte degli stranieri e nel prevenire la formazione di ghetti urbani in cui spesso si concentrano gli stranieri. Le modalità attraverso le quali sono stati affrontati questi ambiti hanno delineato quattro modelli principali di politiche per gli immigrati: temporaneo, assimilativo,
pluralista/multiculturale, implicito/Di non policy (Ambrosini, 2011, cit. in Ranci e Pavolini,
2015 : 278-280).
Il primo si muove dal presupposto che l’immigrazione sia un fenomeno temporaneo che mira a soddisfare l’esigenza di forza lavoro8
. Per questo, le politiche per il lavoro mirano a soddisfare le necessità delle imprese già prima della partenza dal paese di origine. Inoltre vengono messe in atto politiche volte a evitare che gli immigrati giochino al ribasso danneggiando i lavoratori locali. In questo modello l’abitazione si limita ad assicurare condizioni minime di vivibilità e c’è la tendenza a concentrare gli immigrati in alcune zone urbane. Infine l’istruzione è volta strettamente all’insegnamento della lingua per offrire agli adulti gli strumenti base per comunicare nel Paese di accoglienza. Per quanto riguarda gli alunni stranieri le politiche per
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l’integrazione scolastica sono poco sviluppate, poiché questo modello non vuole incentivare i ricongiungimenti familiari e quindi un’immigrazione permanente.
Il secondo modello, denominato assimilativo, mira a far si che gli immigrati si omologhino completamente con gli autoctoni sotto tutti i punti di vista. Nel modello assimilazionista lo stanziamento definitivo degli immigrati è accettato a patto che questi ultimi aderiscano ai valori della cultura del Paese di accoglienza. Questo fa si che politiche per gli immigrati puntino a garantire un uguale accesso al mercato del lavoro, un’offerta di abitazioni dignitose e un’integrazione scolastica che non si concentra solamente all’apprendimento della lingua ma anche alla socializzazione delle seconde generazioni. Questo modello parte dal presupposto che la cultura dominante è quella del Paese di accoglienza, mentre altre devono attenuare i loro tratti