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Seconde generazioni: il rischio di un'integrazione verso il basso

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Academic year: 2021

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Seconde generazioni: il rischio di un'integrazione verso il basso

Candidato: Francesca Caffieri

Relatore:

Prof. Gabriele Tomei

Anno Accademico: 2017/2018

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Indice

Introduzione... 3

Capitolo primo: da un’immigrazione temporanea a un’immigrazione permanente, nuove sfide per i sistemi di welfare europei. ... 6

L’evoluzione dell’immigrazione in Europa. ... 6

Identità, Cultura e integrazione: l’incontro tra il migrante e il paese ospitante. ... 13

La questione dell’identità nella società multiculturale ... 13

Cultura e coesione sociale. ... 18

Percorsi di integrazione. ... 20

I principali modelli delle politiche per gli immigrati. ... 29

Multietnicità, multiculturalità, multiculturalismo e pluralismo culturale: le principali politiche per gli immigrati messe in atto dai paesi europei. ... 29

Uno sguardo al caso italiano ... 38

Criminalizzazione e senso di insicurezza. ... 39

Seconde generazioni, «figli di un paese che non li vuole»: l’attuale legge sulla concessione della cittadinanza e il dibattito sullo ius soli in Italia. ... 41

Capitolo secondo: Seconde generazioni, «una bomba sociale a scoppio ritardato»? ... 51

Chi sono le seconde generazioni? ... 51

Devianza e seconde generazioni. ... 52

L’assimilazione segmentata delle seconde generazioni tra limiti e opportunità. ... 55

La frustrazione migratoria dei minori di seconda generazione: il rifiuto di un’integrazione subalterna... 67

L’identità etnica e l’appartenenza duplice delle seconde generazioni. ... 69

Capitolo tre: La famiglia dei minori di seconda generazione. ... 74

Il progetto migratorio come mandato familiare. ... 74

L’influenza della nascita e dell’arrivo dei figli sul sistema famiglie e sul progetto migratorio. ... 78

Il meccanismo del rovesciamento dei ruoli e il rischio di uno scivolamento verso il basso.... 84

Capitolo quarto: Seconde generazioni tra scuola e gruppo dei pari. ... 91

Seconde generazioni e riuscita scolastica. ... 91

L’impatto del percorso migratorio sulle carriere scolastiche delle seconde generazioni... 91

Le carriere scolastiche delle seconde generazioni : l’inserimento e i fattori che influenzano la riuscita scolastica. ... 92

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L’impressione degli insegnanti e dei dirigenti. ... 101

Progetti per una scuola multiculturale. ... 102

Quanto ti senti italiano e dove vorresti vivere in futuro? ... 103

Frequenza del rapporto con i pari all’esterno dell’ambiente scolastico. ... 105

Il gruppo dei pari e le strategie identitarie. ... 105

Le identità etniche individuali ... 105

Un tentativo di lettura delle strategie identitarie delle seconde generazioni attraverso il modello di Bourhis. ... 109

Dall’individuo al gruppo: le identità collettive delle seconde generazioni. ... 112

Conclusioni. ... 115

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Introduzione

Negli ultimi anni i paesi europei sono sempre più caratterizzati da società multietniche che pongono importanti sfide ai sistemi di welfare poiché, inevitabilmente, devono far fronte alla questione dell’integrazione dei nuovi arrivati. Le società odierne sono il prodotto di un’immigrazione che sta cambiando, sia negli obiettivi sia per quanto riguarda la sua struttura che vede crescere il fenomeno delle seconde generazioni. Queste ultime chiedono di ripensare le politiche di integrazione secondo un’ottica a lungo termine e proprio per questo la domanda principale al centro del dibattito politico attuale riguardante l’immigrazione è: se e come possono coesistere culture diverse all’interno di una stessa società. Le risposte a questa domanda da parte dei paesi europei non sono state univoche e spesso hanno rischiato di sfociare in conflitti sociali più o meno accesi, che hanno dato origine a sentimenti collettivi di diffidenza reciproca, frustrazione e nei casi più estremi di odio.

Nel presente lavoro ci concentreremo sui processi di integrazione delle seconde generazioni che, come si vedrà, spesso sono contraddistinti da numerose criticità che nascono principalmente dall’interazione con l’ambiente esterno e dall’atteggiamento che la società ospitante ha nei loro confronti. Nell’analisi proposta si tenterà di mettere in luce come il futuro delle seconde generazioni sia spesso condizionato principalmente dal contesto di accoglienza, dalla presenza di una comunità di connazionali, dalle caratteristiche e livello di integrazione delle famiglie, e dal rapporto con la scuola, in cui si è sviluppato quel processo definito da vari autori «canalizzazione formativa» (Boerchi, 2014; Bertozzi, 2015). Inoltre cercheremo di analizzare il ruolo che assume l’identità etnica nei vari contesti di socializzazione e di come essa può talvolta costituire un vincolo o una risorsa nell’interazione con l’ambiente esterno. L’analisi sarà condotta attraverso il paradigma teorico dell’assimilazione segmentata di Portes e Rumbaut (2001), che mette in luce l’incertezza dei percorsi di integrazione delle seconde generazioni, e di come l’integrazione non sia necessariamente subordinata a un processo di assimilazione culturale, ossia alla totale adesione alla cultura e agli stili di vita della società ospitante.

Nel primo capitolo sarà fatto un breve excursus storico dei processi di insediamento dei flussi migratori in Europa, che mette in risalto come da una migrazione di tipo temporaneo, cosiddetta anche «migrazione da lavoro», siamo passati a un’immigrazione di tipo permanente con la conseguente nascita delle seconde generazioni. Saranno fatte inoltre delle riflessioni preliminari sull’identità degli individui all’interno di una società multiculturale, sull’importanza del riconoscimento e valorizzazione delle differenze, e sulle diverse sfumature di significato che può assumere il termine “cultura”. Successivamente, attraverso i modelli teorici di Berry (1997) e Bourhis et al. (1997), sarà dato spazio alle strategie di acculturazione messe in atto dai

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migranti nei paesi ospitanti e degli esiti relazionali dati dall’interazione tra società ospitante e comunità di immigrati. Infine saranno analizzati i principali modelli di politiche per gli immigrati e, spostando l’attenzione sul contesto italiano, le conseguenze che l’attuale legge sulla concessione della cittadinanza ha sulle seconde generazioni.

Nel secondo capitolo sarà data, attraverso la classificazione di Rumbaut (1997), una definizione puntuale dell’espressione «seconde generazioni». Inoltre, seguendo il modello teorico dell’assimilazione segmentata, saranno analizzati i fattori che spingono le seconde generazioni ad aderire a subculture devianti, muovendoci dall’analisi comparata di Portes e Rumbaut (2001), riguardante i figli dei migranti europei e quelli «post-1965» (Bankston, 1998), detti anche «non bianchi» (Ibid.), nel contesto statunitense. Successivamente sarà trattato il rapporto tra integrazione economica e assimilazione culturale, in particolare come gli esiti che nascono da questa combinazione possono condizionare il futuro delle seconde generazioni, e di come queste ultime tendono a rifiutare «un’integrazione subalterna» (Ambrosini, 2004), che ha invece caratterizzato il processo di inserimento dei loro padri. Infine sarà introdotta la questione dell’identità etnica e di come influisce sul senso di appartenenza delle seconde generazioni, che costruiscono la loro identità all’incrocio di sistemi culturali diversi: quello della terra di origine e quello della società del paese ospitante.

Infine nel terzo e nel quarto capitolo, saranno analizzate le relazioni delle seconde generazioni che si instaurano all’interno delle principali agenzie di socializzazione: la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari. In particolare, per quanto riguarda la famiglia, approfondiremo l’impatto che il progetto migratorio ha sulle relazioni familiari, e in particolare sulle relazioni genitori-figli, concentrando l’attenzione sul momento del ricongiungimento. Inoltre sarà affrontato il tema dell’influenza del controllo genitoriale sul processo di integrazione delle seconde generazioni e come un suo indebolimento può favorire comportamenti anomici. Il quarto capitolo sarà dedicato ai fattori che influiscono sulle carriere scolastiche, spesso contraddistinte da ripetenze e abbandoni precoci, e ai rapporti con i pari. In particolare, per quanto riguarda la scuola, sarà messo l’accento sulle modalità di accesso degli studenti stranieri nelle scuole italiane, spesso inseriti in classi inferiori alla loro età, e alla tendenza degli insegnanti di suggerire agli studenti di origine straniera indirizzi di studio di tipo professionale, preparando il terreno a quella che Ambrosini (Ibid.) chiama «integrazione subalterna». Rispetto al gruppo dei pari, grazie a una ricerca di Caneva (2011), saranno analizzate le strategie identitarie messe in atto dalle seconde generazioni nell’interazione con i coetanei autoctoni e sarà osservato come l’identità etnica in alcuni casi possa assumere un carattere più rigido, alimentando processi di separazione tra “noi” e loro”, e come invece a volte assuma dei confini più fluidi che lasciano spazio a identità

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definite dall’autrice «metà e metà». Infine sarà proposta un’ipotesi di lettura delle strategie identitarie, individuate da Caneva (2011) attraverso il modello di Bourhis et al. (1997), con l’obiettivo di provare ad immaginare quali orientamenti di acculturazione potrebbero essere messe in atto dalle seconde generazioni, basandoci sui diversi tipi di identità individuate dall’autrice.

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Capitolo primo: da un’immigrazione temporanea a un’immigrazione

permanente, nuove sfide per i sistemi di welfare europei.

L’evoluzione dell’immigrazione in Europa.

Le seconde generazioni rappresentano un fenomeno recente che ha posto importanti sfide alle politiche sociali dei paesi europei, soprattutto a quelli di recente immigrazione come l’Italia. Possiamo considerate i processi di integrazione delle seconde generazioni lo specchio degli effetti delle politiche per gli immigrati e, come si vedrà, l’integrazione delle seconde generazioni non è un processo scontato, così come non lo è il significato che attribuiamo all’espressione “seconde generazioni”.

Prima di analizzare il fenomeno delle seconde generazioni è utile fare un breve excursus storico riguardante l’immigrazione che ha interessato il contesto europeo nel periodo che va dal Secondo dopoguerra fino ad oggi. In particolare risulta utile individuarne gli obiettivi e gli elementi che hanno contribuito a realizzare l’assetto della società attuale sotto il punto di vista della sua composizione demografica, e sulle conseguenze che essa comporta.

I flussi migratori che hanno interessato il periodo che va dagli anni Ottanta del Novecento fino ai nostri giorni, è profondamente diversa dall’immigrazione del secondo dopoguerra fino agli anni Settanta. Quest’ultima, soprattutto nei paesi come Germania Francia e Paesi Bassi, avveniva in una società industriale incentrata sulla grande fabbrica e le migrazioni erano un fenomeno spesso temporaneo, finalizzato a colmare i vuoti occupazionali dei paesi ospitanti e comunque condizionato dalle distanze e dagli ordinamenti giuridici dei paesi di destinazione. Allora, l’immigrazione era quasi totalmente maschile e l’integrazione sociale si costruiva principalmente nei luoghi di lavoro. In questo periodo, caratterizzato dall’industrializzazione, la domanda di lavoro riusciva ad assorbire l’offerta e quindi l’immigrato non costituiva un potenziale concorrente. Proprio perché si trattava di un’immigrazione da lavoro, i governi di alcuni dei paesi di destinazione, primo fra tutti la Germania, non desideravano un loro stanziamento definitivo e proprio per questo implementarono sistemi di accoglienza rigidi che limitavano la libertà di scelta sia riguardo al lavoro, sia riguardo al luogo in cui vivere (Ranci e Pavolini, 2015). Castles e Miller (2012) ci forniscono un’analisi dettagliata delle caratteristiche assunte dai flussi migratori in queste due fasi storiche, mettendo in risalto le loro criticità e operando una distinzione tra i lavoratori definiti “ospiti” provenienti dalle regioni periferiche dell’Europa verso L’Europa occidentale e i lavoratori provenienti dalle colonie del Regno Unito, Francia e Olanda verso le ex potenze coloniali. Partendo dai primi, gli autori affermano

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che i paesi europei più industrializzati reclutavano la manodopera che proveniva soprattutto dall’Europa meridionale, dall’Irlanda, dalla Finlandia e dall’Africa settentrionale. Il Regno Unito, dopo la Seconda guerra mondiale, introdusse 90.000 lavoratori provenienti dai campi profughi e dall’Italia, attraverso il progetto europeo dei lavoratori volontari (European Voluntary Workers) EVW. In realtà, nonostante il nome del progetto indicasse un sistema di lavoro spontaneo, dietro di esso si nascondeva un sistema coercitivo. Gli EVW erano costretti a svolgere lavori a bassa qualificazione e non avevano diritto al ricongiungimento familiare, inoltre in caso di violazione delle regole, c’era la possibilità di un rimpatrio. Risulta evidente che questo sistema era pensato non tanto per i lavoratori, che erano a costretti a lavorare lontani dalle famiglie, ma per l’industria. Tuttavia questo progetto durò solo dal 1946 fino al 1951 poiché risultò più fattibile impiegare lavoratori delle colonie, ma gli immigrati europei che entrarono nel Regno Unito tramite i permessi di lavoro tra il 1946 e il 1951 arrivarono a 100.000. Il Belgio, fino al 1963, impiegava prevalentemente lavoratori italiani nelle miniere di carbone e ferro o nelle acciaierie. In seguito fu concesso agli stranieri di migrare spontaneamente alla ricerca di un lavoro e di potersi insediare in modo permanente insieme ai propri familiari. Anche in Francia nel 1945 fu istituito l’Ufficio nazionale d’immigrazione (ONI) che, come i due sistemi precedenti, doveva far fronte alla scarsità di manodopera ma, a differenza dei primi due, era anche volto a colmare l’insufficienza demografica causata anche dalle perdite della guerra. Per questo, fu previsto l’insediamento permanente non solo del singolo lavoratore ma anche della sua famiglia e nel 1970 in Francia risiedevano 2 milioni di lavoratori stranieri e 690.000 familiari a carico. Molti dei lavoratori stranieri che provenivano dal Portogallo e dalla Spagna (all’epoca sotto dittatura) arrivavano come “turisti” e solo una volta giunti a destinazione cercavano un lavoro e regolarizzavano il proprio soggiorno. In Svizzera, dal 1945 al 1974, mentre la manodopera veniva reclutata direttamente dai datori di lavoro, l’ammissione e la residenza era regolata dal controllo governativo. Fino alla metà degli anni ’60, i lavoratori stagionali e i pendolari transfrontalieri non avevano autonomia di scelta poiché non potevano cambiare lavoro e non potevano richiedere il ricongiungimento familiare. Questa categoria di lavoratori erano denominati nei dati statistici svizzeri “lavoratori ospiti”. Tuttavia l’industria svizzera era subordinata alla disponibilità di lavoratori stranieri che andava a costituire un terzo della forza lavoro per questo, la Svizzera, non potette fare a meno di rivedere le norme sul ricongiungimento familiare e sul soggiorno permanente portando quindi alla realizzazione di un insediamento permanente.

Per quanto riguarda l’Italia, gli autori assimilano la migrazione interna che si verificò dal sud al nord nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova alla migrazione transnazionale dei paesi su

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citati, poiché nonostante fosse una migrazione interna aveva caratteristiche comuni ai movimenti di lavoratori stranieri negli altri paesi europei.

Sempre per quanto riguarda i lavoratori ospiti, Castles e Miller (2012) considerano il sistema di reclutamento della Repubblica Federale Tedesca (RFT) quello più organizzato. Tuttavia, anche se l’obiettivo era quello di favorire un soggiorno temporaneo attraverso le restrizioni nel mercato del lavoro e dei diritti civili, si verificò comunque la tendenza a soggiorni più lunghi che portarono all’insediamento a lungo termine fino al formarsi di vere e proprie comunità di stranieri. La RTF mantenne comunque la distinzione giuridica tra lo status di cittadino e di straniero come criterio per l’attribuzione di diritti politici e sociali che successivamente si propagò in tutta Europa.

Una svolta decisiva si ebbe con la libera circolazione dei lavoratori stranieri all’interno della Comunità Europea che entrò in vigore nel 1968 e che si rivelò favorevole soprattutto per gli italiani che emigravano verso la Germania, mentre nel nord Europa furono avvantaggiati i Finlandesi che si recavano in Svezia. Questa intesa portò alla creazione di un “mercato del lavoro europeo” che si concretizzò definitivamente nel 1993. Successivamente a seguito del livellamento dei salari e delle condizioni di vita all’interno della Comunità portò al ridimensionamento dei movimenti migratori mentre, al contempo, cresceva la migrazione proveniente dall’esterno della Comunità.

Come ci fanno notare gli autori la motivazione economica è un tratto comune ai flussi migratori appena descritti e il successivo insediamento ha portato a cambiare radicalmente la fisionomia dei paesi di destinazione con differenze marcate tra migranti (provenienti non solo da varie parti d’Europa ma, con il passare del tempo anche da Asia, Africa e America latina) e popolazione ricevente. Quest’ultimo aspetto era dovuto soprattutto alla limitazione dei diritti nei confronti dei lavoratori ospiti che non erano considerati cittadini e erano relegati a lavori poco qualificati nel settore dell’industria e dell’edilizia con una conseguente ridotta mobilità sociale. Tutto questo rese sempre più evidente il divario economico e sociale tra cittadini autoctoni e lavoratori stranieri portando alla creazione di ghetti urbani.

Un’altra tipologia di lavoratori caratterizzante la prima fase delle migrazioni internazionali sono quelli che provenivano dalle ex colonie, che risultarono molto importanti per il Regno Unito, Francia e Olanda. Il Regno Unito fu interessato soprattutto dai migranti provenienti dall’Irlanda che venivano impiegati nel settore dell’industria e nell’edilizia, molti di questi lavoratori successivamente si stabilirono in modo permanente a seguito dei ricongiungimenti familiari. L’immigrazione di lavoratori manuali derivava anche dai Caraibi, dal subcontinente indiano e

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9 dall’Africa che raggiunse il suo picco massimo1

negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie soprattutto alla richiesta di lavoratori da parte del sistema di trasporti londinese (London Transport) e all’immigrazione spontanea dovuta sempre alla domanda di lavoro. Tuttavia nel 1962, a causa della stagnazione economica che interessò il Regno Unito e con il Commonwealth Immigrant Act, furono introdotte importanti limitazioni e la migrazione dei lavoratori appartenenti alle ex colonie cessò quasi definitivamente. Nonostante questi provvedimenti continuarono i ricongiungimenti familiari fin tanto che il governo inglese introdusse l’Immigration Act nel 1971 e il Nationality Act del 1981. Tuttavia nel 1981 la popolazione proveniente dal New Commonwealth arrivò a 1,5 milioni rispetto ai 1,2 milioni di stranieri presenti nel 1971. La maggior parte degli immigrati afrocaraibici e asiatici arrivati prima del 1981 beneficiarono della cittadinanza formale anche se, di fatto, subirono una forte discriminazione a livello informale. Essi venivano impiegati in lavori poco qualificati perlopiù nell’industria e nei servizi e vivevano segregati in quartieri degradati.

Anche la Francia fu interessata da un’immigrazione spontanea proveniente dalle ex colonie perlopiù composta da algerini tunisini, marocchini e molti lavoratori stranieri provenivano anche dal Senegal, Mali e Mauritania. Inoltre, una quota dei lavoratori stranieri giunti in Francia proveniva anche dall’Europa meridionale. I lavoratori provenienti dalle ex colonie nonostante fossero, prima dell’indipendenza, cittadini francesi, una volta giunti una Francia ebbero un destino analogo ai lavoratori delle colonie inglesi, essi erano relegati a svolgere i lavori più umili e sottoposti a condizioni di lavoro degradanti. Negli anni Sessanta iniziarono a sorgere delle vere e proprie baraccopoli (bidonvilles) e intorno agli anni Settanta ci fu una vera e propria esplosione di violenza razziale fomentata dai gruppi politici di estrema destra.

Altro paese meta dei migranti coloniali fu l’Olanda che tra il 1945 e i primi anni Sessanta accolse fino a 300.000 migranti provenienti dalle Indie Orientali che godevano della cittadinanza olandese. In Olanda a differenze di Regno Unito e Francia non si verificarono fenomeni di razzismo nei confronti degli stranieri, ad eccezione dei moluccani che rifiutarono l’integrazione nella società olandese. Essi infatti, nel caso in cui la loro nazione avesse ottenuto l’indipendenza avrebbero voluto tornare nel loro paese e quindi rimasero emarginati rispetto al resto della società olandese e alla fine degli anni Settanta si verificarono rivolte violente. Altro flusso migratorio che interessò l’Olanda dopo il 1965, fu quello che proveniva dal territorio caraibico del Suriname che raggiunse il suo apice nel 1975, anno in cui il Suriname raggiunse l’indipendenza e molti surinamesi persero la cittadinanza olandese, eccetto quelli che già vivevano in Olanda.

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Castles e Miller (2012) individuano, a partire dagli anni ’70 una seconda fase migratoria ti tipo internazionale che toccò la sua massima espansione alla fine del XX e inizio del XXI secolo. In questo periodo i paesi industrializzati misero un freno al flusso di lavoratori ospiti per far fronte alla nuova economia globale. Da questo momento ebbe inizio l’epoca della globalizzazione di cui i due autori individuano dei caratteri distintivi. Prima di tutto si verificarono dei cambiamenti nei modelli di investimento globale, i paesi più sviluppati crearono industrie manifatturiere in aree fino a quel momento sottosviluppate e negli anni Novanta nacquero nuovi centri di dinamismo economico negli stati petroliferi del Golfo e in alcune parti di Asia e America Latina. Altro fenomeno che si verificò fu la rivoluzione microelettronica che ridusse, almeno nei paesi del Nord, la necessità di manodopera nel settore industriale con la conseguente scomparsa delle tradizionali occupazioni manuali qualificate nei paesi più sviluppati. Si espanse il settore dei servizi che richiedeva lavoratori altamente qualificati e non; inoltre ci fu la crescita del settore informale nelle economie dei paesi sviluppati. Soprattutto quest’ultimo settore portò alla precarizzazione del lavoro con la crescita del lavoro part-time e condizioni di lavoro con meno garanzie. Inoltre si differenziò sempre di più la forza lavoro in base al genere, età ed etnia che portò le categorie più fragili come donne, giovani e membri delle minoranze a trovare lavoro nel settore informale, forzando il sistema del pensionamento anticipato dei lavoratori con abilità ormai non più richieste. Queste trasformazioni del sistema economico hanno avuto risonanze significative in Africa, Asia e America Latina. In molti luoghi abbiamo assistito a una rapida industrializzazione con un conseguente cambiamento sociale mentre, in altre zone, non si è verificato un altrettanto sviluppo economico. In molti paesi la rapida crescita demografica e al contempo l’inurbamento incontrollato e lo sfruttamento delle risorse naturali, ha portato a condizioni di vita peggiori e alla disuguaglianza sociale e economica con l’instaurarsi di minoranze etniche.

In questo periodo anche nell’Europa occidentale i flussi migratori dei cosiddetti lavoratori ospiti e dei migranti coloniali subirono un arresto. Tuttavia la tendenza generale dei migranti coloniali di Regno Unito, Francia e Olanda era quella del ricongiungimento familiare e di conseguenza a un insediamento permanente. Questo processo fece emergere con il tempo il fenomeno delle seconde e terze generazioni nate da genitori stranieri nell’Europa occidentale con il conseguente sviluppo di comunità etniche ben distinte dalla cultura dominante (Castles e Miller,2012). A differenza dei loro padri, le seconde generazioni si trovano ad affrontare nuove sfide a causa soprattutto della precarizzazione dell’economia che rende molto più complesso il loro processo di integrazione che talvolta tende a trasformarsi in processi di esclusione.

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Come si è appena visto, l’idea iniziale dei paesi che avevano accolto i migranti cosiddetti “lavoratori ospiti” era legata esclusivamente allo sviluppo dell’economia e doveva quindi essere un’immigrazione di tipo temporaneo. Quando il governo tedesco, così come altri governi, mise fine alle assunzioni, l’aspettativa era che i lavoratori ospiti tornassero nei loro paesi di origine. Di fatto però, rimpatriarono solo i migranti che provenivano da paesi più industrializzati in cui si prefiguravano comunque delle opportunità lavorative, mentre quelli che provenivano dall’Africa settentrionale e dalla Turchia, quindi paesi con meno opportunità occupazionali, decisero di rimanere. Questi ultimi subirono un processo di marginalizzazione socio-economica, rimanendo vittime spesso di episodi di discriminazione e razzismo. Tuttavia, nonostante i governi tentassero di prevenire i ricongiungimenti familiari, in molti paesi e grazie soprattutto alle corti di giustizia che ostacolarono questo sistema furono messe in atto delle politiche volte a tutelare la famiglia. Possiamo affermare, che nonostante i tentativi volti a bloccare lo stanziamento permanente degli immigrati, il processo di insediamento si dimostrò inesorabile e il volto della popolazione dell’Europa occidentale cambiò. Infatti in Germania, mentre gli uomini stranieri diminuirono leggermente tra il 1974 e il 1981 al contrario, il numero delle donne straniere aumentò del 12% così come aumentò del 52% il numero dei giovani fino ai 15 anni.

Negli anni Ottanta e Novanta, come descrivono gli autori, si assistette a un’inversione di tendenza: paesi come Italia, Spagna e Portogallo, che fino ad allora era stati esclusivamente paesi di emigrazione diventarono anche paesi di immigrazione, ricevendo manodopera nordafricana, sudamericana e asiatica e successivamente anche dall’Europa dell’est, che veniva impiegata in lavori meno qualificati. In questo periodo, una serie di eventi storici come la caduta del muro di Berlino nel 1989, lo sgretolarsi dell’Unione Sovietica, degli stati socialisti dell’est e la fine della Guerra Fredda, fecero crollare le barriere che avevano limitato fino a quel momento i flussi migratori. Al contempo altra variabile che contribuì a questo cambiamento fu la globalizzazione economica. I migranti non erano più soltanto lavoratori manuali non qualificati e richiedenti di asilo ma anche lavoratori altamente qualificati alla ricerca di migliori opportunità lavorative. In questo periodo, contestualmente, si sviluppò l’idea che gli stranieri fossero ospiti indesiderati che avrebbero messo in crisi il sistema previdenziale europeo e peggiorato gli standard di vita della popolazione infatti, proprio in questo periodo, i policy makers aumentarono la cooperazione europea per il controllo delle frontiere.

Nonostante l’emanazione continua di leggi restrittive, all’inizio del nuovo millennio si è verificato una repentino aumento dei flussi migratori provocato dall’avanzamento della globalizzazione economica e dal conseguente aumento delle opportunità lavorative per i

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lavoratori più qualificati, escludendo invece quelli non qualificati. Per quanto riguarda quest’ultima categoria, essi venivano assunti solo temporaneamente per lavori stagionali. Tuttavia, con il passare del tempo, grazie all’espansione dell’Unione Europea, è diventato più semplice spostarsi per tutte le categorie di migranti. Oggi la maggior parte degli afflussi migratori regolari arrivano tramite il ricongiungimento familiare che ha raggiunto il suo apice nel 2004 nella maggior parte dei paesi europei. Tuttavia rimane sempre centrale la questione dell’immigrazione irregolare e di conseguenza del lavoro irregolare. La prima è incentivata soprattutto dalla richiesta di manodopera non qualificata da parte del mercato del lavoro dei paesi di destinazione2, in questa categoria rientrano anche le collaboratrici domestiche che costituiscono una risorsa importante per le famiglie.

Grazie al contributo degli autori, abbiamo visto come il tema dell’immigrazione si è evoluto nel tempo, soprattutto riguardo a come essa è stata percepita da parte dei paesi ospitanti: finché era destinata esclusivamente a colmare i vuoti occupazionali, essa veniva tollerata; quando invece ha iniziato a stabilizzarsi, i paesi ospitanti hanno iniziato a manifestare una crescente riluttanza. Tuttavia, come ci ricordano Castles e Miller (Ibid.), è bene sottolineare che oggi i paesi dell’Unione Europea hanno un tasso di natalità molto basso, di conseguenza, quasi tutta la crescita demografica deriva dall’immigrazione.

Inoltre, a prescindere dalle ideologie, i paesi occidentali sono inevitabilmente obbligati a implementare delle politiche per gli immigrati3 comprendenti non solo il mercato del lavoro, ma anche le politiche abitative e educative. Questo perché la struttura della popolazione immigrata, dovuta soprattutto ai ricongiungimenti famigliari, ha fatto sì che oggi ci troviamo di fronte a uno scenario completamente diverso da quello precedente, uno scenario all’interno del quale troviamo il fenomeno delle seconde generazioni.. Le politiche per gli immigrati si differenziano tra di loro poiché alcune di esse affrontano la questione con un’ottica più inclusiva altre, invece, assumono un’ottica più escludente o comunque seguendo un approccio residuale. Inoltre, un altro aspetto che rende ancora più problematico un inquadramento dei vari orientamenti politici e delle misure messe in atto è l’incongruenza fra le politiche professate a livello nazionale e politiche adottate a livello locale (Ambrosini, 2014). I provvedimenti messi in atto dalle politiche più escludenti, spesso sono giustificati con il fatto che determinate culture non possono convivere, poiché hanno valori diversi e spesso fanno appello alla questione della sicurezza

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Il lavoro sommerso è una caratteristica che contraddistingue molto di più i paesi del sud Europa rispetto a quelli del nord.

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Ranci e Pavolini distinguono le politiche di immigrazione dalle politiche per gli immigrati. Le prime fanno riferimento alla modalità di accesso nel Paese di accoglienza e in generale alla regolazione dell’immigrazione, mentre le seconde invece si riferiscono all’integrazione socioculturale. È chiaro che le prime si riflettono necessariamente sulle seconde.

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sociale e alle limitate risorse del sistema di welfare che non bastano per sostenere anche i nuovi arrivati, facendo riferimento a una sorta di “diritto di precedenza” per i cittadini autoctoni. In generale ci si interroga se per evitare il conflitto e favorire l’integrazione, sia necessario mirare a un’omogeneità sociale affievolendo le differenze, quindi adottando un’ottica assimilazionista, o se invece è necessario tenere separate culture considerate profondamente diverse o addirittura non ammetterle nel proprio territorio nazionale. Come sostengono Castles e Miller (2012), la percezione a livello sociale della diversità dipende in gran parte dal significato che popolazioni e paesi riceventi le assegnano. Naturalmente, assimilazionismo e esclusione, sono i due poli opposti di un continuum all’interno del quale i paesi europei si muovono adottando politiche differenti e che sono dipendenti alle diverse interpretazioni del concetto di “integrazione”.

Identità, Cultura e integrazione: l’incontro tra il migrante e il paese ospitante.

Oggi la questione dell’integrazione è diventato un argomento ricorrente, soprattutto quando parliamo di migranti. Alcuni, come accennato in precedenza, sostengono che l’integrazione tra culture differenti sia possibile attraverso il dialogo e il rispetto delle specificità culturali, altri invece sostengono che l’integrazione sia possibile soltanto attraverso l’annullamento delle differenze o addirittura l’esclusione. Queste tendenze sociali spesso si traducono in politiche per gli immigrati che discendono dal significato che la società e i governi politici attribuiscono al concetto di identità e cultura e che spesso sono influenzati da meccanismi di stigmatizzazione. La questione dell’identità nella società multiculturale

Al fine di comprendere meglio le dinamiche sottostanti al conflitto che può instaurarsi dalla convivenza di gruppi culturali differenti, non possiamo non analizzare il concetto di identità, definendo che cosa è e come si forma, mettendo in risalto la sua componente relazionale. Pintus (2008), partendo dall’aspetto psicologico dell’individuo definisce l’identità:

da un lato, come l’insieme organizzato delle conoscenze, dei sentimenti, dei ricordi, delle rappresentazioni e dei progetti che si riferiscono all’individuo, dall’altro, come il sentimento di continuità di sé nello spazio e nel tempo (Ibid. : 35).

L’autore per sottolineare la natura dialogica dell’identità, prende in rassegna alcuni autori tra cui William James (1890, cit. in Pintus, 2008), il quale afferma che l’identità personale si realizza attraverso la relazione intima che si struttura tra l’Io, corrispondente al soggetto consapevole che riflette su di sé e sulla realtà, e il Me, corrispondente alla parte del Sé individuale conosciuta dall’Io (il modo in cui l’individuo si vede). Secondo William James è proprio nella relazione tra l’Io e il Me che vediamo il tessuto culturale in cui l’individuo è inserito.

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Anche Mead (1972,cit. in Pintus, 2008), sostiene che la struttura del Sé non è data alla nascita, ma esso si costruisce attraverso lo sviluppo di due abilità di natura relazionale che consistono nel produrre e rispondere ai simboli e assumendo gli atteggiamenti degli altri. L’individuo, nell’analisi di Mead (Ibid.), ha esperienza di se stesso attraverso lo sguardo e gli atteggiamenti che hanno gli altri nei suoi confronti.

Taylor (1998, cit. in Pintus, 2008), descrivendo l’identità, afferma che essa sia il prodotto del riconoscimento o mancato riconoscimento altrui, quindi nel caso in cui un individuo non venga riconosciuto o venga sminuito, potrebbero verificarsi delle ripercussioni negative sull’individuo. Proprio per questo asserisce che l’identità non è un processo isolato ma dialogico e negoziale e che, in alcuni casi, può diventare problematico. Taylor (Ibid.) afferma che la domanda di riconoscimento scaturisce dal nesso tra riconoscimento e identità, dove quest’ultima indica la visione che un individuo ha di sé e delle proprie caratteristiche che lo definiscono un essere umano. Per Taylor (Ibid.) l’identità umana è plasmata dal riconoscimento/mancato riconoscimento o, ancora, dal misconoscimento da parte delle altre persone. Dalle ultime due ipotesi, sottolinea l’autore, può nascere un danno reale per le persone e comprometterne l’autonomia in favore di un’oppressione che imprigiona la persona in un mondo distorto. Per l’autore il misconoscimento non è soltanto la mancanza di qualcosa di dovuto, ma è una ferita dolorosa che può essere paralizzante. Di conseguenza, il riconoscimento diventa un bisogno umano e non una semplice cortesia. Taylor (Ibid.), in armonia con gli altri autori che attribuiscono il carattere dialogico all’identità, ribadisce che il fatto di essere soli a scoprire la nostra identità, non significa che essa si crei in maniera isolata. L’identità, secondo il filosofo canadese, nasce dal dialogo con gli “altri significativi” che ci attribuiscono delle caratteristiche e, nella sua analisi, fa un excursus storico e descrive in che modo il concetto di identità sia diventato così importante nelle società democratiche. Egli individua due cambiamenti che sono intervenuti nel corso del tempo e che sembrano essere stati cruciali per la definizione odierna di identità.

Il primo cambiamento è stato il crollo delle gerarchie sociali, che rappresentavano la base dell’onore strettamente collegato al concetto di disuguaglianza che caratterizzava l’ancien régime. In questo caso l’onore non era riconosciuto a tutti ma era subordinato alla posizione assunta nella gerarchia sociale. Questa nozione di onore, nelle società moderne è stata soppiantata dal principio di dignità. Quest’ultimo ha fatto sì che forme di eguale riconoscimento diventassero fondamenti per le culture democratiche. Quindi l’autore fa un’associazione profonda tra l’avvento della democrazia e la politica del riconoscimento, aggiungendo che quest’ultima ha subito varie evoluzioni e che oggi viene intesa come richiesta di parità tra

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culture e generi. Per quanto riguarda l’importanza del riconoscimento, secondo l’autore, essa va di pari passo con la visione di identità individuale del Settecento. Il filosofo e politico canadese, parla di identità individualizzata particolare e scoperta in noi stessi. Questa nozione, secondo l’autore, nasce insieme all’ideale di autenticità che nasce con l’idea settecentesca che gli esseri umani siano dotati di un senso morale e che sappiano scindere il giusto dall’ingiusto. Taylor (1992, cit. in Pintus, 2008) afferma che il miglior contributo alla sviluppo dell’autenticità sia stato dato da Herder (1913, cit. in Pintus, 2008). Egli propose che ogni uomo ha un modo originale di essere uomo e che questa originalità non appartiene solo al singolo individuo ma anche ai diversi popoli, quindi anche i popoli sono tutti a loro modo originali. Ritornando al concetto di dignità, Taylor (Ibid.) sottolinea che nonostante anche oggi persista il fatto di definire le persone a seconda dei loro ruoli sociali, l’ideale di autenticità è indipendente da questi. Quindi l’essere autentici non è una caratteristica che deriva dal ruolo sociale o meglio, non deriva socialmente, ma si genera a livello personale. L’autore assumendo che nel tempo siamo passati dal concetto di onore a quello di dignità, e che il riconoscimento è associato a quello di originalità o autenticità arriva alla conclusione che il riconoscimento si può verificare sia nella sfera privata che nella sfera pubblica. Nella sfera privata la formazione dell’identità deriva da un dialogo con gli altri significativi e nella sfera pubblica deriva dal fatto che l’obiettivo è quello di evitare che esistano cittadini di prima e di seconda classe.

La seconda trasformazione descritta da Taylor (Ibid.) invece, riguarda il concetto di identità così come è inteso nella società moderna che, come egli dice, ha dato origine a una politica della differenza. Secondo la politica della differenza, ognuno dovrebbe essere riconosciuto per la sua identità unica e irripetibile. Quindi in questo passaggio vediamo come l’autore utilizza i termini differenza e riconoscimento in maniera funzionale tra loro, diretti a uno stesso scopo. Riconoscere la differenza per l’autore diventa essenziale al fine di evitare che alcune differenze siano assimilate da gruppi maggioritari e è fondamentale per preservare l’autenticità di alcuni gruppi. La politica della differenza in questo modo è in armonia con il principio della dignità universale, poiché significa riconoscere le specificità e valorizzarle per non sopprimere le identità.

In linea con Taylor (1992) troviamo Cooley (1902, cit. in Emiliani e Zani, 1998 : 100 ), che descrive analiticamente questo processo di riconoscimento. Cooley (ibid.), afferma che una delle principali modalità che utilizziamo per conoscere aspetti di noi stessi è il considerare le reazioni che gli altri hanno nei nostri confronti. Ecco che l’autore chiama questo concetto “sé autoriflettente”, per descrivere come le persone comprendono se stessi e osservano cosa fanno e pensano gli altri nei loro confronti. Le altre persone sono lo specchio in cui ci riflettiamo e

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questo può influenzare profondamente la visione che abbiamo di noi stessi, favorendo delle condotte piuttosto che altre e andando a colpire positivamente o negativamente la nostra autostima.

Tajfel (1981, cit. in Emiliani e Zani, 1998 : 129), fa una distinzione interessante tra identità personale e identità sociale, o meglio, li definisce due poli opposti di un continuum in cui si definiscono le varie modalità attraverso le quali l’identità si definisce. Al primo estremo i sentimenti di identità si collegano ad un’esperienza di riflessione sulla propria storia, attese, speranze e progetti a cui si associano azioni fondate su esigenze di autonomia e coerenza personale. L’identità sociale, al contrario, è influenzata dalla consapevolezza di appartenere ad un determinato gruppo e di vivere un rapporto con i suoi membri. Per questo le sue azioni dipendono dall’identificazione con un determinato gruppo e l’individuo si percepisce simile alle persone che appartengono al suo gruppo, sviluppando così un sentimento del “noi”, ma allo stesso tempo differenziandosi rispetto ai membri degli altri gruppi.

Anche Pintus (2008) è concorde con il pensiero di Tajfel (Ibid.) poiché sostiene che l’identità collettiva di un gruppo si definisce attraverso un confronto interno tra i vari membri e esterno, con i diversi gruppi che compongono la società e il riconoscimento delle specificità culturali equivale a una richiesta di rispetto per la propria identità, che consente agli individui di conquistare una vera autonomia (Gianni, 1997, cit. in Pintus, 2008).

Da questi contributi possiamo vedere che ormai gli studiosi concordano sul fatto che l’identità sia il frutto di un processo dialogico di confronto e che un mancato riconoscimento da parte dell’altro può far nascere sentimenti di frustrazione che possono portare a conflitti sia interni che esterni. Tuttavia, nonostante il fatto che nelle società democratiche moderne si sia affermato il principio del riconoscimento delle differenze e della dignità, ancora oggi si intravedono tracce del modello basato sulle gerarchie sociali che distingue cittadini di prima classe e seconda classe, come nel caso del confronti tra cittadini autoctoni e migranti.

Moro (2005), citando Strauss (1961) assegna particolare importanza al riconoscimento delle differenze tra culture, poiché non riconoscere queste differenze significa creare un terreno fertile per il razzismo. Possiamo vedere come confronto, riconoscimento e autonomia siano concetti tra loro dipendenti che si intrecciano con la questione dell’appartenenza

Cesareo (Ibid.), in coerenza con il pensiero di Sen (2006), afferma che il rispetto della persona arriva prima del rispetto della sua cultura poiché, ognuno di noi, pensa agisce e sceglie a quali gruppi (culturali, religiosi, politici…) appartenere.

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Sen (2006), afferma che la tutela dei diritti fondamentali della persona hanno a che fare con la sua identità individuale, in quanto soggetto unico e non solamente “appartenente a”. Essa si costruisce venendo a contatto con diversi contesti sociali e sistemi di appartenenza e quindi non è ascrivibile al solo gruppo comunitario. Per l’autore l’uomo non può essere considerato unicamente come il risultato della propria appartenenza comunitaria, cosa che invece affermano i sostenitori della filosofia comunitarista. Questi ultimi affermano che l’identità di un individuo sia il risultato primariamente di un’affiliazione unica, quella del proprio gruppo comunitario. Quest’ultimo determina le nostre scelte e quindi l’individuo non può scegliere con chi identificarsi ma deve semplicemente “scoprire” la propria identità che è già data dal suo gruppo culturale. Sen si discosta da questa tesi e afferma invece che la comunità di appartenenza sicuramente influisce sulla costruzione di identità dell’individuo e limita le nostre scelte ma, al tempo stesso, afferma anche che ciascuno di noi ha un’identità plurima, risultato di diverse affiliazioni. Il nostro comportamento non è determinato soltanto dalla propria cultura ma è l’esito anche del genere, della professione, del proprio gruppo politico ed altri gruppi. Secondo Sen l’uomo attribuirà diversi valori alle proprie appartenenze e sceglierà quelle che per lui hanno più importanza in base agli elementi contingenti4. Inoltre afferma che non tutte le identità sono durevoli nel tempo, ad esempio tutti noi non siamo teenager o adulti tutta la vita. Per Sen quindi le classificazioni sono date dall’esterno in modo arbitrario e queste possono più o meno dare origine a un sentimento d’identità condivisa. Un'altra considerazione importante fatta dall’autore è che la cultura di un gruppo etnico non è mai omogenea al proprio interno.

Quindi partendo dalla definizione di Sen (2006), l’identità dell’individuo è mutevole nel tempo poiché è il risultato di un processo di costruzione sociale in continuo movimento, all’interno del quale ciascuno di noi fa delle scelte e dà un valore diverso alle proprie appartenenze, scegliendo quelle considerate più rilevanti a seconda delle circostanze. Inoltre Sen (Ibid.) afferma che le categorie sono elementi fittizi attribuiti dall’esterno e, se da un lato possono far crescere la coesione all’interno di un gruppo, dall’altro rischiano di sfociare in violenza nel rapporto con gli altri gruppi. L’autore sembra suggerirci che per risolvere la questione della convivenza tra culture diverse o meglio dell’ integrazione, sia necessario partire dall’individuo e partire dal presupposto che egli è il risultato di un sistema di appartenenze complesso non riducibile ad un’unica categoria e che egli ragiona e sceglie le proprie appartenenze.

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A tal proposito può essere utile fare riferimento a una ricerca condotta da Deaux e colleghi (1995, cit. in Emiliani e Zani, 1998 : 132) riguardante i tipi di identificazione sociale. Egli chiese ad un campione di soggetti di classificare 64 tipi di identità in base alle loro caratteristiche. Il campione dei soggetti divise le 64 identità in cinque macro-categorie di identità sociale relative alle relazioni (moglie, nonno, teenager), hobby e occupazioni (musicista, psicologo), alle affiliazioni politiche, all’etnicità, religione e alla stigmatizzazione.

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18 Cultura e coesione sociale.

Al fine di comprendere meglio il concetto di integrazione, è bene soffermarsi sul significato del termine cultura e sulle sue diverse interpretazioni, dalle quali derivano diversi modi di approcciarsi alle società multietniche. Questo termine, come abbiamo detto, può assumere diverse accezioni e, a seconda dei contesti, può assumere una valenza preminentemente positiva o negativa. Pintus (2008), nell’analizzare l’utilizzo del termine, fa notare come in origine esso indicasse il processo di formazione della personalità attraverso l’apprendimento,. Facendo riferimento all’apprendimento, l’autore sottolinea che un individuo si definisce “colto” in quanto capace di assorbire conoscenze e valori condivisi traducendoli in qualità personali. Mantovani (2006), come citato da Pintus (ibid. : 15-6) riconduce tutte le definizioni possibili di cultura a due concezioni tra loro contrastanti: la concezione “reificata” di cultura e la concezione “narrativa” di cultura. La prima concezione, vede la cultura come un “oggetto”, caratteristica distintiva dei gruppi e, come suggerisce il termine “reificato”, in questo caso il concetto di cultura assume delle connotazioni rigide, che semplifica la distinzione tra gruppi e immutabile nel tempo attraverso un processo di stereotipizzazione. Come afferma l’autore, questa concezione predomina quando si fa riferimento ai diritti, al riconoscimento delle differenze culturali, ai conflitti tra gruppi e al razzismo. Nella concezione “narrativa”, a differenza della prima, il concetto di cultura diventa più dinamico, non immutabile nel tempo e le società vengono intese come dei sistemi aperti di relazioni, secondo un’ottica più complessa. Tuttavia, come afferma Pintus (2008), le due interpretazioni non si escludono a vicenda, ma coesistono e sono interdipendenti tra loro poiché la cultura possiede una doppia natura: una interna e una esterna. La prima si manifesta a un livello intrapsichico nella mente degli individui, la seconda si concretizza negli artefatti ideali, nei valori e nelle pratiche condivise della comunità di appartenenza. Possiamo tradurre il concetto di doppia natura dell’autore dicendo che quella interna appartiene alla sfera privata e quella esterna alla vita pubblica. Partendo dall’analisi di Pintus (ibid), interrogandoci sulla questione della natura del concetto di “cultura” e quindi se essa abbia un’essenza statica o dinamica e di come essa influenzi il comportamento degli individui, può essere importante fare riferimento a Sen (2006). L’autore analizzando il concetto di “cultura” sembra abbracciare l’approccio della cultura “narrativa”. Egli afferma che il nostro retroterra culturale influenza il nostro comportamento e sostiene che la cultura non è un oggetto statico immutabile nel tempo. Sen (ibid. : 113) asserisce che per parlare di identità culturali e di come esse influenzino la nostra vita, occorra fare delle considerazioni preliminari che sintetizza in quattro punti:

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 la cultura non è l’unico elemento che governa la nostra vita, ma ci sono altri elementi come la razza, la classe, il genere, etc.. che possono influenzare in maniera determinante il nostro percorso.

 La cultura non è omogenea ma, al suo interno, possiamo trovare diverse sfumature e diverse interpretazioni di essa così come diverse relazioni e sottogruppi.

 La cultura muta nel tempo e quindi ogni determinismo culturale rischia di dare una visione distorta della realtà.

 La cultura interagisce con altri sistemi di percezione e azione sociale, per questo è forviante considerarla come un sistema a se stante, completamente isolato.

Come abbiamo appena visto l’autore nonostante affermi che la cultura influenza il nostro comportamento essa non costituisce l’unico elemento che lo influenza, ma ci sono altri elementi con i quali essa interagisce e per questo si modifica nel tempo.

Infine l’autore conclude sottolineando l’importanza di distinguere tra l’idea di libertà culturale, intesa come la facoltà di modificare l’interpretazione e l’approccio alla propria cultura e la conservazione culturale che favorisce la perpetuazione di stili di vita tradizionali indipendentemente dal fatto di trovarsi o meno nel paese di origine. E’ proprio quest’ultima idea che è diventata centrale nel dibattito attorno alla questione del multiculturalismo; oggi ci si interroga se valori e principi appartenenti a differenti culture possano coesistere ma, come sembra suggerirci l’autore, in questa riflessione bisogna tenere conto anche della libertà culturale dell’individuo, quindi dell’approccio e dell’interpretazione che pone in essere rispetto alla propria cultura.

Gli autori sopracitati hanno messo in luce che non è tanto la cultura in sé ad influenzare i comportamenti e le relazioni sociali, ma piuttosto è il modo in cui ci approcciamo ad essa e al significato che le attribuiamo. Abbiamo visto che il termine cultura può essere utilizzato in maniera strumentale per agevolare processi di stereotipizzazione negativi, subordinando totalmente il comportamento degli individui all’appartenenza culturale e quindi non prendendo in considerazione altri fattori che, come osserva Sen (2006), sono altrettanto importanti nell’influenzare il comportamento degli individui. Proprio per questo gli autori sembrano suggerirci che per parlare di cultura e di relazioni interculturali occorra adottare quello che Pintus (2008) definisce approccio narrativo. Come avviamo visto, secondo l’approccio narrativo, la cultura non è immutabile nel tempo ma è modificabile poiché essa si costruisce

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nella società intesa come sistema aperto di relazioni in cui i contatti interculturali producono continui cambiamenti negli individui e nei gruppi.

Percorsi di integrazione.

Strettamente collegato al concetto di cultura abbiamo il concetto di integrazione. L’integrazione è un concetto multidimensionale che chiama in causa l’identità dell’individuo, i diritti, i doveri, l’accettazione e il riconoscimento sociale. Questo concetto assume caratteri diversi a seconda dell’ottica che utilizziamo per analizzarlo. Tale termine, secondo alcuni studiosi come Park e Burgess (1921, cit. in Pintus, 2008), spesso è stato assorbito dal concetto di “assimilazione” inteso come fusione di persone e gruppi, dando vita a un processo di omologazione culturale in cui i gruppi maggioritari assimilano i gruppi minoritari. Al di là delle diverse interpretazioni, Pintus (Ibid.)sottolinea come nelle scienze sociali il concetto di integrazione rimanda alla questione di come “tenere insieme” diversi gruppi della società e di come farli convivere tra di loro al fine di evitare la conflittualità. In generale le variabili che influiscono nel processo di integrazione personale e sociale dei migranti sono le differenze culturali che esistono tra il sistema culturale dal quale provengono e quello del paese di accoglienza. Le differenze tra i due sistemi culturali spesso possono essere ampie, per questo i processi di integrazione possono risultare in alcuni casi estremamente difficoltosi. Tuttavia, il successo del percorso di integrazione non è subordinato esclusivamente alle differenze culturali, ma dipende anche dall’approccio e dalle strategie che i migranti adottano nel cercare di conciliare queste differenze (Gozzoli e Regalia, 2005), e dall’atteggiamento della società di accoglienza nei confronti dei migranti (Ambrosini, 2014) . Inoltre, altro elemento da tenere in considerazione è che i diversi sistemi culturali non sono impermeabili ma, inevitabilmente, si influenzano tra loro e possono offrire opportunità o dettare vincoli al processo di integrazione (Gozzoli e Regalia, 2005). Muovendoci dalle considerazioni fatte dagli autori, possiamo dire che per affrontare il tema dell’ integrazione è necessario osservarlo da due angolazioni: quella del migrante e quella del paese di accoglienza.

Partendo dal punto di vista dei migranti, Berry (1997; 2001) ci fornisce uno modello teorico (Fig.1)che individua le strategie di acculturazione dei migranti una volta giunti nel paese di accoglienza. Secondo l’autore gli atteggiamenti messi in atto dai migranti sono intenzionali e scaturiscono da due domande principali che i nuovi arrivati si pongono: fino a che punto le persone desiderano mantenere (o rinunciare)il loro patrimonio culturale e in che misura le persone desiderano avere (o evitare) contatti con altri gruppi. Le risposte a questi interrogativi, come precisa l’autore, possono essere varie e non sono suscettibili solo all’intenzionalità del nuovo arrivato ma, come abbiamo già accennato, dipende anche dai vincoli e dalle opportunità

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del paese ospitante. Più precisamente l’autore descrive quattro percorsi di integrazione, o strategie di acculturazione, ed esse oscillano da un’adesione completa al nuovo contesto culturale a un’integrazione che invece tiene insieme la cultura di origine e la cultura del paese ospite.

Desideri avere relazioni con altri gruppi?

Desideri mantenere il tuo patrimonio culturale?

si no

si integrazione assimilazione

no separazione marginalizzazione

Fig.1. Strategie di acculturazione da parte dei migranti (Berry, 1997 : 10 )

Nel modello detto di Assimilazione, l’individuo o il gruppo aderisce completamente ai modelli comportamentali e ai valori della società ospite e al contempo abbandona parzialmente o totalmente la propria cultura di origine. Questa strategia di adattamento, secondo Gozzoli e Regalia (2005), può essere messa in atto da migranti che non riescono a sostenere il dolore provocato dalla separazione dal contesto di origine e, per questo, accettano acriticamente le norme e i modelli di comportamento del nuovo contesto. Questa strategia che possiamo definire di coping, viene spesso messa in atto dalle seconde generazioni, soprattutto nell’età dell’adolescenza, poiché mettono in atto strategie identitarie che tendono a estremizzare alcuni tratti della cultura dominante.

Nel modello di Separazione, gli immigrati desiderano mantenere il loro patrimonio culturale e allo stesso tempo cercano di evitare contatti con persone e gruppi che fanno parte della cultura dominante. Questo tipo di strategie si riscontra più facilmente nella fase iniziale di arrivo nel paese ospitante, e è volta a rafforzare il senso di identità che viene messo in crisi a causa della separazione dal paese di origine. Il forte ancoraggio alle proprie radici può comportare un processo di autoesclusione dal nuovo contesto culturale che può compromettere il percorso di integrazione. Questa sorta di resistenza culturale deriva dal desiderio di rimanere separati dalla cultura maggioritaria senza subire alcun tipo di influenza da parte di essa.

Il modello di Marginalizzazione, secondo l’autore, mette a repentaglio il benessere psicologico dei migranti e la possibilità di costruire un’identità capace di affrontare le fratture identitarie

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provocate dall’esperienza migratoria. Questo è determinato dal fatto che in questo caso il migrante rompe i legami sia con la cultura di origine sia con la cultura dominante del paese ospitante.

Infine, l’ultimo modello, detto di Integrazione, sembrerebbe quello più auspicabile ma anche quello più complesso, poiché in questo caso c’è interesse a mantenere il proprio patrimonio culturale ma, allo stesso tempo, anche a partecipare come parte integrante della società più ampia. Questa strategia tende a trovare dei punti di incontro tra le due culture cercando di renderle compatibili (Gozzoli e Regalia, 2005).

Berry e Kalin (1995, cit. in Berry, 2001: 619), affermano che la strategia di integrazione può essere perseguita soltanto in società multiculturali, in cui sono radicate alcune precondizioni psicologiche tra cui: la diffusa accettazione del valore di una società multiculturalista, bassi livelli di pregiudizio e discriminazione, atteggiamenti reciproci positivi tra gruppi con differenti patrimoni culturali e un senso di identificazione con la società più ampia da parte di tutti gli individui e gruppi.

Come suggeriscono Gozzoli e Regalia (2005) l’ultimo modello, nonostante comporti maggiori benefici, allo stesso tempo comporta anche maggiori costi a livello psicologico. Paradossalmente i primi tre modelli o strategie sono più semplici da attuare e richiedono uno sforzo minore. Al contrario, la strategia dell’integrazione, richiede che il soggetto si metta alla ricerca di connessioni che tengano insieme due culture in modo che non confliggano, per arrivare infine ad avere come riferimento una cultura composita che tiene insieme, in maniera armoniosa, elementi della cultura di origine e elementi della cultura maggioritaria. Tuttavia gli autori ci ricordano che non sempre i valori culturali di riferimento e le condotte agite corrispondono. Un individuo, pur avendo valori culturali diversi, può decidere di adottare comportamenti più consoni alla società del paese ospitante in base alla circostanze nelle quali si trova, ad esempio nel contesto lavorativo.

Spostando lo sguardo sull’atteggiamento dei contesti ospitanti nei confronti dei migranti, Ambrosini (2014 : 39-43), in merito al concetto di integrazione delinea due dimensioni, l’autorizzazione e il riconoscimento, all’interno delle quali sono individuate quattro casi idealtipici di integrazione o mancata integrazione. L’autorizzazione riguarda gli aspetti formali che regolano l’ingresso e il soggiorno, il riconoscimento invece si gioca più all’interno della sfera emotiva e fa riferimento all’accettazione sociale o al rifiuto nei confronti degli immigrati. L’autore incrociando le due dimensioni configura quattro casi:

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L’esclusione; vede i clandestini come invasori e potenziali criminali, poiché alla mancanza di autorizzazione legale si associa anche l’assenza di un riconoscimento sociale provocando un sentimento di ostilità nei loro confronti da parte della società ospitante. In questa categoria rientrano in generale i clandestini e sentimenti di ostilità più accentuati sono rivolti ai rom e ai sinti.

La stigmatizzazione; nasce da una percezione che vede le minoranze etniche socialmente sgradite pur disponendo di regolare soggiorno. In questa categoria Ambrosini fa rientrare in primis i rifugiati e i richiedenti di asilo ma anche se in maniera più attenuata possiamo includere anche gli stranieri che lavorano nel commercio, i quali spesso sono ritenuti i responsabili della crisi del made in Italy.

Tolleranza; comprende gli irregolari meritevoli che pur non soggiornando regolarmente nel paese ospitante vengono riconosciuti dalla società ospitante poiché spesso svolgono un lavoro di cura fondamentale nelle famiglie della società ospite. In questa categoria rientrano le colf e le assistenti familiari. Esse costituiscono una risorsa molto importante in Italia, caratterizzata da un welfare di tipo familistico, in cui i lavoro di cura è delegato soprattutto alle donne che non riescono a conciliare lavoro e cura.

L’integrazione; comprende i regolari accettati. In quest’ultimo caso l’autorizzazione formale è corredato da un adeguato riconoscimento sociale. Come ricorda l’autore, il buon esito di un percorso di integrazione è particolarmente influenzato anche dal momento storico, di conseguenza una crisi economica, come quella che ha investito i paesi europei negli ultimi anni, può ostacolarne la riuscita.

Quest’ultimo caso, come sottolinea l’autore, non è un processo lineare, può assumere diverse sfaccettature e oscilla tra due paradigmi: assimilazionismo e multiculturalismo e solitamente l’insuccesso dell’integrazione è associato al fallimento del paradigma multiculturalista. Il modello multiculturalista si fonda sul riconoscimento formale e sostanziale dello straniero, da parte della società di accoglienza, ma esso in realtà spesso fa fatica a realizzarsi pienamente. In molti paesi più che un modello da adottare è stato un ideale a cui tendere che ha trovato vincoli legislativi e politici scaturendo nell’opinione pubblica sentimenti contrastanti. Il modello assimilazionista, invece, assimila il processo di integrazione a quello di omologazione, quindi il successo dell’integrazione è dato dall’attenuazione delle differenze e dall’assimilazione delle culture minoritarie a quelle maggioritarie.

Bourhis et al. (1997) ci fornisce un modello interessante, l’Interactive Acculturation Model (IAM) (Fig.3), che cerca di integrare all’interno di un quadro teorico comune le due dimensioni

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dell’integrazione che abbiamo visto con Berry (1997; 2001) e Ambrosini (2014), o più specificatamente: gli orientamenti di acculturazione adottati dagli immigrati nella società ospite e gli orientamenti di acculturazione adottati dalla comunità ospitante nei confronti di specifici gruppi di immigrati. Bourhis et al. (1997) per descrivere le strategie di acculturazione degli migranti (Fig.2) ha deciso di rivisitare il modello di Berry (1997; 2001).

Come possiamo vedere, nella nuova versione del modello, la seconda dimensione non si riferisce semplicemente ai contatti, quindi a un’intenzione comportamentale riguardante la possibilità di avere contatti con la società ospitante, ma fa riferimento al valore di adottare o meno una nuova cultura. Altra rivisitazione del primo modello riguarda la marginalizazzione, poiché Bourhis (Ibid.) in una ricerca con degli aborigeni australiani riscontrò un legame tra marginalità, alienazione, devianza e stress psicosomatico. Secondo l’autore, gli individui che rifiutano sia la cultura di origine che quella del paese di accoglienza hanno maggiori probabilità di sperimentare l’alienazione culturale nota come anomia. L’anomia può influire negativamente sull’autostima e ostacolare l’adattamento degli immigrati all’interno della società ospitante. Ma Bourhis (Ibid.), considera anche la possibilità che l’individuo sia dissoci dalla cultura di origine, sia dalla cultura del paese ospitante semplicemente perché preferiscono identificarsi come individui piuttosto che come membri di un gruppo. Questi individualisti preferiscono trattare gli altri come persone individuali piuttosto che come membri di categorie di gruppi. Probabilmente, come sottolinea l’autore, è molto facile che gli immigrati che adottano questo tipo di strategia provengano da culture individualiste. Nelle culture individualiste la lealtà nei confronti di un

Dimensione 1: è considerato un valore mantenere la propria identità culturale?

Dimensione 2: È considerato un valore adottare la cultura del paese ospitante?

SI NO

SI INTEGRAZIONE ASSIMILAZIONE

NO SEPARAZIONE ANOMIA

INDIVIDUALISMO

Fig 2. Modello bidimensionale degli orientamenti di acculturazione degli immigrati

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gruppo ascritto non è molto importante e gli individui sono più propensi ad aderire o abbandonare determinati gruppi in base ai loro interessi personali.

Spostando l’attenzione sui membri della società ospitante (Fig.2.a.) Bourhis et al. (1997) utilizza due dimensioni per descrivere i loro orientamenti nei confronti degli immigrati che si basano su due domande fondamentali: Ritiene accettabile che gli immigrati mantengano il loro patrimonio culturale? Accetti che gli immigrati adottino la cultura della tua comunità ospitante. Dalla combinazione di queste due domande l’autore individua quattro possibili orientamenti: integrazione, assimilazione, segregazione, esclusione e individualismo.

Per quanto riguarda l’integrazione, i membri della comunità ospitante accettano e apprezzano il patrimonio culturale degli immigrati e, al contempo, accettano che questi ultimi adottino atteggiamenti della cultura ospite. In questo orientamento i membri della comunità ospitante accettano che si stabilizzi un biculturalismo a lungo termine che possa contribuire a un pluralismo culturale stabile nella società ospitante.

Per quanto riguarda l’assimilazione, essa corrisponde al concetto tradizionale di assorbimento in base al quale i membri della comunità ospitante si aspettano che gli immigrati abbandonino la loro identità culturale per adottare la cultura della maggioranza. L’orientamento all’assimilazione implica che i membri della comunità ospitante alla fine considereranno membri a pieno titolo della comunità quegli immigrati che hanno assimilato totalmente la cultura della maggioranza.

I membri della comunità ospitante che adottano un orientamento segregazionista si allontanano dagli immigrati e non desiderano che essi adottino o trasformino la cultura della maggioranza,

Dimensione 1: Ritiene accettabile che gli immigrati mantengano il loro patrimonio culturale?

Dimensione 2: Accetti che gli immigrati adottino la cultura della tua comunità ospitante?

SI NO

SI INTEGRAZIONE ASSIMILAZIONE

NO SEGREGAZIONE ESCLUSIONE

INDIVIDUALISMO Fig 2.a. Modello bidimensionale degli orientamenti di acculturazione della società ospitante

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