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Uno sguardo al caso italiano

Soffermandoci sul caso italiano, possiamo dire che l’Italia ha conosciuto il fenomeno dell’immigrazione straniera solo recentemente poiché fino agli anni ’70 è stato un paese di emigrazione. Il primo afflusso significativo di immigrati extracomunitari lo abbiamo avuto nella prima metà degli anni Ottanta, in un contesto impreparato a questo fenomeno. La prima legge volta a regolare l’ingresso degli immigrati per motivi di lavoro è stata la l.n.934/1986 cosiddetta “legge Foschi” che garantiva pari diritti ai lavoratori stranieri rispetto a quelli italiani, l’accesso ai servizi sanitari e sociali e inoltre autorizzava i ricongiungimenti familiari. Questa legge aveva l’obiettivo di colmare i vuoti occupazionali, infatti prevedeva censimenti mensili dei lavori non coperti e venivano redatte liste di candidati all’emigrazione presso le ambasciate. Questa procedura però si rivelò troppo articolata e rimase praticamente inattuata. Successivamente, a partire dagli anni Novanta, il tema dell’immigrazione ha iniziato ad acquisire una maggiore rilevanza anche a causa della crescita di episodi di razzismo e fu emanata la l.n. 39/1990 cosiddetta “legge Martelli”. Questa legge creò un sistema di programmazione dei flussi migratori stabilendo un tetto massimo annuale e furono previste le richieste di assunzione nominative. La “legge Martelli” inoltre autorizzò a fare domanda anche ai non europei e creò centri di prima accoglienza e un fondo per l’immigrazione. La legge n.39 del 1990 è stata la prima legge sull’immigrazione con una più accentuata organicità, anche se volta solamente al riconoscimento di pari diritti per i lavoratori regolarmente presenti sul territorio italiano. Tuttavia anche questa legge ha avuto difficoltà di implementazione a causa delle scarse risorse e ha dato ai lavoratori immigrati un limitato accesso alla prestazioni di welfare. Nel 1993, a seguito di reati di stampo razzista, venne approvata la prima legge contro le discriminazioni, la l. n. 205/1993, (cosiddetta “legge Mancino”). La legge punisce tutte le azioni che incitano alla violenza e alla discriminazione. Un’altra svolta significativa c’è stata nel 1998 con la l.n.40 cosiddetta legge “Turco-Napolitano”. Essa se da un lato ha rafforzato le politiche di controllo e di sicurezza, istituendo ad esempio centri di permanenza temporanea, finalizzate a trattenere cittadini stranieri in attesa di un’espulsione o consentire accertamenti sulla loro identità in vista di un possibile rimpatrio; dall’altro ha ampliato i diritti formali e supportato il processo di integrazione con un fondo apposito. La legge oltre a prevedere l’ingresso per lavoro, ammetteva anche l’ingresso per la ricerca del lavoro. Inoltre fu introdotta la carta di soggiorno per i residenti di lunga durata e facilitò l’accesso ai servizi sanitari anche ai clandestini (Ranci e Pavolini, 2015). Come afferma Pintus (2008), la carta di soggiorno rappresentava un passaggio tra l’essere straniero e l’acquisizione di una nuova cittadinanza subordinato non tanto alla

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ricerca del lavoro ma, prevalentemente, al tempo di permanenza in Italia (almeno 5 anni) e al fatto di aver commesso o meno reati.

Criminalizzazione e senso di insicurezza.

Negli ultimi due decenni possiamo affermare che è cresciuta una sorta di panico collettivo nei confronti degli immigrati perché visti come una minaccia alla nostra sicurezza. A ciò hanno contribuito svariati fattori, uno tra questi, come individua Hasanaj (2018), la crescita della paura nei confronti degli stranieri dovuta alla crescita del fondamentalismo islamico nei paesi europei e a livello internazionale9. Questa paura, come sottolinea l’autore, è stata spesso usata in maniera strumentale dai partiti politici per attrarre più consensi, facendo dell’opposizione ai flussi migratori, uno degli obiettivi centrali delle loro campagne elettorali. Su questo punto è utile richiamare Ambrosini (2014). Egli delinea una classifica in base alla percezione che la popolazione autoctona ha nei confronti degli immigrati e la chiama stratificazione del diritto alla mobilità. In base a questa stratificazione, l’autore mette in evidenza come per gli uomini d’affari, manager, professionisti, scienziati, artisti, turisti danarosi e studenti la migrazione è apprezzata e quindi si parla di mobilità. Al livello intermedio troviamo gli sposi e i figli di cittadini o residenti per i quali la mobilità è apprezzata o tollerata. Infine per i lavoratori non qualificati è ammessa, ma in forma stagionale, quindi non è apprezzato un insediamento permanente anche se, molti sistemi economici incentivano il loro ingresso attraverso il lavoro nero. In quest’ultimo caso si parla di immigrazione e l’obiettivo diventa quello di bloccarla anche se, come nota l’autore, spesso i terroristi hanno varcato i confini in veste di uomini d’affari, professionisti, studenti o come turisti.

Barbagli(2008) osserva che in realtà il senso di insicurezza ha iniziato a diffondersi molti anni prima rispetto ai consistenti flussi migratori, ma la presenza degli stranieri all’interno dei gruppi di delinquenza comune, ha portato le persone ad attribuire all’immigrazione la causa principale dell’insicurezza. Possiamo affermare che un contributo significativo a questo sentimento comune di intolleranza lo ha dato sicuramente il mondo dei media, attraverso titoli di cronaca ad effetto. Maneri (2012) analizza il discorso mediatico sul tema immigrazione e senso si insicurezza. L’autore parla di una criminalizzazione razzizzata per intendere come il discorso sul fenomeno dell’immigrazione, nel mondo dei media, sia ormai rappresentato come portatore di devianza e criminalità e l’utilizzo del termine immigrazione è spesso accompagnato da termini come: problema, allarme, emergenza, minaccia, rischio etc….

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Dall’attacco terroristico alle Torri Gemelle agli attentati più recenti come quelli di Londra nel 2005, Parigi nel 2015, Bruxelles e Nizza nel 2016.

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Tutto questo, secondo Maneri (ibid.), contribuisce ad alimentare nel senso comune un linea di demarcazione simbolica che separa il “noi” dal “loro”. Il “noi” rappresenta la società minacciata da “loro”, che rappresentano gli immigrati e tutto questo si sostanzia in una criminalizzazione degli immigrati. Essi vengono descritti come se la loro essenza fosse naturalmente deviante e per questo lo Stato, in quanto ente protettore, ha il compito di proteggerci attraverso la loro “espulsione”. L’analisi dell’autore vuole mettere in evidenza come i mezzi di informazione siano riusciti a costruire intorno al fenomeno immigrazione un oggetto dotato di senso con connotazioni negative. La descrizione del fenomeno immigrazione avviene attraverso uno sguardo unilaterale, della società di accoglienza, che lo definisce come un problema da risolvere attraverso il controllo e l’espulsione. Inoltre l’autore precisa che anche la funzione dello Stato, nel discorso pubblico, assume connotazioni particolari, esso rappresenta “il protettore che ci salverà dall’invasione” e quando siamo in presenza di una rappresentazione di un immigrato come vittima, lo Stato viene rappresentato magnanimo e benevolo.

Anche Berti (2004) individua tra le cause del sentimento di ostilità nei confronti degli immigrati, la “mediatizzazione esasperata”, che attribuisce la criminalità all’immigrazione facendo aumentare la xenofobia. Tuttavia l’autore non nega che spesso gli immigrati clandestini siano coinvolti in attività illegali individuando però la causa di questa devianza, nella mancanza di politiche di integrazione soddisfacenti e al fatto che, non di rado, la criminalità italiana coinvolge nelle sue attività illecite gli stranieri. Berti (2004) inoltre fa notare che gli immigrati coinvolti nelle attività criminose siano per la maggior parte soggiornanti irregolari e che tra gli immigrati regolari il tasso di criminalità è più basso rispetto a quello degli italiani.

Alla luce di questa analisi non possiamo negare che questo processo ha avuto esiti normativi significativi come la l.189/2002 (cosiddetta “legge Bossi-Fini”)10

e la n. 94/2009 (cosiddetto Pacchetto sicurezza). Questi provvedimenti hanno messo l’accento sulla dimensione securitaria e hanno reso più difficoltoso lo stanziamento permanente degli immigrati sul territorio italiano, attraverso vincoli legati alla posizione nel mercato del lavoro, quindi alla presenza o meno di un contratto di lavoro. Queste misure normative trovano un contraltare nelle direttive europee che hanno costretto l’Italia ad adottare delle politiche più organiche recependo direttive del 2004/2005 sul diritto di asilo e dal 2003 direttive di contrasto alla discriminazione (Ranci e Pavolini, 2015).

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Tuttavia, al di là delle normative, oggi l’Italia è destinata a diventare irreversibilmente un paese con una composizione multietnica che necessita di essere affrontata dalle istituzioni al fine di creare una maggior coesione sociale interculturale e prevenire fenomeni di violenza.

Seconde generazioni, «figli di un paese che non li vuole»: l’attuale legge sulla concessione della cittadinanza e il dibattito sullo ius soli in Italia.

Negli ultimi anni in Italia si è aperto un grande dibattito intorno all’attuale legge sulla concessione della cittadinanza; più precisamente la domanda al centro del dibattito è se la concessione della cittadinanza basata sullo ius sanguinis sia ancora compatibile con la società attuale che vede aumentare gli stranieri residenti di lungo periodo o se sia necessario modificarla secondo il principio dello ius soli. Come osserva Ricucci (2015), la rilevante presenza di stranieri all’interno del nostro paese così come in altri paesi europei, rappresenta una sfida che mette in primo piano le seconde generazioni. Si tratta di ragazzi che di fatto si percepiscono italiani ma di diritto, almeno fino al diciottesimo anno di età, sono stranieri. Per loro, la discussione di concentra sul quando l’acquisizione della cittadinanza debba avvenire. La nostra legge per l’acquisizione della cittadinanza può essere considerata un’eredità dell’attenzione all’emigrazione (Ranci e Pavolini, 2015). Savino (2014) fa un’analisi comparata della normativa del 1992 in tema di concessione della cittadinanza con la previgente legge del 12 giugno del 1912 n.555. Con l’attuale legge n.91 del 1992, uno straniero per ottenere la cittadinanza deve dimostrare di avere la residenza legale in Italia da almeno dieci anni, dimostrare di avere redditi sufficienti per il sostentamento, di non avere precedenti penali e di non essere un pericolo per la sicurezza della Repubblica. L’autore sostiene che la disciplina contenuta nell’art.9 della l.91/1992 detta dei criteri più rigidi per l’acquisizione della cittadinanza rispetto a quella previgente. Egli fa notare che la legge del 1912, all’art.9, comma 1, lett.a., prevedeva che lo straniero potesse ottenere la cittadinanza italiana purché risiedesse almeno da cinque anni nel territorio italiano. La normativa vigente invece, introduce tempi di residenza differenziati, legati alle differenti tipologie di stranieri basati su uno supposta o maggiore affinità culturale. L’attuale normativa in merito ai tempi di residenza stabilisce che sono previsti:

- Tre anni per lo straniero che abbia un ascendente italiano entro il secondo grado (art. 9, co. 1, lett. a.)

- Quattro anni ai cittadini di uno stato membro dell’Unione europea (art. 9, co. 1, lett. d.) - Cinque, agli apolidi e ai rifugiati politici (art. 9, co. 1, lett. e ed art. 16, co. 2)

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La residenza decennale è considerata, dalla Convenzione europea sulla nazionalità, il limite massimo consentito ai fini della naturalizzazione. Savino (2014) osserva che nel contesto italiano sono state frequenti le regolarizzazioni di migranti entrati illegalmente nel paese (oltre il 50%) e che quindi per questi immigrati che hanno avuto un passato da irregolare risulta difficoltoso dimostrare il requisito dei dieci anni di residenza, allungando così i tempi della procedura per l’acquisizione della cittadinanza. Come precisa l’autore, la procedura per l’acquisizione della cittadinanza ha una natura squisitamente discrezionale poiché, oltre ai requisiti suddetti, occorre anche una valutazione sull’adempimento dei doveri contributivi e il regolare assolvimento degli obblighi fiscali. In base a quest’ultimo requisito l’autore, basandosi sul Dossier Statistico Immigrazione 2012, XXII Rapporto, Roma, 2012, Caritas e Migrantes, mette in luce come quattro milioni e mezzo di immigrati presenti regolarmente nel nostro paese nel 2010 (7,5% della popolazione) abbiano contribuito al 4,1% delle entrate fiscali e della previdenza sociale complessive e il beneficio netto da essi apportato alla spesa pubblica sia stato stimato per il medesimo anno in1,7 miliardi di euro. Questo costituisce un dato rilevante se si pensa che il cittadino italiano all’estero non è sottoposto agli obblighi contributivi. Possiamo affermare che nonostante siano riconosciuti i diritti sociali agli stranieri residenti, essi non hanno diritto a partecipare alla vita pubblica a livello locale. Savino (ibid) inoltre osserva che queste limitazioni hanno ripercussioni rilevanti soprattutto nei confronti degli immigrati di seconda generazione, cosiddetti anche “italiani di origine straniera”. Come abbiamo visto la legge vigente in tema di cittadinanza si base sul principio della discendenza ius sanguinis a scapito dello iure soli che si fonda sull’automatica attribuzione della cittadinanza del paese in cui ti trovi alla nascita. Quest’ultimo caso, nel nostro si paese, si applica soltanto a chi nasce in Italia da genitori apolidi o ignoti. In sostanza, per chi nasce nel nostro paese da genitori stranieri, la legge n.91 del 1992 riconosce la possibilità di acquisire la cittadinanza al compimento della maggiore età purché il soggetto richiedente sia in grado di dimostrare una permanenza regolare e continuativa, e manifesti la volontà di acquisire la cittadinanza italiana entro un anno dalla maggiore età, (art. 4, comma 2).

Per quanto riguarda il primo requisito e facendo riferimento al termine “regolare”, Savino (2014), ci fa notare, che diventa difficile dimostralo, poiché una quota importante di immigrati sono entrati in Italia in modo irregolare e la legge prevede che chi desidera richiedere la cittadinanza italiana iure soli debba dimostrare il possesso di regolare permesso di soggiorno (annotato su quello dei genitori) e la registrazione all’anagrafe nel Comune di residenza. Tuttavia, riguardo a questo tema, grazie al decreto legge del 21 giugno 2013 n.69, convertito dalla legge del 9 agosto 2013 n.98, ha sancito come ai fini dell’applicazione dell’art.4 co.2 della l. n.91 del 1992, all’interessato sia possibile dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea

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documentazione, non essendo ad esso imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione (art.33, co.1).

Per quanto riguarda il termine “continuativa” la suddetta legge, richiede ancora formalmente una residenza senza interruzioni nel paese dalla nascita fino ai 18 anni di età. Fortunatamente, negli anni, l’applicazione della legge si è dimostrata più elastica, poiché spesso i minori trascorrono periodi più o meno lunghi fuori dal paese, presso le loro famiglie di origine. L’elasticità dei decisori si è formalizzata con la circolare k. 60.1 del 2007, con la quale il Ministero dell’Interno ha precisato che, sia per le concessioni di cittadinanza ex art.9, sia per quelle ex art.4 co.2 “eventuali assenze temporanee non dovranno essere ritenute pregiudizievoli ai fini della concessione status civilitatis, quando l’aspirante cittadino, che si sia dovuto recare all’estero, abbia comunque mantenuto in Italia la propria residenza legale (iscrizione anagrafica presso il Comune e titolo di soggiorno valido per l’intero arco temporale) nonché il centro delle proprie relazioni familiari e sociali”.

Per quanto riguarda il secondo requisito, volontà di acquisire la cittadinanza italiana, esso è ritenuto necessario e non è presumibile. La dichiarazione di volontà deve essere resa solo nel corso del diciottesimo anno di età, quindi un lasso di tempo molto breve. Sulla base del fatto che molti giovani sono ignari dell’opportunità di presentare questa richiesta, il d.l. n. 69 del 2013, ha imposto agli Ufficiali di Stato Civile l’obbligo di comunicare all’interessato, al compimento della maggiore età, la possibilità di poter esercitare tale diritto.

Nonostante il legislatore stia dimostrando una maggiore sensibilità nei confronti degli stranieri di seconda generazione, la disciplina e la prassi amministrativa rimangono molto restrittive nei confronti dei minori stranieri nati in Italia facendo sì che una quota oscillante tra il 35% e il 37% dei giovani aventi diritto alla cittadinanza iure soli, non possa accedervi. L’autore, nella sua analisi, fa notare che al compimento dei 18 anni di età, si applicano agli stranieri nati e cresciuti in Italia, le medesime norme sull’immigrazione che si applicano a qualsiasi straniero adulto presente in Italia. Quindi il mancato rinnovo del permesso di soggiorno può comportare il rimpatrio verso paesi di origine con i quali i ragazzi stranieri nati e cresciuti in Italia non hanno nessun tipo di legame, né linguistico, né socio-culturale. In definitiva essi si troverebbero obbligati a stare in paese che non è il loro. Altro punto messo in risalto dall’autore è che spesso questi ragazzi sono obbligati a entrare in contatto con pratiche amministrative degradanti, come l’acquisizione dell’impronta digitale, ad ogni domanda o rinnovo del permesso di soggiorno11

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Nonostante l’acquisizione della cittadinanza non sia sufficiente per parlare di piena partecipazione e integrazione (Bourhis et al., 1997), essa è il prerequisito essenziale per essere membri a pieno titolo di uno paese, condizione necessaria per esercitare non solo i diritti ma anche i doveri che questo istituto comporta. Ambrosini (2014) definisce la cittadinanza come confine interno che traccia una linea di demarcazione tra membri a pieno titolo di un territorio e gli estranei. Tuttavia però, come precisa l’autore, il confine non è così netto, poiché alcune forme di partecipazione alla comunità sono svincolate dall’istituto della cittadinanza. Se pensiamo ai residenti stranieri, soprattutto alle seconde generazioni, la questione diventa complicata. Essi ogni giorno compiono atti che presuppongono un certo livello di inclusione nella società, come lavorare o andare a scuola, fino al punto di non sentirla più una società meramente “ospitante” ma iniziano a farne parte, spesso conoscono più la cultura del paese di accoglienza rispetto a quella di origine a tal punto di apprenderne i dialetti, pur mantenendo un legame con la propria comunità di origine. Tutto questo naturalmente ha ripercussioni sull’identità di un individuo che rischia di sentirsi “figlio di un paese che non lo vuole”12

. Nonostante il percorso tortuoso per ottenere la cittadinanza italiana, negli ultimi tre anni in Italia si è creato un ampio dibattito rispetto alla proposta di una riforma sulla cittadinanza, “Modifiche alla legge del 5 febbraio del 1992, n.91. e altre disposizioni in materia di Cittadinanza”, che avrebbe, secondo alcuni, allargato gli orizzonti e si sarebbe basata su due fattispecie di acquisto della cittadinanza: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Nonostante il testo di Riforma non sia stato approvato, risulta interessante riprenderlo poiché ci fornisce un’ampia prospettiva in merito alle opinioni di diversi autori rispetto alle seconde generazioni. Tornando alle due fattispecie di acquisto della cittadinanza che avrebbe introdotto la Riforma, possiamo dire che la prima avrebbe riconosciuto la cittadinanza italiana a chi è nato nel territorio italiano da genitori stranieri, di cui almeno uno titolare del diritto di soggiorno permanente o in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo . La seconda fattispecie invece sarebbe stata rivolta ai minori stranieri nati in Italia o che vi abbiano fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che abbiano frequentato regolarmente un ciclo scolastico per almeno cinque anni nel territorio nazionale.

È noto che ultimamente non solo in Italia ma in tutta Europa, a seguito degli eventi terroristici, l’aumento della pressione migratoria dal continente africano, l’ondata di rifugiati dai conflitti e la crisi economica non ancora del tutto superata, ha consolidato un sentimento collettivo di diffidenza nei confronti delle migrazioni esaltando pulsioni xenofobe e razziste. Tutto questo ha portato l’opinione pubblica a travisare le innovazioni che erano previste nel testo di riforma non

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Ius Soli, le storie degli italiani senza cittadinanza: "L'Italia è una madre che non ci vuole come figli",

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comprendendone i reali contenuti. Secondo vari autori che si sono espressi sul tema, la novità del testo di riforma non era lo ius soli, che è già previsto, come abbiamo appena visto, nell’attuale legge, ma la vera innovazione sarebbe stata lo ius culturae, che avrebbe riconosciuto la cittadinanza a chi ha acquisito la cultura nel nostro paese e che in essa si riconosce. L’Associazione Neodemos13

, con sede a Firenze, ha raccolto opinioni di vari studiosi intorno a

questo tema che hanno cercato di ipotizzare quali sarebbero le conseguenze se il nuovo testo di Riforma fosse stato approvato. Come vedremo, molti di essi sono concordi nel ritenere che la legge sarebbe andata incontro alle esigenze di numerose famiglie e giovani che vivono in Italia e che desiderano continuare a viverci. Inoltre, poiché il tasso di natalità si è drasticamente abbassato e costituisce un elemento comune ai paesi con un welfare cosiddetto “familistico”, come ad esempio in Italia, alcuni autori sostengono che sarebbe stata funzionale alle prospettive