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La frustrazione migratoria dei minori di seconda generazione: il rifiuto di un’integrazione subalterna.

Come abbiamo visto, numerose ricerche27 hanno rilevato una maggiore criticità dei percorsi di integrazione delle seconde generazioni rispetto alle prime. A questo punto risulta interessante riflettere sulle differenze tra le due generazioni che si giocano soprattutto all’interno della sfera emotiva ma che scaturiscono soprattutto dall’interazione con l’ambiente sociale.

Demaire e Molina (2004) individuano una sorta di discontinuità nel rapporto genitori-figli che possiamo definire endogena poiché si verifica nella sfera emotiva dell’individuo e riguarda principalmente il «sistema delle aspettative» (Ibid.:XIV). Quando parliamo di aspettative ci riferiamo ai desideri e alle ambizioni degli individui e in questo caso delle seconde generazioni. Gli autori affermano che le seconde generazioni, rispetto ai loro genitori, sono più esposte all’influenza culturale del paese ospitante, poiché passano molto del loro tempo a contatto con i coetanei autoctoni sviluppando così un desiderio di integrazione molto più paritario e meno

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Tra queste abbiamo quella condotta da Taft (1936, cit. in Caramel, 2018: 23) già alla fine degli anni Trenta negli Stati Uniti e, sempre nel contesto statunitense , quella condotta da Portes e Zhou (1993, cit. in Caramel, 2018 : 23) negli anni Novanta e quella più recente di Portes e Rumbaut (2001).

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subalterno. Essi sviluppano dentro di sé aspirazioni e desideri molto più ambiziosi che non si esauriscono nello svolgere lavori umili che spesso hanno accettato i loro padri. Ambrosini e Molina (2004) in linea con il pensiero di Portes e Rumbaut (2001) affermano che i comportamenti anomici sono il risultato non di un’estraneità ai modelli sociali prevalenti ma, al contrario, da un successo del percorso di acculturazione che non trova nel contesto socioeconomico terreno fertile per concretizzarsi. Gli autori, analizzando il contesto italiano, mettono in luce che con la crescita delle seconde generazioni le istanze di parità di trattamento, di riconoscimento della propria identità e di rivendicazione di spazi di autonomia, tendono ad aumentare. Questo perché le seconde generazioni prendono coscienza del proprio status di minoranze all’interno di un contesto in cui non si sentono estranei e di cui vogliono far parte. Ciò è dovuto al fatto che le seconde generazioni sono cresciute nel contesto occidentale assimilando i modelli di comportamento e lo stile di vita dei coetanei autoctoni e proprio per questo le loro aspirazioni sono più ambiziose rispetto a quelle dei genitori. Mentre i loro padri accettavano lavori umili rifiutati dagli italiani, le seconde generazioni al contrario non accettano di rimanere relegati a svolgere lavori poco qualificati. Inoltre parallelamente al desiderio di ascesa sociale delle seconde generazioni, sembra cresciuto un senso di ostilità diffuso da parte della società ospitante che tollera gli immigrati a patto che accettino occupazioni poco qualificate. Come abbiamo visto nel precedente capitolo anche il progetto migratorio dei migranti è cambiato. I genitori dei figli di seconda generazione erano percepiti e si sentivano dei lavoratori ospiti con la convinzione e il desiderio che un giorno sarebbero rientrati nel loro paese. Al contrario le seconde generazioni rivendicano più diritti e desiderano far parte a tutto tondo del paese di immigrazione che sentono proprio coltivando progetti a lungo termine. Ambrosini e Molina (2004) in questo modo mettono in luce una divergenza esistente tra le aspettative della società adulta, del paese di accoglienza, e quelle delle seconde generazioni. Secondo l’autore la principale preoccupazione dei primi, è il timore che le seconde generazioni non accettino di riprodurre l’ordine sociale esistente che vede gli stranieri impiegati in lavori umili e associati a un’immagine sociale modesta. Quindi se da un lato abbiamo una società che tende a voler mantenere in una condizione subalterna gli immigrati, dall’altro lato abbiamo i figli dei migranti che rifiutano questa condizione. In questo modo, secondo l’autore, il «patto tacito» (Ibid.:17) tra immigrati e autoctoni che prevede un’integrazione subalterna dei primi è messo in crisi dalle seconde generazioni e in particolare dai loro progetti futuri. Proprio per questo, secondo gli autori, le seconde generazioni rischierebbero di assumere atteggiamenti devianti e di opporsi alle istituzioni della società ricevente con la probabilità che si verifichi quella che Portes e Zhou (1993, cit. in Portes, Kelly, Haller, 2004 : 63) chiamano «assimilazione verso il basso» descritta nel paragrafo precedente. Tuttavia se questa

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discrepanza tra le aspettative delle seconde generazioni e le aspettative degli adulti della società ospite può innescare sentimenti di frustrazione, non necessariamente la frustrazione sfocerà in comportamenti devianti, pur costituendo un fattore di rischio.

Gans (1992) riferendosi al contesto americano descrive come il sentimento di frustrazione può generare comportamenti devianti e individua alcuni motivi per i quali i figli di seconda generazione non accetterebbero le stesse condizioni dei loro padri. L’autore afferma che poiché si tratta di ragazzi nati e cresciuti nella società “ospite” e dal momento che ne hanno interiorizzato i valori e i principi, essi, come gli autoctoni, giudicano i “lavori da immigrati” degradanti e quindi dal momento che trovano più ostacoli per accedere a posti di lavoro qualificati, potrebbero poter preferire di compiere attività illegali poiché risulterebbero più remunerative nel breve termine. Per l’autore, così come gli autori che abbiamo citato precedentemente, i comportamenti devianti sarebbero dettati da un senso di frustrazione che nasce dal confronto con gli autoctoni poiché questi ultimi possono ambire a livelli superiori di benessere mentre le seconde generazioni, pur desiderandolo, alimentano dentro di sé la consapevolezza che non riusciranno mai a raggiungere lo stesso traguardo perché privi dei mezzi necessari. A questo punto, come affermano Ambrosini e Molina (2004), la discrepanza tra la socializzazione culturale e l’esclusione socioeconomica rappresenta un forte fattore di rischio per la nascita di comportamenti devianti che non nascerebbero da un mancato processo di assimilazione culturale, ma da una disuguaglianza socioeconomica; per cui contrastare fenomeni di devianza significa garantire a tutti, senza discriminazione, pari opportunità di crescita sia economica che sociale28. Seguendo questa logica il termine integrazione non è sinonimo di assimilazione, ma significa dare a tutti le stesse opportunità, riconoscere le differenze e valorizzarle all’interno di uno scambio reciproco tra varie culture che condividono lo stesso spazio. Secondo questa ottica possiamo dire che l’obiettivo dell’integrazione è quella di creare una società multiculturale in cui, come afferma Cesareo (2000), le differenze non devono essere eliminate ma valorizzate poiché costituiscono fonte di ricchezza per l’intera società.