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L’identità etnica e l’appartenenza duplice delle seconde generazioni.

Come abbiamo visto sono molteplici le variabili che influenzano l’adattamento delle seconde generazioni poiché sono continuamente sospese tra due culture diverse: quella di origine e quella del paese ospitante. Ambrosini e Molina (2004) affermano che le seconde generazioni formano la propria identità oscillando continuamente tra l’essere simili ai propri genitori e

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Come si vedrà nel quarto capitolo la scuola ha un ruolo rilevante nella mobilità occupazionale, soprattutto in riferimento alle seconde generazioni.

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l’essere simili ai propri coetanei e questo processo rappresenta un percorso tortuoso se teniamo in considerazione che il periodo evolutivo è il momento più critico che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Rispetto a questo tema assume una grande rilevanza il concetto di identità etnica, intesa come il senso dell’appartenenza a un determinato gruppo etnico, culturale e linguistico. Riguarda quella parte di pensieri, credenze, atteggiamenti e valori di ciascun individuo che se sono definiti dall’eredità della cultura di riferimento (Skoda, 2014). La costruzione dell’identità, come abbiamo visto nel precedente capitolo, avviene attraverso continue negoziazioni e adattamenti con l’ambiente e la cultura circostante. Essa ha una natura dialogica che deriva dall’interazione tra l’Io e il Me (James, 1980, cit. in Pintus, 2008), dall’assunzione degli atteggiamenti degli altri e dal loro riconoscimento o mancato riconoscimento. Il modellamento dell’identità risulta più critico quando, come nel caso delle famiglie migranti, avviene un cambio repentino e profondo dell’ambiente di riferimento. Questo cambiamento fa venir meno quella continuità che costituisce un elemento necessario per la costruzione dell’identità. Naturalmente i fattori che concorrono alla costruzione dell’identità sono molteplici, tuttavia la cultura assume un ruolo importante poiché ci sono dinamiche dello sviluppo che sono culturalmente determinate (Skoda, 2014). Le ricerche più recenti29 sono concordi sul fatto che i fattori di rischio e protezione per lo sviluppo identitario dei figli immigrati siano riconducibili ad aspetti relazionali con il gruppo dei pari, con i genitori, con la scuola e con il partner. Inoltre altro aspetto su cui esiste convergenza è che i percorsi e le soluzioni identitarie degli adolescenti sono molteplici e si dispiegano nel loro processo di integrazione; come abbiamo visto con Sen (2006) e Cesareo (2000) l’identità dell’individuo è il risultato di più appartenenze che possono cambiare nel tempo.

Anche Portes e Rumabaut (2001) affermano che il processo di autoidentificazione delle seconde generazioni è molto più complesso rispetto a quello delle prime generazioni, poiché si dispiega in una serie di alleanze e attaccamenti all’interno di due mondi culturali e sono sottoposte a classificazioni che sono date dall’esterno, ossia dal gruppo dei pari, dalla scuola, dalla comunità e dalla società nel suo complesso. Spesso la pressione esercitata dal gruppo dei pari e dai genitori può creare confusione e un senso di marginalità. Gli autori sottolineano che i giovani di seconda generazione si confrontano continuamente con quelli che li circondano e questo influenza direttamente le loro esperienze. Secondo gli autori l’identificazione etnica inizia con l’applicazione di un’etichetta a se stessi all’interno di un processo di auto-categorizzazione che deriva o da una rivendicazione di appartenenza ad un gruppo o da un contrasto del proprio gruppo con un altro gruppo o categoria. Inoltre, agli autori specificano che questo processo di

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(Rumbaut 2003; Holleran e Waller 2003; Chung 2001; Roer-Strier 1997; cit. in Gozzoli e Regalia, 2005 : 121)

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autodefinizione coinvolge anche la sfera emotiva perché implica un legame affettivo con altri gruppi costituendo quindi anche un fattore protettivo ma che allo stesso tempo può sfociare in un conflitto di lealtà tra la cultura di appartenenza e la cultura del paese ospitante.

Secondo Portes e Rumbaut (2001) anche l’intensità dell’identità etnica può variare, poiché il processo di autoidentificazione etnica è continuamento sottoposto alle influenze esterne. In un contesto di sostegno e di assenza di discriminazione l’appartenenza identitaria tende ad essere data per scontata, ma in un contesto fortemente discriminante tende invece ad essere rafforzata e fa aumentare la consapevolezza della propria appartenenza etnica e di far parte di una minoranza. In quest’ultimo caso il rischio è quello che si formi un’identità etnica reattiva che si oppone alla cultura e alle istituzioni della società ospitante scivolando in un percorso di assimilazione verso il basso.

Come affermano Gozzoli e Regalia (2005) quando il ragazzo adotta la strategia della «resistenza culturale» (Ibid.:121) egli si riconosce solo nella cultura e nell’identità etnica originaria accentuandone le caratteristiche e rifiutando momenti di scambio culturale e di incontro con “l’altro”. Se da un lato questo tipo di atteggiamento può rafforzare il senso di autostima e evitare processi di esclusione all’interno della propria comunità, dall’altro può alimentare il senso di estraneazione nei confronti della società ospitante anche dopo molti anni di residenza. Nel caso di una rapida assimilazione (per cui il ragazzo aderisce alla cultura della società di accoglienza ma al contempo rifiuta la cultura di origine) se da una parte aumentano gli scambi con i coetanei autoctoni il rischio è rappresentato dal fatto che potrebbero essere svalorizzate alcune parti della propria identità etnica e potrebbero nascere conflitti intergenerazionali. In questo caso, come affermano gli autori, può costituirsi una sorta di «doppio rifiuto» (ibid.:121): il rifiuto dei coetanei che nonostante gli sforzi non li considerano uguali e il rifiuto da parte dei genitori che li avvertono estranei. Questa condizione può spingere il ragazzo verso percorsi devianti.

Infine gli autori individuano un altro rischio collegato strettamente al progetto migratorio della famiglia. Gli autori affermano che quando i genitori vivono un progetto migratorio incerto, quindi quando non sanno se tornare al paese di origine o rimanere nel paese di destinazione, il ragazzo corre il rischio di subire un processo di marginalizzazione caratterizzato da una confusione identitaria derivante da un progetto migratorio instabile. In questo caso i ragazzi sono privi di un codice culturale di riferimento e spesso non apprendono bene né la lingua di origine né la lingua del paese ospitante.

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In generale, secondo gli autori, le modalità di incorporazione nella società ospitante, la condizione socioeconomica raggiunta, la composizione della famiglia e il tipo di acculturazione subito dai figli influiscano fortemente sul processo di autodefinizione e sulle sue variazione nel tempo. Tendenzialmente le seconde generazioni sembrano percepirsi tendendo ad adottare le etichette attribuite dall’esterno (scuola, istituzioni e la società nel complesso) e solitamente l’identità etnica sembra rafforzarsi quando i giovani di seconda generazioni subiscono processi di discriminazione, mentre quelli che sperimentano poca discriminazione non percepiscono il bisogno di marcare i confini della propria identità.

Tuttavia la strategia più vincente risulta essere quella della doppia etnicità; poiché essa consente un maggior benessere nelle relazioni familiari e sociali: «La doppia identità è il frutto di un confronto tra due mondi, e di un cammino di adattamento tra i due poli con un senso di appartenenze duplice» (Gozzoli, Regalia, 2005 : 121). Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, l’assimilazione selettiva risulta essere una strategia vincente che si basa appunto sulla conservazione della propria cultura di origine pur adattandosi al contesto della società di accoglienza. Se questa strategia fallisce gli adolescenti oscillano tra varie possibilità di rischio, da un lato possono aderire acriticamente alla cultura del paese di accoglienza o isolarsi nel proprio gruppo etnico dall’altro possono trovarsi incapaci di gestire le molteplici appartenenze sperimentando così una confusione identitaria che può portare un sentimento di estraniamento e alienazione (Gozzoli, Regalia, 2005). Tuttavia conservare o meno la propria identità etnica non dipende solamente dalla volontà dell’individuo, ma come abbiamo già accennato, dipende anche dal contesto in cui si è inseriti. La sfida più grande a questo punto sembra essere quella di mantenere un sentimento di continuità tra due culture diverse attraverso varie strategie che a seconda dei casi possono mettere in risalto tratti di una o dell’altra cultura. In questo modo, come afferma anche Colombo (2007), le seconde generazioni diventano una ricchezza e in un certo senso avrebbero “una marcia in più” considerando gli attuali processi di globalizzazione. Questo perché avere più riferimenti culturali e sapersi destreggiare all’interno di essi adattandoli a contesti sempre più mutevoli diventerebbe una risorsa e non un vincolo per l’emancipazione. Tuttavia questo dipende anche dall’atteggiamento che la società ha nei confronti delle differenze. Come si è visto nel primo capitolo con Bourhis et al.(1997) l’interazione tra la società ospite e le comunità di immigrati può dare esiti relazionali che possono oscillare in continuum tra «conflittuale» e «consensuale», e sicuramente non possiamo negare che le seconde generazioni siano immuni dalle politiche di governo dei paesi ospitanti. Queste ultime si ripercuotono sulle principali agenzie di socializzazione con cui entrano in contatto le seconde generazioni e che sono principalmente la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari, fino a influenzare l’atteggiamento della società nel suo complesso. Un ruolo cruciale nell’alimentare il

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senso di separazione tra “noi” e “loro” lo ha anche il discorso mediatico che, come abbiamo visto con Berti (2004) e Maneri (2012), contribuiscono a criminalizzare gli immigrati e i loro figli. Si può affermare che pensare alle seconde generazioni come fonte di ricchezza e non come ragazzi da assimilare ai coetanei autoctoni può essere la strada per garantire loro la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni e raggiungere un’uguaglianza sostanziale in termini soprattutto di istruzione e occupazione. Al contrario, in un contesto altamente discriminante l’identità etnica non rappresenta più una risorsa ma diventa una “gabbia” che impedisce di avanzare nella gerarchia sociale e che al contempo può addirittura incanalare verso percorsi devianti.

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Capitolo tre: La famiglia dei minori di seconda generazione.