CAPITOLO 4. INTERPRETAZIONI STORICHE DELLA PRIMAVERA DI PRAGA Il 1968 fu un anno schizofrenico, poiché la verità
1. IL DIBATTITO NELLA DIRIGENZA POLITICA
Per la fortuna della Storia, molti dei protagonisti della Primavera di Praga hanno lasciato tracce scritte delle “loro idee” su quanto era accaduto. Così, negli anni, Dubček, Mlynář, Smrkovsky, Hajek, Pelikan, Goldstücker ed altri nomi importanti che più volte abbiamo ritrovato nella narrazione hanno concesso interviste, scritto saggi, pubblicato autobiografie, lasciato testimonianze di quei mesi dell'anno 1968 capaci di segnare indelebilmente la storia del loro Paese e dell'Europa.
Per poter confrontare le interpretazioni dei diversi autori o personaggi politici, introduco ora una schematizzazione generale del contesto cecoslovacco. Possiamo identificare grosso modo quattro attori (o gruppi di attori) le cui interazioni diedero luogo agli eventi descritti: il popolo, la classe operaia, lo “Stato-Partito” cecoslovacco e l'Unione Sovietica (intesa come modello politico di riferimento e portavoce degli interessi del Patto di Varsavia). Di seguito cercherò dunque di inquadrare i giudizi della dirigenza politica nelle relazioni tra questi quattro attori politici.
I giudizi dei dirigenti politici su quanto stava accadendo mentre ciò accadeva sono piuttosto unanimi; si tratta solitamente di giudizi politici entusiasticamente positivi sull'indirizzo democratico delle riforme. Gli alti quadri politici del gruppo riformista si schierarono in maggioranza a favore di una dottrina marxista che usciva dal dogma stalinista (o post-stalinista) che veniva imposto da Mosca, con l'intento di porre al centro di questa (nuova) interpretazione il nucleo delle libertà individuali.
In conclusione, lo Stato-Partito sceglieva dunque di rivolgersi in maniera nuova agli interessi popolo e della classe operaia, in contrasto con l'URSS.
Su questo punto possono essere esplicative le parole di Smrkovsky quando, come ho raccontato alla fine del primo capitolo, decise di scrivere un articolo (“le mille parole”) in risposta al criticato editoriale “duemila parole rivolte ad operai, contadini, impiegati,
410 Kriseova, Eda, Vaclav Havel: the autorized Biography, New York, St.Martin's Press, 1993. L'intervista a Havel risale al 1990.
studiosi, artisti – e a tutti” apparso a fine giugno sul Literární Listy. Nel suo articolo il Presidente dell'Assemblea Nazionale sintetizzava le ambizioni politiche del Programma d'Azione (quindi dell'attore Stato-Partito), tramite un giudizio estremamente soggettivo:
Abbiamo riassunto quegli ideali nell’inseparabilità di tre concetti: socialismo, democrazia, umanesimo. Tali concetti ci hanno indicato non solo gli obiettivi politici cui aspiriamo, ma anche le strade per il loro graduale raggiungimento, quindi l’etica del nostro lavoro, di ogni nostro passo. L’inseparabilità di questi tre valori rappresenta anche il mio credo politico. Era già cosi nel tempo in cui ciò per me poteva significare il “ritorno a Ruzynĕ” [prigione nella quale sono stati rinchiusi molti detenuti politici]. Rifletto seriamente sugli stessi valori oggi che la carica elettrica è di nuovo aumentata. Con questi valori misuro tutti coloro – in casa e oltre confine – il cui atteggiamento e le cui azioni influenzano in qualche modo il corso degli avvenimenti nel nostro paese. Con essi misuro e continuerò a misurare i miei passi. All’esistenza di tutti questi valori lego la mia esistenza in quanto uomo politico. Nient’altro voglio servire e non servirò. Da ciò deriva anche chi sono i miei amici, con chi voglio unirmi, comprendermi, cercare una lingua e una strada comuni. Da ciò deriva pure contro quale pericolo, su questa base, intendo lottare. Sottolineo – e non è la prima volta – che vedo il pericolo principale nelle forze che non hanno rinunciato all’aspirazione di restaurare il regime precedente al gennaio: nelle forze allattate dal regime del potere personale.411
Socialismo – democrazia – umanesimo è la sintesi triangolare della rivisitazione della teoria politica comunista cecoslovacca, indirizzata ai bisogni del popolo (democrazia, umanesimo) e della classe operaia (socialismo, in special modo nella sua versione autogestionaria garantita dai consigli operai). Un'altra espressione che sinteticamente può definire il progetto di riforme viene dalla famosa citazione attribuita a Dubček, in seguito ampiamente utilizzata anche dallo stesso segretario: “il socialismo dal volto umano”. Come ho avuto modo di accennare nell'analisi degli anni sessanta, il tentativo di scardinare la visione stalinista congelata dal vecchio segretario Antonín Novotný era partito già dal 1963, dalla conferenza organizzata da Eduard Goldstücker su Kafka. Non è forse un caso che la definizione “primavera di Praga” fu coniata proprio per gli eventi del 1963, e poi tornata in auge per il 1968. Il secondo passo fu il XIII Congresso del Partito, nel 1966, in cui Ota Šik propose una democratizzazione dei processi decisionali, funzionale ad un necessario cambiamento della gestione economica412. Gli interpreti ed
411 Il documento è riportato in Appendice I punto c.
attuatori della teoria politica tentavano dunque un approccio critico alla tradizione politica dell'URSS; precisamente, il nuovo approccio cecoslovacco voleva ridare centralità agli attori politici popolari413.
I discorsi dei leader del nuovo corso si distanziarono dalla retorica tradizionale essenzialmente su due punti. Primo, i dirigenti preferirono molto spesso indirizzarsi alla popolazione nel complesso più che alla sola classe operaia, o al proletariato: questo conferma quanto detto in precedenza sull'attenzione rivolta ai due attori popolo/classe operaia, che divennero un unico riferimento politico del gruppo Stato-Partito. Secondo, tentarono al tempo stesso di valorizzare il ruolo del singolo, ovvero l'apporto delle molteplici opinioni – seppur rimanendo nell'alveo socialista (e sempre sotto l'intoccabile guida del solo Partito comunista). Richiamando un'altra citazione di Dubček, egli presentò il proprio Programma d'Azione come un programma democratico volta a garantire la possibilità per ogni cittadino di determinare il proprio futuro;
La nostra democrazia socialista deve essere fondata sulla compartecipazione, sulla coesione e sulla collaborazione dei cittadini. Vogliamo soddisfare l'aspirazione dei cittadini ad una società nella quale l'uomo non sia lupo agli altri uomini. Questo aspetto operoso, umano, unificatore del socialismo, questo ideale di una società senza contrasti antagonistici, noi vogliamo metodicamente e gradualmente tradurre nella pratica. […] Vogliamo introdurre nel paese la democrazia socialista – e
413 Dalle parole dei dirigenti, la teoria socialista da essi seguita, che si configura come critica delle scelte dell'URSS in favore delle scelte del popolo e direttamente del proletariato, sembra più vicina ai suggerimenti di Rosa Luxemburg che alla rigida attuazione della pratica Leninista – anche se è bene precisare che i riformisti cecoslovacchi non si collegarono mai direttamente né agli scritti dell'intellettuale tedesca né tanto meno di altri studiosi marxisti. Nel suo celebre scritto sulla rivoluzione russa, Rosa Luxemburg scrisse: Senza elezioni generali, libertà di stampa e di riunione illimitata,
libera lotta d´opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa apparente e in essa l'unico elemento attivo rimane la burocrazia. La vita pubblica si addormenta poco per volta, alcune dozzine di capi-partito d´inesauribile energia e animati da un idealismo sconfinato dirigono e governano; tra questi la guida effettiva è poi in mano a una dozzina di teste superiori; e un´élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei capi, votare unanimemente risoluzioni prefabbricate: in fondo dunque un predominio di cricche, una dittatura, certo; non la dittatura del proletariato, tuttavia, ma la dittatura di un pugno di politici, vale a dire dittatura nel senso borghese, nel senso del dominio giacobino. […] La missione storica del proletariato giunto al potere, [è] di creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non di distruggere ogni forma di democrazia. La democrazia socialista però non comincia solo nella Terra Promessa, […] la democrazia socialista comincia insieme all'opera di distruzione della dominazione di classe e di costruzione del socialismo. Essa comincia nel momento in cui viene preso il potere da parte del partito socialista. Essa non è altro che la dittatura del proletariato. Già, dittatura! Ma questa dittatura consiste nel modo di applicare la democrazia, non nella sua abolizione. […] Deve essere opera della classe, e non di una piccola minoranza-guida, in nome della classe, ciò vuol dire che essa deve sorgere passo passo dalla partecipazione attiva delle masse, deve sottostare al loro diretto influsso, sottostare altresì al controllo di tutto il pubblico, sorgere dalla crescente educazione politica delle masse popolari. Luxemburg, Rosa, La rivoluzione russa, scritto del 1918 citato in parte nell'antologia curata
da Charles Wright Mills, I marxisti, Milano, Feltrinelli, 1969, pag. 325. I corsivi sono nel testo originale.
nessuno deve dubitare di questa volontà.414
La rappresentazione stessa del popolo e della classe operaia subiva nei discorsi politici un (rivoluzionario) processo di modifica, dall'omogeneità precedente di identificare tutto il popolo dentro la categoria teorica “classe operaia” ad una somma creativa di differenze. L'analisi dei fatti storici ha provato che lo Stato-Partito riuscì a tradurre in realtà i discorsi dei propri “portavoce”, restando lontano dalla vuota propaganda e ricevendo in risposta l'immenso supporto degli altri due attori “popolari”.
Nel contesto descritto della Primavera di Praga, la democrazia socialista parve dunque a portata di mano, frutto di una “rivoluzione intellettuale” partita dagli scrittori, dagli economisti, dai giornalisti, dai filosofi. Eugen Löbl, economista, nella nota preliminare di una raccolta di saggi sulla primavera edita nello stesso 1968, analizzò brevemente l'importanza degli avvenimenti, predicendo la nuova forza della rivoluzione in corso
Vedo il grande significato storico degli avvenimenti nel nostro Paese nel fatto che essi, in primo luogo, mostrano all'Europa, dove nel processo della storia si va determinando un alto grado d'intellettualità, che esiste una nuova forma di rivoluzione: una rivoluzione senza barricate, senza spargimento di sangue, senza minacce e nello stesso tempo senza il monito vae victis. E ne consegue soprattutto che esiste una rivoluzione il cui asse non è la lotta per il potere, bensì la lotta per l'uomo, per la possibilità della realizzazione dei suoi ideali umanistici.415
L'interpretazione di Löbl, oggi leggibile anche come predizione del carattere schiettamente nonviolento che caratterizzò poi la resistenza del '68, rappresenta bene il cambiamento politico cecoslovacco compiuto e che aveva il sostegno principalmente dei due attori di riferimento, il popolo e la classe operaia.
Poi, la scelta degli esponenti dello Stato-Partito di interpretare questa nuova politica del popolo e della classe operaia fu messa in drastica discussione dall'aggressione militare. Anche perché, per quanto riguarda l'invasione e la successiva resistenza, lo Stato-Partito non fu in grado di analizzare in maniera esauriente la complessità della situazione, riducendo il tutto ad uno scontro di élite, tra sé e l'Unione Sovietica – cioè estromettendo di fatto gli altri due attori. Infatti sappiamo che, se da una parte la resistenza civile del popolo e degli operai riuscì a mantenere in vita i propri dirigenti, dando loro la possibilità di essere l'unica controparte capace potenzialmente di garantire una soluzione ai sovietici, dall'altra Dubček non fu in grado di (o non volle) comprendere che il
414 Dubček, Alexander, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, op. cit. pag. 19
movimento popolare di resistenza e non-collaborazione sarebbe potuto essere un possibile grande vantaggio per il superamento dello lo scontro tra gerarchie politiche. Quanto all'unico dirigente che non firmò i Protocolli di Mosca, František Kriegel, ben poco possiamo sapere della sua interpretazione soggettiva della situazione, poiché egli non lasciò nulla di scritto in proposito. Ad ogni modo, il 30 maggio 1969 Kriegel pronunciò il suo ultimo discorso all'Assemblea Federale, prima di essere espulso dal Partito su volere di Husák. Il discorso fu presto censurato dai media, ma divenne uno dei primi samizdat del dissenso cecoslovacco. Egli spiegò perché non avesse firmato; ed il motivo era l'illegalità della situazione politica (occupazione militare, detenzione, impossibilità di far partecipare le istituzioni costituzionali cecoslovacche); ma, aggiunse, il crimine maggiore fu l'essere lontani dalle sensazioni della propria gente, sotto lo schiaffo di un mero rapporto di forza militare: “il contratto non fu firmato con le penne,
ma con i fucili”416.
La prima riflessione sugli avvenimenti dell'agosto 1968 giunse addirittura nel tardo autunno, sulla spinta ancora una volta dell'avanguardia intellettuale. Il 19 dicembre il settimanale Listy417 pubblicava un articolo di Milan Kundera intitolato “il destino ceco”,
in cui lo scrittore ritraeva ottimisticamente la situazione del proprio Paese, piccola nazione tra grandi potenze da sempre destinato a lottare giorno per giorno per garantire la propria esistenza, che anche nella situazione di oggettiva difficoltà – l'autunno 1968 – riusciva a mantenere saldi i propri ideali. Perciò egli criticava le migliaia di persone in fuga dal Paese, sostenendo che era necessario l'aiuto di tutti per continuare sulla via intrapresa, qualificando la sua critica con l'analisi delle libertà individuali ancora in vigore.418 Ma Kundera, nel suo saggio intenzionato sostanzialmente a non separare
l'autunno dalla precedente primavera politica, non prende in esame né la differenza nella conduzione dello Stato- Partito (in riferimento ad esempio all'allontanamento immediato di Pavel, Šik o Hajek), né il distacco che si andava creando tra questi e la società (ovvero gli altri due attori interni).
Due mesi dopo, nel febbraio 1969, Václav Havel pubblicò la sua riposta sulla rivista
416 Istituto per lo Studio dei Regimi Totalitari di Praga, http://www.ustrcr.cz/en/.
417 Il settimanale dell'Unione degli Scrittori, Literární Listy, aveva deciso di bloccare le proprie pubblicazioni il 28 agosto 1968 (l'ultimo numero conteneva il pezzo di Prochazka che ho inserito nel Capitolo 3), accondiscendendo alle richieste del gruppo dirigente; nel novembre, le pubblicazioni ripartirono, mentre il nome divenne semplicemente “Listy”. Il giornale continuò a pubblicare sino all'estate successiva, quando fu nuovamente costretto a chiudere. L'Unione degli Scrittori fu invece “liquidata” nel maggio 1970. Fonte: Pacini, Gianlorenzo, Cecoslovacchia: cinque anni dopo, op. cit. 418 Mella, Stefania, La polemica tra Milan Kundera e Vaclav Havel sul destino ceco quarant'anni dopo, in
Tvář, intitolando provocatoriamente il proprio articolo “il destino ceco?”. Il drammaturgo
rovesciò la medaglia celebrativa di Kundera, analizzando il contesto in maniera più cruda e realistica. Egli definì le parole dello scrittore come una “costruzione illusionistica”, segno della miopia politica diffusasi nel Paese nei mesi precedenti419. Usando le sue
parole,
“è molto più facile star qui a dire quanto stavamo bene e quanto meravigliosi eravamo in agosto, piuttosto che analizzare chi sta ancora bene oggi e chi non lo sta affatto, e cosa bisogna fare per rendere di nuovo reale ciò che avevamo guadagnato”420.
L'articolo di Havel fu un tentativo di “scuotere” il mondo intellettuale in qualche modo assopitosi dopo l'invasione, anch'esso illuso come i suoi dirigenti (e per opera dei suoi dirigenti) di poter ancora salvare quanto acquisito. Infatti, come Kundera, anche Havel nel suo articolo di febbraio non guarda alla Primavera (ed al suo apice, la resistenza nonviolenta) come il segno di un possibile cambiamento radicale della società. Egli anzi propone di mettere da parte il passato, minimizzandolo con scetticismo: il nuovo corso non aveva compiuto nulla di grandioso, aveva solo riportato alla luce le libertà e la legalità presenti già nella Cecoslovacchia democratica di Masaryk; era cioè tornato all'occidentalizzazione del Paese. Nell'inverno 1969 egli proponeva essenzialmente di pensare al presente, senza enfatizzare il passato421. La disputa diede luogo ad un dibattito
nell'Unione degli Scrittori, destinato ad esaurirsi in un'astrazione, dibattito sul ruolo dell'intellettuale più che sull'analisi della situazione concreta422, la quale andava
deteriorandosi velocemente (dando in una certa maniera più ragione ad Havel, ma lasciando del tutto aperta la lacuna su una possibile spiegazione del passato).
L'analisi limitata degli eventi da parte di Havel ne preclude a mio avviso un'interpretazione efficace, anche vedendoli alla luce delle sue opere successive. Egli riuscì bene a svelare il corto circuito ideologico della classe dirigente, quando ad esempio nel suo scritto più famoso come “dissidente”, Il potere dei senza potere (scritto quasi dieci anni dopo), affermava
La necessità di coprirsi con il rituale423 e di ricorrere ad esso fa
419 Ibidem.
420 Bren, Paulina, The greengrocer and his TV – the culture of Communism after 1968 Prague Spring, op. cit. pagg. 30-31
421 Mella, Stefania, La polemica tra Milan Kundera e Vaclav Havel sul destino ceco quarant'anni dopo, in eSamizdat, Maledetta Primavera – il 1968 a Praga, op. cit.
422 Ibidem.
sì che spesso anche i membri più illuminati della struttura del potere siano per così dire “vinti dall'ideologia”; essi non riescono mai ad arrivare alla realtà “pura e semplice” e la scambiano sempre – magari all'ultimo momento – con la pseudo-realtà ideologica. (A mio parere, una delle ragioni per cui nel 1968 la gestione di Dubček non riuscì ad essere all'altezza della situazione fu proprio perché nelle situazioni- limite e nei “problemi ultimi” non riuscì mai a liberarsi completamente del mondo dell'“apparenza”).424
Qui Havel pone il suo giudizio soggettivo sull'errore dello Stato-Partito; ma con questo lascia il 1968 all'interno di un'analisi “tradizionale”, chiusa sulla sola gestione del potere centrale. Forse è significativo notare come egli non fosse presente nella capitale durante la settimana d'invasione, ma la visse in una città quasi al confine settentrionale, Liberec, dove collaborò con la locale radio clandestina, lontano però dalle manifestazioni e dagli avvenimenti di Praga.
La differenza tra l'aver vissuto o meno, in parte o pienamente, la resistenza nonviolenta potrebbe essere un'ulteriore spiegazione per la difficile comprensione del gruppo riformista su quanto stava accadendo. Zdeněk Mlynář fu l'unico tra i riformisti che firmarono il Protocollo ad aver vissuto in prima persona, per tre giorni, la resistenza, il Congresso clandestino, gli scioperi, le sensazioni e le reazioni dei propri concittadini. È forse riconducibile al suo vissuto il fatto che, comparando le sue memorie con quelle di Smrkovsky e Dubček425, egli risulta essere l'unico a vedere nella struttura fortemente
gerarchica dello Stato il problema cruciale che si sarebbe dovuto affrontare per prevenire il ritorno del dogmatismo filo-sovietico. Mlynář, che mesi prima dell'invasione aveva curato nel Programma d'Azione la parte inerente al ruolo guida del Partito (il paragrafo si intitolava La funzione dirigente del Partito, garanzia di uno sviluppo socialista
progressista), notò come, durante l'invasione, i resistenti (sia la popolazione nel
complesso che il XIV Congresso) attendevano con estrema ansietà le direttive che sarebbero giunte dai propri dirigenti a Mosca: l'autorità politica raggiunta da Dubček, Svoboda e Smrkovsky era “tremenda”. Così, nell'ottobre del 1968 fu lui a proporre a Dubček di dimettersi insieme al maggior numero di responsabili di strutture politiche, per
senso, teatrale.
424 Havel, Václav, Il potere dei senza potere, op. cit. pag. 22
425 Ho deciso in questo paragrafo di attenermi alle riflessioni di solo questi tre politici come espressione massima della dirigenza riformista; a fronte di quanto spiegato nella prima parte di questo lavoro, sono questi i dirigenti che più esemplificano il desiderio di riformare la politica cecoslovacca dell'epoca. Non ho ritenuto utile inserire nella bibliografia le memorie di membri come Bil'ak, volte ad una
far venir meno il referente legittimato dalla popolazione, ovvero per creare una nuova situazione politica ed evitare la fine della resistenza. Ma ancora anni dopo, sia Dubček che Smrkovsky, non vedevano altra soluzione a quanto era accaduto se non quella che essi già avevano scelto, seppur contornata dai se e dai ma dovuti agli inaspettati tradimenti dei propri collaboratori: per ripetere le parole di Horsky, essi continuarono a scegliere la realpolitik del compromesso. In altre parole, lo Stato-Partito abbandonava gradualmente la condivisione delle scelte con il popolo e la classe operaia per tornare a