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Tra maggio e giugno il Presidium discusse il problema delle pressioni popolari per un'opposizione politica al Partito. Gruppi come il KAN ed il K231 raccoglievano crescenti consensi, mentre vecchi esponenti del Partito Socialdemocratico, che nel '48 fu costretto ad unirsi al Partito Comunista, annunciarono il futuro ritorno all'indipendenza del Partito. Il gruppo riformista, seguendo le idee di Mlynář nel Programma d'Azione, decise di reagire a queste pressioni relegando l'iniziativa politica non-comunista all'interno del Fronte Nazionale; associazioni indipendenti potevano esistere ma il loro operato doveva rientrare nell'apparato consultivo che era il Fronte, senza la possibilità di diventare un'opposizione di governo per il PCCS. Questo compromesso fu il risultato di quello che potremmo definire un gentlmen's agreement tra Dubček e gli esponenti del Partito Socialdemocratico; secondo il patto il Partito Comunista avrebbe evitato attacchi diretti (“revisionismo borghese”, “forze dei capitalisti”, “antisocialisti”) verso il rinascente Partito e questi si sarebbe impegnato a non prendere iniziative politiche prima del Congresso di settembre. Nelle mosse di Dubček era ormai chiara l'intenzione di evitare qualsiasi provocazione che potesse esasperare i rapporti con i propri vicini, divenuti ormai inquieti testimoni degli sviluppi cecoslovacchi. Mantenendosi fiducioso nel rapporto con la propria popolazione, egli mandava ripetuti segnali di fiducia e di rassicurazioni verso i sovietici e gli alleati del Patto di Varsavia. Il 12 giugno si incontrò con l'ambasciatore russo Červonenko per tranquillizzarlo sul Congresso organizzato così velocemente133: sarebbe servito a rinforzare la leadership del Partito contro i

deviazionismi di destra (mentre i riformisti avevano premuto su Dubček per anticipare il Congresso proprio per poter avere più potere ed allontanare i deputati conservatori dell'era Novotný). Nei suoi contatti con i sovietici il Primo Segretario ebbe premura di affiancare le proprie posizioni a quelle dei fedelissimi di Mosca, quali Bil'ak o Kolder. Nelle sue memorie invece ricorda come i suoi più stretti alleati in quel periodo fossero oltre a Smrkovsky e Černík, anche Barbirek e Kriegel, ovvero i politici più liberali del gruppo134.

Dubček si muoveva dunque in modo ambiguo, alla ricerca di una stabilità difficile tra le richieste e le minacce di Brežnev e la propria politica verso un socialismo realmente democratico (ma guidato dal Partito).

133 Dopo l'ultimo Congresso del PCCS del 1966, il successivo era previsto per il 1970. 134 Dubček, Alexander, Hope dies last, op. cit.

Nonostante queste difficoltà in giugno poteva essere certo di avere alle sue spalle il sostegno dell'intera Cecoslovacchia; moltiplicò la sua presenza nella stampa, nella radio, e da ultima nella televisione135. Fu un'idea di Čestmír Císař, che aveva in delega dal

Comitato Centrale il compito di coordinare i media, quella di introdurre nel dibattito politico incontri, interviste e conferenze in stile occidentale, con un frequente scambio tra politici e cittadini, in primo luogo attraverso la televisione136. I politici riformatori

sapevano di avere un largo consenso e utilizzarono efficacemente i media per diffondere le proprie idee ed i contenuti del Programma d'Azione (un documento piuttosto lungo che in pochi all'esterno del Partito avevano effettivamente letto). Più difficile era usare il confronto per i politici del vecchio regime, che anzi lo ritenevano foriero di pericoli per il socialismo. Vasil Bil'ak arrivò ad accusare la televisione di essere il “centro del revisionismo” e chiese di sostituire Pelikan come direttore delle trasmissioni statali; il CC rifiutò la proposta, sotto la minaccia di uno sciopero generale da parte dei sindacati delle comunicazioni se Pelikan fosse stato deposto137.

Sempre tramite i media ed in special modo la televisione, Ota Šik mise al corrente la nazione dello stato economico e dei progetti futuri. Il vecchio regime aveva lasciato la macchina produttiva cecoslovacca in una situazione drammatica. Oltre due terzi delle infrastrutture industriali erano ormai obsoleti; la forza-lavoro era in maggioranza non qualificata, e anche dove i macchinari erano recenti la produttività rimaneva bassa. L'industria metallurgica produceva acciaio di scarsa qualità, che conseguentemente aveva una minore resistenza nel tempo. Non erano raggiunti gli standard internazionali di qualità su una larga quantità di beni. Vecchi accordi con l'Unione Sovietica prevedevano la vendita di prodotti dell'industria pesante a prezzi molto ridotti e del tutto inconvenienti per Praga. Le condizioni di vita dei lavoratori erano pessime se confrontate con i vicini occidentali: Šik portò ad esempio in un articolo sul Rudé Pravo le ore di lavoro necessarie per un operaio per potersi permettere l'acquisto di una radio a transistor: 12

135 Il primo discorso alla cittadinanza via televisione Dubček lo effettuò difatti solo in giugno; nella già citata intervista a Eduard Goldstücker a cura di Franco Bertone, l'intellettuale cecoslovacco ricordava quel primo discorso con esaltazione: “era talmente genuino, talmente diverso, che sembrava recitato da uno straordinario interprete. La gente vedeva questo massimo dirigente con il suo lungo naso appuntito, la sua faccia un po' comica, con gli occhiali in precario equilibrio, che leggeva il suo testo tornando qualche volta indietro perché inciampava nella lettura e lo vedeva come “uno dei nostri”. Era esattamente il contrario dell'uomo d'acciaio e di marmo al quale avevano tentato di abituarci. Forse non era brillante ma la gente pensava e diceva “è dei nostri”, è finalmente il nostro uomo”. Fonte: Goldstücker, Eduard, Da Praga a Danzica, op. cit. pag. 109.

136 Williams, Kieran, The Prague Spring and its aftermath: Czechoslovak politics, 1968-1970, op. cit. 137 Pelikan, Jiří, Il fuoco di Praga, op. cit.

ore di lavoro per un operaio della Germania Federale, 117 per un operaio cecoslovacco.138

Le denunce di Šik furono sicuramente istruttive per i propri connazionali, ma di certo non si guadagnarono la simpatia dei vicini Paesi socialisti, in cui la situazione non era certo più propizia; era riconosciuto infatti che la RCCS fosse uno dei Paesi più industrialmente avanzati del blocco sovietico, e di conseguenza l'analisi dei fallimenti del modello poteva essere estesa agli altri Paesi, per non parlare della stessa URSS che aveva livelli di vita notevolmente inferiori. Ma l'economia cecoslovacca aveva bisogno di investimenti per ripartire, e ormai da tempo Dubček premeva su Mosca per avere un prestito a lunga durata, senza ottenere risultati concreti. Non è dato sapere se gli Stati Uniti tentarono di sfruttare la leva economica per entrare nella disputa tra sovietici e Praga, non vi sono documenti ufficiali a supporto di tale tesi. È piuttosto probabile che Dubček volesse evitare un qualsiasi aiuto dagli USA, poiché nulla avrebbe accresciuto di più il risentimento sovietico che contatti con Washington. Diverso era invece il rapporto con la Germania Federale, con cui la Cecoslovacchia confinava e con cui si potevano prevedere aperture politiche; l'11 giugno il Ministro degli Esteri Jiří Hajek in un discorso all'Assemblea Nazionale ricordava cautamente la necessità di portare avanti uno sviluppo pacifico per l'Europa centrale, sempre tenendo conto delle rispettive differenze (e ricordando come su Bonn pendesse ancora la richiesta cecoslovacca di denunciare pubblicamente come invalido i patti di Monaco del 1938)139.

Il 20 giugno partì l'esercitazione militare del Patto di Varsavia, che il Maresciallo Yakubovskij140 aveva promesso a Dubček sarebbe stato un “piccolo esercizio di

allenamento”141. In realtà alle esercitazioni presero parte circa 16 mila uomini, i quali

rimasero sul territorio cecoslovacco anche dopo la fine delle manovre. In una situazione quasi paradossale, il governo di Černík inoltrò diverse note e proteste verso i dirigenti sovietici e la struttura militare del Patto, senza avere risposte certe sulla data del ritiro dei militari. Per diversi giorni dopo le manovre lo stesso Yakubovskij non fu reperibile telefonicamente da Praga142. In una situazione che aveva aspetti pienamente kafkiani, si

delineavano le intenzioni intimidatorie dell'esercitazione. A luglio Yakubovskij annunciò che le truppe del Patto di Varsavia rimanevano perché le sole truppe cecoslovacche non erano abbastanza numerose per fronteggiare un possibile attacco NATO.

138 Schwartz, Harry, Prague's 200 days, op. cit. 139 Ibidem.

140 All'epoca il comandante delle forze del Patto di Varsavia. 141 Dubček, Alexander, Hope dies last, op. cit.

La pressione sovietica tuttavia non riuscì a bloccare un passo decisivo della dirigenza riformista verso il processo di democratizzazione: il 26 giugno veniva approvata de jure l'abolizione della censura. La legge prevedeva comunque una responsabilità degli editori nel caso fossero pubblicati segreti di Stato, ma il bavaglio alla stampa era definitivamente levato. La misura fu ovviamente molto popolare, anche se nel Partito non vi fu l'unanimità di voti favorevoli (basti pensare allo sfogo di Bil'ak su Pelikan descritto poco sopra). Goldstücker fece notare come la legge fosse un cardine del nuovo corso di Dubček, il ponte che poteva riunire il Partito con la popolazione

L'abolizione della censura divenne in Cecoslovacchia

argumentum ad hominem, col quale dicevamo a tutti che il

“nuovo corso” era qualcosa per cui valeva la pena di lottare, di impegnarsi, di lavorare. Senza l'abolizione della censura non saremmo mai riusciti a conquistare l'immenso sostegno di massa che conquistammo e di cui si ebbe la prova nel corso dell'occupazione, con un atteggiamento di massa che suscitò la meraviglia e l'ammirazione di tutti i democratici del mondo.143

La sera dello stesso 26 giugno Dubček tenne un meeting con una delegazione di giornalisti, in cui veniva annunciata l'abolizione della censura; allo stesso tempo però Dubček volle mandare un messaggio alla stampa nazionale in cui chiedeva maggiore responsabilità per evitare polemiche pericolose144. Ma il messaggio non fu pienamente

colto e l'indomani il settimanale degli scrittori, Literární Listy, il quotidiano dei sindacati

Práce e quello della gioventù Mladá Fronta pubblicarono il “Manifesto delle duemila

parole”, una dichiarazione di fede al nuovo corso dello scrittore Ludvik Vaculik con la firma di oltre settanta tra altri autori, artisti, personalità pubbliche145. Il Manifesto dopo

una durissima critica al passato proclamava pieno supporto al gruppo di Dubček ma al tempo stesso spingeva la leadership a velocizzare il processo di riforme. I firmatari dichiaravano di non voler “creare anarchia o causare insicurezza”146, ma l'articolo diventò

una patata bollente tra le mani dei riformisti. Philip Windsor, nel suo volume sul 1968 in Cecoslovacchia scritto con Adam Roberts, descrisse l'articolo come

un superbo pezzo in termini sia politici che letterari, che implicava fondamentalmente una critica al governo per non fare abbastanza, e, nello stesso stile di Dubček, fu tanto più 143 Goldstücker, Eduard, Da Praga a Danzica, op. cit. pag. 114.

144 Shawcross, William, Dubcek and Czechoslovakia 1918-1990, op. cit.

145 Il Manifesto è stato riportato (tradotto in italiano) nella rivista italiana di cultura slava eSamizdat nel numero Maledetta Primavera – il 1968 a Praga, anno 2009, num. VII, reperibile in internet al sito www.esamizdat.it.

efficace quanto poco pretenzioso.147

Il documento, indirizzato a “operai, contadini, impiegati, studiosi, artisti e a tutti” invitava a vigilare sul corso della democratizzazione, soprattutto nell'estate in arrivo, senza concedersi vacanze, evitando gli strumenti “illegali, indegni e volgari che potrebbero influenzare negativamente Alexander Dubček”; al tempo spesso avverte che la popolazione è pronta a difendere il governo da minacce esterne anche con le armi se necessario.

Il Manifesto era indirizzato alla popolazione cecoslovacca e nel contesto del giugno 1968, ed era comprensibile il suo incitamento ad andare avanti su una strada fortemente desiderata ed in cui molti riponevano fiducia; ma nei governi dell'Europa orientale il documento non poteva essere letto se non come una grave minaccia al socialismo. L'atteggiamento del Partito Comunista Cecoslovacco sino al 1967 descritto e criticato senza pietà era letto come una feroce critica ai Partiti Fratelli, e le promesse di arrivare sino alla rivolta armata erano le promesse di una frattura profondissima. L'allarme fu dato dal direttore della Pravda moscovita che in quei giorni era proprio a Praga, Zimjanin: dal giornale di Mosca si diramarono le forti critiche nella stampa di tutta l'orbita sovietica. La Pravda descrisse in maniera falsa il documento come una “pubblica chiamata per la lotta contro il Partito Comunista Cecoslovacco” e aggiunse un parallelo tra la situazione del tempo e l'Ungheria del 1956148.

La notte tra il 27 ed il 28 giugno si tenne un lungo incontro del Presidium del CC cecoslovacco, incentrato sul Manifesto stesso. Anche la maggioranza riformista comprendeva quanto fossero pericolose le parole “di supporto” di Vaculik e altri. Durante la discussione un preoccupato Smrkovsky disse chiaramente a Dubček “Se non fermiamo questo adesso, lo risolveranno i carri armati”149. Esponenti conservatori come Alois Indra

proposero misure più rudi (sino all'arresto dell'autore e degli editori), ma alla fine il comunicato di accusa contro il testo fu molto mitigato. Il Presidium si dichiarava totalmente in disaccordo con il Manifesto e ne rigettava le conclusioni; l'articolo poteva diventare un'arma per le forze controrivoluzionarie ed era “una minaccia al successivo progresso della costruzione socialista”.

Dubček incontrò una delegazione dell'Unione degli Scrittori il 29 giugno, dichiarando

147 Windsor, Philip and Roberts, Adam, Czechoslovakia 1968, op. cit. pag. 48. 148 Shawcross, William, Dubcek and Czechoslovakia 1918-1990, op. cit. pag. 136.

149 Williams, Kieran, The Prague Spring and its aftermath: Czechoslovak politics, 1968-1970, op. cit. pag. 90.

personalmente il proprio dissenso per l'articolo, giudicandolo un grave errore politico150.

Effettivamente il dibattito aveva scaturito una polarizzazione definitiva tra riformisti e conservatori che il Primo Segretario aveva tentato più volte di evitare, almeno sino al Congresso di settembre che avrebbe dovuto eleggere i nuovi deputati del Comitato Centrale. E aumentava ancora una volta le difficoltà dello stesso Dubček per dimostrare ai sovietici che non vi era nessun processo controrivoluzionario in atto in Cecoslovacchia. Tuttavia non furono prese misure politiche né contro il gruppo né contro l'autore.