Possono, dunque, didattica e storia, in quanto saperi umani e sociali che studiano i modi attraverso i quali la società si fa carico delle esigenze socio-educative dei gruppi umani, aiutare le giovani generazioni a ripensa- re la sconinata complessità della contemporaneità?
Ad affrontare le crisi educative del presente: di identità, di ambiente, di rapporto intergenerazionale?
Didattica e storia sono saperi fortemente interpellati da questi inter- rogativi. Così come lo è la scelta del dispositivo della microscrittura for- mativa che ci è sembrato il più idoneo a costruire la dialettica fra il lavoro auto-formativo delle donne scrittrici e il lavoro formativo da svolgere in aula attraverso la mediazione storica di quelle scritture.
Questi testi presentano delle signiicative differenze rispetto alle scrit- ture autobiograiche “canoniche”. Innanzitutto nella “postura” epistemo- logica di chi le ha generate. Di solito il “soggetto biografo” non posa sulla carta un deposito di verità eterne ma cerca, attraverso la scrittura, di diventare sempre più ciò che è. L’intento è di raggiungere se stesso e di vivere l’incontro con se stesso, senza ambizioni pedagogiche di alcun tipo. Diverso è il caso delle microstorie formative prodotte in questa ricerca: la scrittura continua sì a serbare il carattere di dispositivo pedagogico che cura il sé attraverso il racconto (Foucault, 1985, p. 55). Ma, nel contempo, essa mette a fuoco temi “storicamente” generativi, e crea le condizioni per un “incontro” formativo. L’essere in-divenire, circoscritto dai vincoli del suo tempo esistenziale, “scopre le sue altezze e le sue profondità […]. In ogni momento ciascun uomo avverte, intenso, il bisogno di ancorare il
proprio continuo movimento a un principio unico e identico al quale ricon- durre il senso e il signiicato di quella molteplicità di mutamenti che segna l’esistenza: la partecipazione dell’uomo a questo continuo luire alimenta, infatti, il bisogno di un’identità sempre uguale a se stessa nella quale rico- noscersi al di là del movimento e dei mutamenti” (Nosari, 2002, p. 63).
La memoria è un bene pedagogico a bassa deperibilità (Demetrio, 1997). Lo è soprattutto quando si fa memoria in gruppo, scrivendo, senza pretese di ordine estetico e senza particolari competenze di tipo letterario. Raccontandosi, semplicemente, dimentichi delle diversità delle proprie ori- gini sociali e culturali, all’insegna di un movimento di ascolto sensibile di sé e dell’altra/o, per incontrarsi e condividere un sapere d’esperienza che è la personale conoscenza dell’umano e della realtà.
Annodare i ricordi nella ricostruzione di ciò che siamo stati ci fa rive- dere diversi nel presente che viviamo, eppure sempre uguali a come si è, perché l’identità permane nel cambiamento degli anni.
Lo sguardo retrospettivo non allinea i ricordi con regolarità perché il suo ine non è la spiegazione ma la ricerca. Si ricerca se stessi, si fa i conti con la propria identità e le sue trasformazioni (Demetrio, 1995, p. 72). A un certo punto la condizione adulta crea le condizioni di una ricerca anche dei “modi” di trasmettere l’esperienza. Di dire il proprio vissuto e il pro- prio vivere.
Scrivere è, infatti, vivere. E vivere è tendere a un ine. Quale ine? Un ine che è intenso: e la vita si “intensiica” dove trova ricchezza di senso, cioè dove non solo è custodita, ma si compie un po’ di più e quindi cresce. La memoria in questo processo “ha una sapienza” tutta speciale: individua i punti della nostra esistenza ove si è annidato lo scatto, la crescita, lo slan- cio, l’evento-stella che ha catalizzato il meglio di noi e messo in ombra il peggio, sovrapponendo e sintetizzando le nostre esperienze in crogiuoli di senso e signiicato ben identiicabili.
La scrittura autobiograica è il dispositivo d’elezione per recuperare alla consapevolezza quei “baricentri esistenziali” che sono le categorie apicali del nostro abitare il mondo: relazioni, famiglia, lavoro, maternità, sessuali- tà… E anche per questo essa acquista, grazie a questo ripescaggio sapiente, una funzione teleologica. Si lavora sulle idee, con e sulle parole, talvolta abbandonandosi ai fatti, talaltra tessendo un ilo tra gli stessi ma, sempre, alla ricerca di un senso che è fatto di uno stretto intreccio fra passioni, ragioni, speranze. Si produce un sapere della distinzione9 e non la mera
descrizione fattuale.
9. Il testo autobiograico si basa su un “gioco” costante di distinzioni: fra cicli di vi- ta, fra il prima e il dopo rispetto a un’evento apicale, fra persone ritratte, fra eventi narrati.
Si cerca, anche inintenzionalmente, un ine che può essere il semplice amore per la scrittura. Lo sapeva bene Kafka di cui Magris, grande esti- matore, ha ricordato l’affezione scrittoria (Magris, 1976).
Là dove gli antichi ponevano in guardia contro il pericolo del propter vitam vivendi perdere causas (perdere le ragioni del vivere per amore della vita), Kafka sceglie una strada diametralmente opposta, ovvero quella di ricercare nella scrittura il senso del vivere teso a scoprire la verità che do- vrebbe giustiicarla. E lo fa avvalendosi delle lettere, che scrisse innumere- voli: agli amici, ai familiari, alle donne amate. Per Kafka l’unico modo di vivere era scrivere. Perché nello scrivere, secondo lui, si annidava la verità.
Attraverso la scrittura autobiograica cerchiamo quanto può rispondere alla nostra ininita domanda di compiutezza, di salvezza dagli smarrimenti in agguato nella fatica del vivere, di condivisione del dubbio insomma.
Mai nessuna stagione storica dal dopoguerra ha generato dubbi in mas- simo grado e numero quanto il Sessantotto. E, dunque, la scrittura ha una funzione chiariicatrice importantissima per aiutare chi cresce a gettare lo sguardo su quegli anni per capirli attraverso le biograie e le autobiograie di chi li ha vissuti, oltre che per vederli ricostruiti, con grazia e sapienza da specialisti, dagli storici di professione.
Scrivere il Sessantotto è stata dunque, per il gruppo delle donne scrit- trici e per noi ricercatrici che le abbiamo accompagnate, oltre che un’espe- rienza inedita (e, per questo, certamente originale), anche un’occasione di “condivisione di umanità” (Louch, 1969), dei motivi, delle intenzioni, delle illusioni che quegli anni hanno generato.
Afferma Louch a questo proposito che si racconta sia per conservare quanto si ritiene di aver ricevuto dalla generazione che ci ha preceduto, sia per trovare parole convincenti per parlare alle nuove generazioni delle pro- prie esperienze: “e il fatto di avere gli stessi strumenti, lo stesso equipag- giamento biologico e sociale, favorisce la nostra comprensione reciproca e la sicurezza nell’attribuire inalità e motivi agli altri” (Louch, 1969, p. 67). Certo, avverte Demetrio, “agli altri può importare assai poco il racconto delle vicissitudini dei minuscoli o pretenziosi oggetti che ci appartengono” (Demetrio, 1995, p. 109) e, dunque, sarebbe buona regola ricordare che al di là degli altruismi colorati da sfumature educative, scriviamo in compa- gnia soprattutto di noi stessi.
È su questo sfondo che va letta l’esperienza condivisa di ricerca-forma- zione condotta col gruppo di donne scrittrici.
Due soprattutto le domande che hanno mosso il progetto: può l’espe- rienza “sessantottina”, vissuta nel contesto naturale della vita quotidiana della ine del decennio Sessanta-Settanta, aver generato uno spostamento
dello sguardo – un vero e proprio “straniamento”10 (Laneve, 2009, p. 143) o
“spiazzamento” (Formenti, 1998, p. 152) sui modi di intendere la materni- tà, la famiglia, la relazione, la sessualità, il lavoro?
E in che misura quella esperienza unica, singolare e condivisa attraver- so la scrittura, può contribuire a costruire un senso diverso, oggi, di inten- dere l’essere madre, l’agire la politica, il realizzarsi nel lavoro? Un senso da costruire e trasmettere a chi è oggi una giovane o un giovane e quel tempo l’ha sentito solo raccontare o lo ha letto nei libri di storia?
Il punto di partenza è stato, dunque, certamente il sé celato nella scrit- tura della propria microstoria (epperciò non qualcosa di estraneo e lonta- no). Gli approdi educativi hanno invece riguardato l’ermeneutica del sé entro lo spazio allargato di una rilessione condivisa su ciò che, a partire dalla data cruciale del Sessantotto, è accaduto sino ai nostri giorni: in cosa esattamente quei sé ne sono usciti modiicati, feriti, potenziati.
La prospettiva del lavoro è stata, dunque, non solo testimoniale ma di- namica ed evolutiva. E orientata pedagogicamente in senso autoformativo oltre che, inevitabilmente, anche profondamente formativo. Per questo le microscritture sembrano legate da un il-rouge che le tiene insieme sul pia- no delle inalità (comuni), benché generate da “penne” diverse. Lo “sfondo integratore” è il tempo storico comune vissuto, il conlitto generazionale con la cultura di provenienza. Ma il senso formativo soggiacente è aver fatto il punto sulla densità delle esperienze vissute in quella frattura tempo- rale di cui ciascuna si è sentita talvolta interprete, talatra testimone.
Considero pertanto il lavoro svolto in questa ricerca una particolare declinazione di agire educativo (Perla, Riva, 2016) attraverso il mediatore della scrittura narrativa: quest’ultima, infatti, consente all’adulto di “fare memoria” di pezzi di storia personale ma anche di creare le condizioni – a vantaggio dei più giovani – di penetrazione dei motivi, delle ragioni e delle azioni di quella memoria, in questo caso nazionale, del sessantotto milanese.
In quelle microstorie è celato il senso, che la ricerca ha provato a illu- minare, della reinterpretazione di categorie esistenziali fondative del pro- prio sé quali la maternità, la famiglia, la relazione, la sessualità, il lavoro. Le microstorie hanno “corporeizzato” tali categorie, astratte e disincarnate
10. Lo “straniamento” in letteratura è un procedimento compositivo che genera una nuova percezione di una realtà nota, ottenendolo mediante la modiicazione delle tecniche espressive e la deformazione linguistica. Nel nostro caso la curiosità di ricerca nasce dal capire ino a quanto profondamente abbia inciso l’esperienza del Sessantotto nel modo di queste donne di ri-guardare, da una angolazione diversa, esperienze fondamentali dell’esi- stenza esplicitando attraverso le parole scritte quel mutamento culturale che quella pecu- liare generazione ha vissuto sulla sua pelle.
in linea di principio, e le ha restituite alla lettura con la densità di chi, in carne-ed-ossa, ha attraversato quegli anni.
Si intuisce che i guadagni rinvenibili in questo lavoro sono stati molte- plici. Il primo, l’ho già in parte richiamato, attiene al lavoro autoformativo svolto in età adulta dalle donne coinvolte (Formenti, 1998) che hanno “con- segnato” come un “dono generativo” le loro microscritture a chi il sessan- totto, per ragioni puramente anagraiche, non ha potuto viverlo, come chi scrive.
Ciò è stato possibile anche perché, se sino a ieri l’età della vita adulta era più breve (ed era anticamera di una vecchiaia anch’essa breve), oggi, con l’allungamento della vita, la stagione adulta ha acquistato il tratto della “interminabilità” che sembrava proprio solo dell’adolescenza. Si è allungata la vita e, con essa, anche il tempo prezioso della possibilità della forma- zione. Nel corso di questa vita allungata si moltiplicano le esperienze e le transizioni che implicano cambi di passo e l’assunzione di posture esisten- ziali differenti rispetto a quelle della prima giovinezza.
L’analisi dei testi ha permesso di esplicitare chiaramente tali passaggi indicativi di un’esperienza mutativa del proprio sé, aperta anche alla tra- scendenza (per chi crede). E ha rivelato pienamente, agli occhi di noi ri- cercatrici, la complessità della condizione adulta contemporanea che l’esito dell’estensione cronologica dovuta al miglioramento della qualità della vita, rende ancor più ricca di possibilità generative di saperi: l’adulto è chiamato a offrire servizi, prestazioni, comportamenti attesi e, più o meno espres- samente, gli si chiede di essere responsabile, di auto-educarsi, di essere la guida di se stesso per cui appare come il frutto di molteplici “formazioni e de-formazioni” (Formenti, 1998, p. 14). Ma l’adulto può essere anche Maestro (Perla, 2011), offrendo la propria esperienza di vita ri-elaborata come dono di un’età generativa.
La vicenda esperienziale del Sessantotto ha prodotto, indiscutibilmen- te, nelle esistenze di queste cinque giovani donne una transizione talvolta “feroce” da una formazione (quella ricevuta dalla generazione precedente) a una de-formazione (quella prodotta dai processi di mutamento socio- culturale propri di quegli anni). Per questo le traiettorie biograiche che tali transizioni disegnano risultano assai interessanti dal punto di vista pedagogico: esse contribuiscono a delineare un paradigma di adultità con- temporaneo che trova la sua misura non soltanto nella naturale dinamica evolutiva dell’essere umano ma nella sua competenza auto-trasformativa, nell’accreditare una “testimonianza di educabilità permamente” per chi si affaccia oggi alla vita, oggi, in un contesto sociale di enorme complessità qual è quello contemporaneo che richiede lo sviluppo di una postura auto- trasformativa permanente. È infatti oggettivo: le rivoluzioni industriali du-
rano sempre meno e la quarta, quella legata alle innovazioni tecnologiche, si stima durerà fra i dieci e i quindici anni al massimo. Secondo il McKin- sey Global Institute, l’intelligenza artiiciale sostituirà 800 milioni di posti di lavoro entro il 2030. Uno scenario che sta generando una comunità di adulti confusi e privi di visione, poco signiicativi a fronte di giovani che cercano riferimenti diversi per affrontare le side più complesse cui sono chiamati. Viviamo un presente di “rotture” generazionali e di ignoranza funzionale che impone una trasformazione nel mondo del lavoro ma, an- zitutto, a livello personale. E questa trasformazione non può che essere sul piano della formazione, dell’imparare a imparare: “imparare ad imparare signiica dunque non solo abituarsi all’idea che la formazione permanente sia l’unico paradigma per costruire un modello sociale eficiente, ma anche disinnescare il rischio di questa rottura generazionale” (Tenchini, 2020).
Un secondo guadagno rinviene dal fatto che la ricerca ha rappresentato un’ulteriore conferma all’ipotesi già ampiamente validata in letteratura che la scrittura narrativa riesce ad appagare anche la domanda formativa im- plicita dell’adulto: far chiarezza e memoria del proprio passato ma, anche, consapevolizzarsi circa il proprio ruolo di garanti dell’educazione dei gio- vani a una formazione storica che di quel passato sa ben poco.
Scrivere del e sul Sessantotto attraverso la messa in parola dell’espe- rienza di quegli anni costituisce, infatti, una fonte primaria importantis- sima per leggere la transizione culturale più profonda che il nostro Paese abbia attraversato dal dopoguerra ad oggi. Tale fonte dovrebbe essere mas- simamente valorizzata a Scuola e all’Università, nell’insegnamento della storia, perché sotto il proilo storico, le testimonianze in prima persona sono “materiale privilegiato, anziché secondario, rispetto ai documenti uf- iciali. Per il 1968 questo vale in modo particolarissimo, poiché spesso chi agiva non scriveva documenti, e i resoconti della stampa e della tv erano particolarmente menzogneri…” (“Micromega”, p. 3).
Le testimonianze offerte attraverso queste cinque microstorie formative possono, dunque, essere considerate fonti primarie preziose.